POESIA - 1


Arturo Lini


Appena stella

Di tutto quello che già era 
tocca ora la tua voce, 

e ne sopisce le distanze 
una sussurrata visione, 

appena stella 
che sul mio tempo stai 
con grazia di madre. 

Appena sono i passi, 
chiaroscuri i domani 

dai quali sorte 
come in una festa pagana 
un'antica dolcezza. 

Come un caldo pullover 
tieni sulle spalle i giorni, 

un'imberbe età ti accarezza 
e posa in uno specchio 
le tue parole. 

Nel tuo respiro cullata 
un'immagine ripete 
l'antico sfarzo della gioventù.

Poesia per le strade

Questa di noi,
morbida silhouette avvolta di parole,
con elegante rosso passo
per le strade del mondo cammina,
sofisticata poesia
leggera come seta e aerei glisse.
Questa di noi,
da una strada toscana sbocciata,
fino all'intreccio delle mani
che ornano il corpo di artigianali splendori,
dall'antica fiaba sorti
di un prodotto made in Italy.
Tra architetture di tulle e di cotoni,
di colori sgualciti e fibre naturali,
con dolce sobrietà
tra le strade del mondo ora cammina,
a raccontare la nostra leggerezza,
questa di noi tutti poesia.

Il sogno del poeta

Sogno di svegliarmi su una spiaggia
e intorno a me il mare ha portato bianche conchiglie.
E da ognuna escono parole che insieme formano
la più bella delle poesie che mai abbia udito.
Allora mi sveglio
e subito cerco di trascrivere quelle parole
che avevano abitato il mio sogno.
Ma un altro è il ricordo,
e presto mi accorgo che di quella armonia
altro non rimane che una vuota grafia.

Voci

E' la voce nella quale confondi
il brulichio delle tue labbra,

questo correre di telefoni
di auto, di urla,

uscite dai tram, dagli ascensori, dalle stanze,
dove poi ritornano: vele ora ammainate.

(Come una enorme telenovella
ora stende la sua benedizione
una pubblicità d'altre cose)

Voce ora roca, grave, sotterranea,
seducente come una pace:

voce dagli angoli, dagli specchi, dalle stanze,
dalle antenne, dai semafori, dalla tua pelle,

voce che mi dici 
come una strada deserta e nuda,
senza niente altro che sé,

e qualche lampada accesa che trafora
il suo muto, scontroso ottimismo:
alcova di piccioni e di stelle.   

Dancing

Con fare da ubriaco
- dondolano nei miei occhi
le luci della stanza - 

ad ogni cuore ho ripetuto
del mio le parole più simili

per giungere a te, sconosciuta dea
di questa sala da ballo.

Sotto le tue ciglia cresce
un sì ed un no,

indifferenti attese,
e passi di danza.

Poi ridi, e già altrove 
è il suono delle tue labbra.

Quale dono per te, benvenuta
sopra il buio delle notti?

Piccoli semi appaiono i giorni,
vaporosi come istanti,

ed il tempo una terra incolta 
che la musica cinge di baci.   

Nota

Arturo Lini nasce a Volterra nel 1948. Successivamente si sposta in Versilia, dove vive fino alla metà degli anni Settanta quando si trasferisce a Firenze, nello storico quartiere di Santa Croce, residenza che nel tempo sempre alternerà con l'attuale in Versilia. Si diploma presso l'Istituto Magistrale Paladini di Lucca, e successivamente consegue il titolo di grafico pubblicitario presso la Scuola Accademia di Roma. 
Da subito innamorato della parola poetica, partecipa ai climi della poesia sperimentale degli anni Settanta, prendendo poi parte alle ricerche verbo-visuali tra parola e forma, parallele alla definizione di un personale linguaggio pittorico composto di parole, segni pittografici, forme simboliche e primordiali. Nel 2003 fonda poesianet.it, portale dedicato alla poesia digitale e più in generale alla net-art. Vive a Stiava, nella campagna versiliese. Per una più completa panoramica: http://www.artlini.net/bio.htm

Galway Kinnell

LA FORMA DOPPIA DI UN'UNICA SOSTANZA: QUATTRO POESIE DI GALWAY KINNELL
commento e traduzione di Alessandro Manitto

Il senso della trascendenza comporta la visione di una realtà "altra" rispetto al mondo materiale. Questa dualità, tema principale della poesia di Galway Kinnell, non si offre mai come contrapposizione: lo spirito e la carne, per lui, sono aspetti compresenti di una sola essenza, intensamente legati alla quotidianità e quindi allo scorrere del Tempo. In questo senso, incatenati alla prospettiva della Morte.
Nella scrittura, ovviamente, i due elementi si presentano come forme stilistiche. La poesia di Kinnell modula i toni colloquiali del quotidiano e quelli misteriosi del trascendente.
In Fisherman, il pescatore è simbolo nitido di una condizione tipicamente umana: l'avanzare nella notte del mondo, e il catturare dalle buie profondità, per mezzo della rete della consapevolezza, "qualsiasi cosa", facendola così emergere nell'immagine del mondo. In definitiva, la condizione eroica dell'Uomo. Ma la poesia non si arena nella stilizzazione, perché lo spirito è anche carne e vive giorno dopo giorno, immerso nella vicenda umanissima della separazione, dell'amore infelice, della paura che si accompagna ad ogni allargamento della coscienza. Il risultato è uno struggente desiderio di riparazione. Impossibile, perchè potrebbe avvenire solo sovvertendo il procedere del Tempo.
Un tale sovvertimento lo troviamo espresso nella poesia seguente: il titolo (Daybreak) si riferisce all'alba, ma è il tramonto lo scenario principale. La trascendenza si afferma qui nel paragone tra le stelle del cielo e le stelle "del fango". In qualche modo la loro è una identità, e si rende visibile nel movimento speculare che unisce idealmente l'alto e il basso. Il testo è semplice e diretto. Il simbolismo "doppio", a sfondo naturale, richiama in modo evidente la poesia di William Blake.
Stelle marine che, quasi con un moto di introversione, sprofondano nel fango: non è certo un'immagine classica di bellezza. Kinnell vuole andare fino in fondo alla materialità, e lo fa indagando il brutto, il repellente. La ricerca è evidente in The Fly. Di nuovo troviamo una dualità (l'ape vitale e la mosca ambasciatrice della fine) e la drammatica condizione di chi vive nell'attesa della morte. La decadenza della carne è presentata con uno spirito quasi barocco, da "memento mori".
After Making Love We Hear Footsteps, infine, ci mostra in maniera esemplare la capacità di Kinnell di scivolare dentro e fuori il tessuto del reale. All'inizio, in tono divertito, il poeta introduce una scena buffa e piena di leggerezza affettiva: il bambino corre nel lettone dei genitori ogni volta che questi fanno l'amore. Ma la poesia non si interrompe all'interno di questo quadretto di vita familiare, perchè Kinnell la chiude riconducendo l'immagine dei genitori e del piccolo ad un simbolo di unità che è, allo stesso tempo, naturale e sovrannaturale. La progressione è esplicita, ed ha qualcosa di alchemico: ironia, sentimento e trasfigurazione.

Fisherman
for Allen Planz

Solitary man, standing
on the Atlantic, high up on the floodtide
under the moon, hauling at nets
that shudder sideways under the mutilated darkness:
the one you hugged and slept with so often,
who hugged you and slept with you so often,
who has gone away now
into the imaginary moonlight of the greater world,
perhaps look back at where you stand abandoned
on the floodtide, hauling at nets
and dragging from the darkness
anything, and reaches back
to touch you
and speak to you
from that other relation to which she suddenly acquiesced dumbfounded,
but instead only sings
in the sea-birds and breeze you imagine you remember but that you truly hear.

I don't know how you loved
or what marriage was and wasn't between you -
not even close friends understand very much of that -
but I know ordinary life was hard
and worry joined your brains' faces in pure, baffled lines,
and therefore some part of you will have gone
with her, imprinted now
into that world that she alone doesn't fear
and that now you will have partly ceased fearing,
and waits there to recognize you into it
after you've lived, lived past the sorrows,
if that happens, after all the time in the world.

Pescatore

Uomo solitario, ritto

sull'Atlantico, alto sul flusso della marea
sotto la luna, che trascini al tuo fianco
reti percorse da brividi sotto l'oscurità mutilata:
lei che hai abbracciato e con cui hai condiviso il letto tanto spesso,
che ti ha abbracciato e che ha condiviso il letto con te tanto spesso,
ora è andata via
nel chiaro di luna immaginario del mondo sconfinato,
forse guarda indietro nel punto in cui ti ergi abbandonato
sul flusso della marea, trascinando le reti
sottraendo all'oscurità
qualsiasi cosa, forse torna indietro
per toccarti
per parlarti
via da quella nuova relazione alla quale, con improvviso stupore, si è adeguata
e invece semplicemente canta
con la voce degli uccelli di mare e della brezza, e tu immagini, ricordi, ma è solo questo che
davvero stai ascoltando.

Non so in che modo hai amato
o come andasse il matrimonio fra voi -
neanche gli amici più intimi possono entrare molto in tali questioni -
ma so che la vita quotidiana era difficile
e la preoccupazione aveva modificato l'espressione della tua intelligenza in tratti di puro sconcerto,
e per questo una parte di te un giorno sarà andata via
con lei, impressa allora
in quel mondo che lei sola non teme
e che ora tu avrai in parte smesso di temere,
là ti aspetterà per riconoscerti attraverso di essa
dopo che avrai vissuto, vissuto oltre la sofferenza,
forse, al completo esaurirsi del tempo nel mondo.

Daybreak

On the tidal mud, just before sunset,

dozen of starfishes
were creeping. It was
as though the mud were a sky
and enormous, imperfect stars
moved across it as slowly
as the actual stars cross heaven.
All at once they stopped,
and, as if they had simply
increased their receptivity
to gravity, they sank down
into the mud, faded down
into it and lay still, and by the time
pink of sunset broke across them
they were as invisible
as the true stars at daybreak.

Alba

Sul fango lasciato dalla marea, poco prima del tramonto,
dozzine di stelle marine
hanno strisciato. Era come se
il fango fosse il cielo
e enormi stelle imperfette
lo attraversassero lentamente
mentre le autentiche stelle si muovevano per il firmamento.
Tutto ad un tratto si fermarono
e, come se avessero semplicemente aumentato
la loro sensibilità alla forza gravitazionale,
sprofondarono giù
nel fango, scomparendo
e restando immobili dentro di esso, e solo allora
la luce rosa del tramonto eruppe su di loro
invisibili
come vere stelle dell'alba.

The fly

The fly
I've just brushed
off my face keeps buzzing
about me, flesh-
eater
starved for the soul.

One day I may learn to suffer
his mizzling, sporadic stroll over eyelid or cheek,
even hear my own notes
in his burnt song.

The bee is the fleur-the-lys in the flesh.
She has a tuft of the sun on her back.
She brings sexual love to the narcissus flower.
She sings of fulfillment only
and stings and dies.
And everything she touches
is opening, opening.

And yet we say our last goodbye
to the fly last,
the flesh-fly last,
the absolute last,
the naked dirty reality of him last.

La mosca

La mosca
che ho appena spazzato
dal mio volto continua a ronzare
a parlare di me, di carne
divoratrice
affamata di anime.

Un giorno forse imparerò a soffrire
la sua occasionale passeggiata ticchettante su una palpebra o una guancia
e a scoprire le mie stesse note
nella sua canzone bruciata.

L'ape è emblema del giglio nella carne.
Ha sul dorso la peluria del sole.
Reca l'amore sessuale al fiore di narciso.
Canta solo di appagamento
e poi punge, e muore.
Ogni cosa che tocca
si apre, si apre.

Eppure noi ci congediamo
al cospetto della mosca
la mosca che si nutre della nostra carne, estrema
ultima in assoluto,
la sua nuda e sporca realtà, definitiva.

After making love we hear footsteps

For I can snore like a bullhorn
or play loud music
or sit up talking with any reasonably sober Irishman
and Fergus will only sink deeper
into his dreamless sleep, which goes by all in one flash,
but let there be that heavy breathing
or a stifled come-cry anywhere in the house
and he will wrench himself awake
and make for it on the run - as now, we lie together,
after making love, quiet, touching along the length of our bodies,
familiar touch of the long-married,
and he appears - in his baseball pajamas, it happens,
the neck opening so small
he has to screw them on, which one day may make him wonder
about the mental capacity of baseball players -
and flops down between us and hugs us and snuggles himself to sleep,
his face gleaming with satisfaction at being this very child.

In the half darkness we look at each other
and smile
and touch arms across his little, startling muscled body -
this one whom habit of memory propels to the ground of his making,
sleeper only the mortal sounds can sing awake,
this blessing love gives again into our arms.

Dopo aver fatto l'amore abbiamo sentito dei passi

Perchè posso russare come un trombone
o ascoltare musica ad alto volume
o rimanere alzato a parlare con qualsiasi irlandese che sia abbastanza sobrio,
e tanto Fergus affonderà sempre più
nel suo sonno privo di sogni, che passa tutto in un lampo;
ma se mai echeggiasse un ansimare
o un gridolino soffocato di piacere in qualche recesso della casa
ecco che allora si strapperà a forza dal cuscino, perfettamente sveglio,
e si precipiterà lì di corsa - proprio come adesso, che siamo qui distesi
insieme, dopo aver fatto l'amore, tranquilli, e accarezziamo l'interezza dei nostri corpi
con il tocco familiare di chi è sposato da tempo,
e compare lui - nella maglia da baseball che usa come pigiama, ma guarda un po',
ha il colletto tanto stretto
che ha dovuto avvolgersela tutta intorno, cosa che un giorno lo spingerà
a farsi qualche domanda sulle capacità mentali dei giocatori di baseball -
e si lascia cadere in mezzo a noi e ci abbraccia e si rannicchia per dormire
il viso raggiante per il piacere di essere così intensamente bambino.

Nella semioscurità ci guardiamo
sorridendo
e ci sfioriamo le braccia al di sopra del suo piccolo corpo dai muscoli sorprendenti -
lui che un'intima memoria ininterrotta riconduce alla terra del proprio concepimento
dormiente che solo l'effimera canzone dell'ardore può svegliare
dono che l'amore regala nuovamente al nostro abbraccio.

Commento e traduzioni sono di proprietà dell'autore. Ne è vietata la riproduzione, anche parziale, se non dietro esplicito consenso dello stesso. Per informazioni: info@alessandromanitto.com

Nota


Galway Kinnell (Providence, 1 febbraio 1927) è un poeta statunitense.
Fin dalla prima raccolta,
 Che regno era (What a Kingdom It Was, 1960), la sua poesia di mistico moderno fissa il percorso simbolico di una esistenza divisa fra sofferenza notturna e l'idillio del giorno, tra l'adesione al mondo materiale, sociale, contemporaneo, e l'immersione nella tenebra. In Poesie della notte (1968) e Il libro degli incubi (The Book of Nightmares, 1971) l'ansia di conciliare gli opposti, mai appagata in Kinnell, trova precisi modelli formali nella ricerca alchemica - nella metafora del fuoco rigeneratore - e nel processo onirico, che coinvolgono la scrittura in uno scomporsi e ricrearsi di nuove strutture lessicali.
Artista dai molti maestri (Walt Whitman, Gerard Manley Hopkins, William Butler Yeats, Pablo Neruda, Yves Bonnefoy, da lui tradotto, come anche François Villon) e dal lungo apprendistato, Kinnell è tra le voci più forti ed inquietanti della poesia americana contemporanea.

http://it.wikipedia.org/wiki/Galway_Kinnell

Alessandro Manitto insegna dal 2000 scrittura creativa e cinema, e lavora come autore per Walt Disney Television Italia nell'ambito del progetto di divulgazione scientifica AttivaMente. http://www.alessandromanitto.com/

Cristiano Seregni

"Un cespuglio sulla roccia dell'isola, bello da vedere ma perché inerpicarsi per toccarlo. Macché, é un mucchio di erbacce, come in un muretto di periferia, inutile e pieno di insetti e piscio di cane. Assomiglia a un uomo, che valore supponi abbia. Non c'é un frammento dentro di lui che faccia una sola parte di lui."

Quello che vedete è solo la parte monumentale
la gloria, quello che resta della grandezza
la ricercata espressione
dell’uomo.
Per conoscerne l’intimo ed il vero
la rivelazione del quotidiano
dovreste spostarvi in un’altra città.
Là sono i resti più belli
protetti dal vandalismo, dai ladri, dal tempo,
l’assenza di ossigeno li ha conservati
l’amore e la passione hanno impedito che li confondessimo
avremmo altrimenti scambiato la pietra per anima
restaurato la parte meno fragile
della donna.

Tutto da niente poi niente da tutto
come mai ancora qui allora
non c’è più è deceduto
era arrivato in ritardo in città
con tutti gli omaggi fatti
ha avuto come dubbio
il sorriso dei bambini
e certezza del tuo abbandono.
Distribuiva susine gialle a più persone
anche se la stagione era ancora fredda
per questo non hai capito che era un maschio.
Come non lo abbiamo mai saputo
ha lasciato intendimento delle tue
si tue convinzioni
e poi ha dormito lì
puoi vedere dov’eri
mentre prendeva tempo.
Se aspetti qui lo andiamo a chiamare.

Dovrei essere surclassato da certi effetti
ed invece l’ho chiamato
ogni giorno l’amore è tornato,
per rimanere qualche minuto
dalla bocca tua si fa leccare
insiste per ascoltarne ancora le considerazioni
la curiosa ombra si congiunge al sogno mio
scarno ma fertile
poi ogni giorno scivola fra le mani
da lì se ne va.

Poesie tratte dal libro Spiacenti, siamo fuori tutto l'anno (2009)
Edizione privata in cerca di editore

Nota

Cristiano Seregni è nato a Roma nel 1969.
Ha fatto studi di etnomusicologia e archeologia-antropologia.
E' musicista, compositore, arrangiatore e sound editor; si occupa inoltre di web design.
I suoi interessi sono da sempre focalizzati sugli aspetti artistici e tecnici di musica, suono, illuminazione, e in egual misura di storia e archeologia, arte e illustrazione. Ha lavorato nell’industria dello spettacolo ricoprendo ruoli artistici e tecnici. Oggi è titolare della galleria d'arte contemporanea
 Il Quadrupede di Roma.

Cristiano Mattia Ricci

In giardino

Hai trovato un cane morto in giardino
E l’hai avvolto in un lenzuolo. Hai telefonato
Alla polizia e gli hai cantato una canzone.

Il cane si è svegliato e ha fischiato il tuo motivo.
Dopo, nuovamente si è disteso sul tuo tavolo e ti chiede
Di rimettergli indosso il lenzuolo, perché ha freddo.

Cazzo di un cane morto che comanda e mi detta
le regole.

La polizia è arrivata. Ti ha riempito il giardino.
Il cane era nella sala e continuava a fischiare
La tua canzone. Infine ha mostrato i documenti
Al poliziotto che piangeva. Era il figlio proprio
Di quest’agente. Era un cane anche l’agente della
Polizia e detestava le regole. Ha iniziato a bastonarmi
Sul cranio e sulle costole ed io piangevo.
Poi dal frigo ho tirato fuori una bottiglia di birra
E tutti insieme l’abbiamo bevuta. Abbiamo parlato
Di politica. Della situazione italiana, della mafia.
Della nascita di Forza Italia. Della Tv commerciale
In Italia, dei principali gruppi editoriali. Della giustizia
E del consenso di un uomo con fare criminale.

Ci siamo salutati, baciandoci mani e zampe.
In giardino è spuntata l’alba che i poliziotti ancora
Dormivano sotto gli alberi. Ci siamo dati appuntamento
In un bar per la mattina seguente e tutto mi è parso davvero costruttivo
Ed infinitamente utile. Qualcosa di davvero entusiasmante.
Mi sono sentito di esprimere la mia più sentita gratitudine alla vita.

15 febbraio 2010

Il segnale

Ora basta.
M’infilo il giubbotto ed esco;
Corro ed insieme maledico la mia specie.

Non è per scarso amore,
Ma sono stanco di amare per nulla.

E’ andata così; abbiamo preso l’autobus
Per più volte, il giorno prima.
E dopo, anche i giorni seguenti.

Abbiamo provato a cantare insieme e ci siamo
Incontrati che scendevi alla fermata.
Poi tutto s’è bloccato. I capelli, impigliati.
Le mani, immobilizzate ed impagliate.
Il fiato, sospeso. Lo sguardo, paralizzato.

Solo dopo hai sentito il segnale. Proveniva
Dalla strada e la gente che rideva. L’aereo
Sorvolava la zona e il sole iniziava a calare.
I cani hanno abbaiato e le persone sono
Montate in sella alle biciclette.

La voce grossa della radio, si è distesa su di noi;
Ci siamo nascosti dove abbiamo potuto.
Soltanto allora, abbiamo starnutito con veemenza,

la nostra rabbia e i sogni insieme.

15 febbraio 2010

Con parole di Irving Mills

Luce che balla, luce
Che fioca scorre sulle mensole
Del pomeriggio. Luce che non c’è
E che mostra tutta la sua pienezza.

E il gatto ride e ascolta con le cuffie,
le migliori versioni jazz di Duke Ellington;
In a Sentimental Mood, con parole di Irving Mills.

Gatto del sentimento della luce
E gatto di voce che intona se stesso.

Gatto come Ella Fitz e come me che scrivo
E invece vorrei cantare.

“Luce che abbagli, hai smesso
Di proporre faccende serie. Resti solo
Luce, ma moscia e sbiadita. Luce che fa
I conti col reale. Con l’economia dell’esistenza
E con la vita che avanza. Con questa stanza
E con i miei pensieri. Con i peli del mio naso
E con le stelle della volta celeste”.

15 febbraio – 30 aprile 2010

Io la birra e tu dell'acqua gasata

Si, abbiamo potuto danzare, infischiandocene
Del pleistocene.

Abbiamo potuto amarci, spremendo i nostri
Sessi e baciandoci senza amore.

Eravamo davvero esausti di sentire il frastuono.
Esausti della mancanza di ironia che proveniva dalla strada.
Tu hai preso la chitarra e hai cominciato a ruttare e piangere.
Io ho preso un coltello affilato e mi sono tagliato una fetta di formaggio.
Poi hai preso il salame, disquisendo di sesso e politica.
Da fuori, venivano le grida.
C’era appena stato un incidente mortale.

Noi, abbiamo mangiato il salame e bevuto, io la birra
E tu dell’acqua gasata. Abbiamo poi tirato giù le tapparelle
E infine siamo andati a dormire.
Mi sentivo morto, ma era solo il russare
Delle stelle, del cielo, dell’amore, del grande
Cuore che si stagliava come un culo nei miei sogni;

come in una pubblicità televisiva
di un canale commerciale, italiano.

Come se un cammello,
all’improvviso, ci attraversasse la strada.

15 febbraio 2010

Nota

Cristiano Mattia Ricci è nato a Cesena nel 1973. E’ diplomato al Liceo artistico e laureato in architettura presso il Politecnico di Milano.
Tra il 1995 e il 2003 ha scritto poesie e ha partecipato a reading poetici; suoi testi sono stati pubblicati su riviste di settore, antologie e edizioni d'arte.
Nel 2000 ha fondato il 
Cerchio Azzurro, che si occupa di esplorare i nessi tra arti visive, letterature, musica.
Nel 2003, con la personale Retornos de lo vivo lejano (Quadreria del Lotto, Trapani), il suo linguaggio pittorico è radicalmente cambiato, conquistando una significativa maturità. Da allora partecipa regolarmente a esposizioni collettive, tra le quali si segnalano 10 per 10. Questioni di Matematica (Florilegio Arte, Leno – Brescia, 2006), Preghiere – Approdi minoritari dell’anima (Art Gallery Bistrot Garden Grove, Roma, 2007), Fundus (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2008), Polifonie (Cavenaghi Arte, Milano, 2008) e 7x11. La poesia degli artisti (2010)mostra/collezione itinerante che ha preso forma chiedendo a 77 artisti visivi di illustrare un testo poetico da loro stessi prescelto (nel caso di Ricci, una poesia di Alessio Luise). Quest'ultima esposizione è stata inaugurata alla Fiera del Libro Pordenonelegge, e dopo essere stata ospitata presso la Fondazione Tito Balestra di Longiano (FC) è approdata a Milano, da dove proseguirà il suo "tour" nazionale. Tra le personali più recenti di Cristiano Ricci vanno citate Kunst im Wechsel – Arte in cambio (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2007), e Vahine's ballad (galleria Artycon, all’interno della manifestazione d’arte contemporanea Kunstansichten 2009).
Nel 2009 un suo progetto di scultura urbana per Milano è stato segnalato nell'ambito del concorso Scultura nella città, indetto dalla Permanente, che ha previsto l'esposizione alla Permanente stessa delle tavole preparatorie e dei modelli relativi ai progetti selezionati. Con l'occasione è stato pubblicato un catalogo edito da Skira.
Sue opere sono presenti presso collezioni private italiane ed estere.

http://www.cristianomattiaricci.com/

Sharon Olds


IL CERCHIO MAGICO DELL'AGGRESSIONE: QUATTRO POESIE DI SHARON OLDS
commento e traduzione di Alessandro Manitto

Sharon Olds cerca la propria immagine, e lo fa attraverso il rispecchiamento. Si osserva nei propri aggressori, ne assume il ruolo, ne ruba la voce che trasforma in stile poetico.
Le quattro poesie che ho qui tradotto rappresentano i quadranti dell'arena di questo conflitto interiore. Sono le aree tematiche ciclicamente attraversate dal suo sentire, i modi in cui prende forma la sua identità. Com'è giusto che sia, sono sia argomenti di riflessione che profonde e confuse condizioni esistenziali. Sono: la reciprocità di ogni legame; l'illusoria soluzione dello scambio di ruolo; l'osmosi affettiva che confonde l'identità; il sollievo provvisorio del distacco.
The sash (Il nastro) è l'oggetto-simbolo che lega (materialmente) e collega (tematicamente). E' filo conduttore di una esposizione di tipo narrativo, come spesso accade nelle poesie della Olds. Esiste un prima, un dopo, e in mezzo un punto di svolta, che stravolge a sorpresa l'atmosfera del racconto. Ciò che era rassicurante, ora è fonte di turbamento: il nastro utilizzato nei giochi innocenti dell'infanzia accentra su di sé, nella pubertà, il desiderio contrastato di bellezza e l'emozione del sesso. In seguito, tra scoppi di violenza verbale, che sono sia esorcismo che ritorsione, si rivela anche strumento di abuso familiare. Ma vittima e carnefice sono "legati", come tutti gli esseri umani, e questa indissolubilità trasfigura in maniera religiosa l'oggetto del titolo, identificandolo con il concetto scientifico del "nastro di Moebius" (1).
Ho parlato di narrazione, e voglio approfondire l'analisi di questo procedimento stilistico, che nella Olds prende anche valenze esistenziali. Infatti, nelle sue poesie il punto di svolta assume spesso la forma del ribaltamento, come accade chiaramente in The victims (Le vittime). Il ribaltamento è la figura narrativizzata dell'antitesi: gli opposti non sono più compresenti ma si alternano, creando l'illusione del cambiamento. Il paradosso interiore rimane però attivo. L'opposto è in ombra, ma più che mai presente. La Olds lo sa e spalanca la sua poesia al sottotesto.
Chi sono, qui, le "vittime"? I bambini che gioiscono della distruzione del padre? La madre che lo sbatte fuori di casa? Il padre stesso, probabile alcolista? I poveri senzatetto, raffigurati nel loro disfacimento con immagini gotiche degne di un Poe o di un Coleridge? Il vertiginoso rispecchiamento dei ruoli trasforma il titolo della poesia in una "parola-ombrello" e, allo stesso tempo, in un'antitesi ad un solo termine: tutti (figli, madre, padre, homeless) sono vittime e carnefici.
Borders (I confini). Questo il titolo, ma il tema della poesia è il suo esatto opposto: l'inesistenza di un confine tra due esseri umani. La poetessa scopre che il tentativo di identificarsi in un ruolo confonde, più che chiarire. Chi è stata figlia ora è madre, e per essere una madre diversa dovrà essere principalmente se stessa. Emerge quindi, per mezzo di una bella metafora acquatica, il tema della diluizione del sé provocata da rapporti affettivi particolarmente osmotici. Una poesia molto drammatica, secondo me, ma in fondo positiva.
Una nota particolare va dedicata, a questo punto, all'attenzione quasi ossessiva che la Olds ha per il corpo umano. Questo, a dire il vero, è il principale argomento di critica dei suoi detrattori (qualcuno ha detto: "Siamo stanchi di sentirla parlare dei suoi orifizi!"). Noi invece cerchiamo di capirne di più, e lo facciamo prendendo in considerazione la poesia (secondo me programmatica) The language of the brag, che potete trovare nella raccolta Satan says. Qui la Olds crea un parallelo dialettico tra la propria poetica e l'opera di Walt Whitman, il cantore americano della fisicità e dell'uomo che si muove e si commuove nel mondo. Ma, per la sensibilità femminile della poetessa, corpo e mondo coincidono. Il corpo è la Madre Terra, territorio di frontiera da colonizzare attraverso la verbalizzazione. In questo senso, è naturale che la Olds indaghi la geografia (e ancora di più la geologia) della corporeità alla luce dei suoi sommovimenti più estremi. La gravidanza e il parto, il sesso, la morte definiscono le coordinate di una mappa che è strumento necessario a questo tipo di viaggio. E l'esplorazione è condotta senza censure: se lo spirito discende da Whitman, la libertà di linguaggio deriva da Ginsberg.
A week later, infine, presenta una fitta tessitura di notazioni temporali, dalla quale emergono due drammatiche occasioni di distacco: il divorzio dal marito e la morte della madre. Le accomuna, in superficie, una inquieta sensazione di sollievo, che viene però messa in discussione da tre immagini simboliche prelevate dal campo semantico del "volo". In sogno, un oggetto si staglia in cielo, fiammeggiante come un sole che misuri il tempo della giornata al suo passaggio. Un aereo dipinto, congelato nella sua rappresentazione, sovrasta i personaggi in una sala che evoca una tomba antica. La metafora dell'uccello caduto "aleggia" sulla poetessa che osserva la madre morta. In effetti, questa poesia, intensa ma non ingenua, stratifica in modo molto efficace il quotidiano e l'archetipico, facendo sì che il suo significato non si esaurisca completamente nell'analisi. La ritengo quindi una delle migliori della poetessa americana.

(1) Il nastro di Moebius (tanto caro a Lacan) è un concetto matematico (più precisamente, topologico). Potete trovare maggiori informazioni sull'argomento qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Nastro_di_M%C3%B6bius

SHARON OLDS. BIO-BIBLIOGRAFIA

Sharon Olds è nata a San Francisco nel 1942. Insegna scrittura creativa alla New York University. Ha pubblicato 11 volumi di poesia:
Satan Says, University of Pittsburgh Press (Pittsburgh, PA), 1980.
(Satana dice, a cura di Elisa Biagini, casa editrice Le Lettere, Il nuovo Melograno, Firenze 2002)
The Dead and the Living, Knopf (New York, NY), 1984.
The Gold Cell, Knopf (New York, NY), 1987.
The Matter of This World, Slow Dancer Press, 1987.
The Sign of Saturn, Secker & Warburg, 1991.
The Father, Knopf (New York, NY), 1992.
The Wellspring: Poems, Knopf (New York, NY), 1996.
Blood, Tin, Straw, Knopf (New York, NY), 1999.
The Unswept Room, Knopf (New York, NY), 2002.
Strike Sparks: Selected Poems, 1980-2002, Knopf (New York, NY), 2004.
One Secret Thing, Knopf (New York, NY), 2008.

The sash

The first ones were attached to my dress
at the waist, one on either side,
right at the point where hands could clasp you and
pick you up, as if you were a hot
squeeze bottle of tree syrup, and the
sashes that emerged like axil buds from the
angles of the waist were used to play horses, that
racing across the cement while someone
held your reins and you could feel your flesh
itself in your body wildly streaming.
You would come home, a torn-off sash
dangling from either hand, a snake-charmer—
each time, she sewed them back on with
thicker thread, until the seams of
sash and dress bulged like little
knots of gristle at your waist as you walked, you could
feel them like thumbs pressing into your body.
The next sash was the one Thee, Hannah!
borrowed from her be-ribboned friend
and hid in a drawer and got salve on it,
salve on a sash, like bacon grease on a snake,
God's lard on the ribbon a Quaker girl
should not want, Satan's jism on
silk delicate as the skin of a young girl's genital.
When Hannah gave up satin her father
told her she was beautiful
just as God made her. But all sashes
lead to the sash, very sash of
very sash, begotten, not made, that my
aunt sent from Switzerland—
cobalt ripple of Swiss cotton with
clean boys and girls dancing on it.
I don't know why my mother chose it to
tie me to the chair with, her eye just
fell on it, but the whole day I
felt those blue children dance
around my wrists. Later someone
told me they had found out
the universe is a kind of strip that
twists around and joins itself, and I believe it,
sometimes I can feel it, the way we are
pouring slowly toward a curve and around it
through something dark and soft, and we are bound to
each other.

Il nastro

I primi che indossai erano attaccati al mio vestito
all'altezza dei fianchi, uno per parte,
proprio dove le mani possono afferrarti e
tirati su, come se tu fossi una calda
morbida bottiglia di plastica di sciroppo d'acero, e
i nastri che pendevano come boccioli sporgenti
dalla curva dei fianchi li usavamo per giocare ai cavalli
cavalcando sul cemento mentre qualcuno
li reggeva come redini, e potevi sentire
la vita stessa scorrere selvaggiamente nella carne del tuo corpo.
Poi saresti tornata a casa, un nastro strappato
che penzolava da ogni mano, incantatrice di serpenti -
e ogni volta lei li attaccava di nuovo
con un filo più spesso, finché la cucitura
tra il nastro e il vestito somigliò a tanti piccoli
noduli che sporgevano dai tuoi fianchi quando camminavi, pollici
che sentivi premere contro il tuo corpo.
Il nastro successivo fu quello che la piccola Hannah (1)
prese in prestito dalla sua elegante amica
e nascose in un cassetto e asperse con un balsamo,
balsamo su un nastro, è come ungere di lardo un serpente,
tutto grasso che cola da Nostro Signore, sul nastro che una giovane quacchera
non dovrebbe desiderare, lo sperma di Satana sul
velluto, liscio come la pelle del sesso di una ragazzina.
Quando Hannah rinunciò alla sua seta, il padre
le disse che era bella
proprio come Iddio l'aveva fatta. Ma tutti i nastri
sono della stessa sostanza del Nastro, Nastro vero da
Nastro vero, generato, non creato, che
mia zia ci spedì dalla Svizzera -
un'onda cobalto di cotone svizzero con sopra
il disegno della danza innocente di ragazzi e ragazze.
Non so perché mia madre scelse proprio quello
per legarmi alla sedia, semplicemente
le capitò sotto agli occhi, ma per un giorno intero
li sentii danzare, quei bambini blu,
attorno ai miei polsi. In seguito qualcuno
mi disse che avevano scoperto
che l'universo è una specie di striscia che
si attorciglia e si ricongiunge a se stessa, e io gli ho creduto,
a volte posso proprio sentirlo, il modo in cui
ci rovesciamo lentamente verso una curva e la percorriamo
immersi in qualcosa di oscuro e morbido, ed ecco che siamo legati
uno all'altro.

(1) Thee, Hannah! è il titolo di un libro per bambini di Marguerite DeAngeli, pubblicato nel 1940. E' un classico della letteratura a sfondo educativo dei Quaccheri: ambientato prima della Guerra Civile Americana, racconta di Hannah, una ragazzina quacchera che ama nastri e vestiti colorati e non sopporta l'abbigliamento disadorno che viene prescritto dalla comunità in cui vive. Alla fine (naturalmente…) riscoprirà il valore della semplicità.

The victims

When Mother divorced you, we were glad. She took it and
took it in silence, all those years and then
kicked you out, suddenly, and her
kids loved it. Then you were fired, and we
grinned inside, the way people grinned when
Nixon's helicopter lifted off the South
Lawn for the last time. We were tickled
to think of your office taken away,
your secretaries taken away,
your lunches with three double bourbons,
your pencils, your reams of paper. Would they take your
suits back, too, those dark
carcasses hung in your closet, and the black
noses of your shoes with their large pores?
She had taught us to take it, to hate you and take it
until we pricked with her for your
annihilation, Father. Now I
pass the bums in doorways, the white
slugs of their bodies gleaming through slits in their
suits of compressed silt, the stained
flippers of their hands, the underwater
fire of their eyes, ships gone down with the
lanterns lit, and I wonder who took it and
took it from them in silence until they had
given it all away and had nothing
left but this.

Le vittime

Quando nostra Madre divorziò da te, ne fummo felici. Aveva sopportato
e sopportato, in silenzio, tutti quegli anni e ora
ti sbatteva fuori, all'improvviso, e noi ragazzi
eravamo contenti. Così eri licenziato, e noi
ce la ridevamo, proprio come rideva la gente
il giorno in cui l'elicottero di Nixon decollò
dal South Lawn (1) per l'ultima volta. Ci divertiva
pensare al tuo ufficio smantellato
insieme alle tue segretarie,
ai tuoi pranzi a base di tre bourbon doppi,
alle tue matite, alle tue risme di carta. Ritireranno anche
i tuoi vestiti, gli scuri
cadaveri appesi nel tuo armadio, e i neri
nasi delle tue scarpe dai larghi pori?
Ci ha insegnato a sopportare, a odiarti e a sopportare
finché insieme a lei ti abbiamo iniettato
il veleno del tuo annientamento, Padre. Ora
passo accanto ai barboni accucciati nei portoni, corpi
bianchi come lumache che rilucono attraverso gli strappi
dei loro vestiti di fango compresso, le macchie
sulle mani simili a pinne, il fuoco
subacqueo dei loro occhi, barche affondate con
la lanterna accesa, e mi chiedo chi li ha sopportati
e sopportati, in silenzio, finché hanno dovuto
smantellare tutto, e non gli è rimasto
che questo.

(1) Il South Lawn è una zona del parco della Casa Bianca.

The borders

To say that she came into me,
from another world, is not true.
Nothing comes into the universe
and nothing leaves it.
My mother—I mean my daughter did not
enter me. She began to exist
inside me—she appeared within me.
And my mother did not enter me.
When she lay down, to pray, on me,
she was always ferociously courteous,
fastidious with Puritan fastidiousness,
but the barrier of my skin failed, the barrier of my
body fell, the barrier of my spirit.
She aroused and magnetized my skin, I wanted
ardently to please her, I would say to her
what she wanted to hear, as if I were hers.
I served her willingly, and then
became very much like her, fiercely
out for myself.
When my daughter was in me, I felt I had
a soul in me. But it was born with her.
But when she cried, one night, such pure crying,
I said I will take care of you, I will
put you first. I will not ever
have a daughter the way she had me,
I will not ever swim in you
the way my mother swam in me and I
felt myself swum in. I will never know anyone
again the way I knew my mother,
the gates of the human fallen.

I confini

Dire che entrò in me
da un altro mondo, non sarebbe dire il vero.
Niente entra nell'universo
e niente ne esce.
Mia madre - per esempio, mia figlia non
entrò in me: cominciò a esistere
dentro di me - apparve in me.
Mia madre non entrò in me.
Quando incombeva in preghiera su di me
era sempre ferocemente gentile
fastidiosa come sono fastidiosi i Puritani,
ma la barriera della mia pelle non reggeva, cedeva
la barriera del mio corpo, la barriera del mio spirito.
Lei eccitava e magnetizzava la mia pelle, volevo
ardentemente compiacerla, avrei voluto dirle
quello che voleva sentire, convincendomi di essere sua.
La servivo con ostinazione, e un giorno
divenni proprio come lei, fieramente
fuori, a caccia di me stessa.
Quando mia figlia era in me, sentivo
un'anima dentro. Ma nacque insieme a lei.
E una notte, di fronte al suo pianto, un pianto così puro
dissi: mi prenderò cura di te, ti metterò
al primo posto. Mai avrò
una figlia come lei ebbe me
non nuoterò fin dentro di te
come mia madre nuotò in me
fendendo le acque sensibili della mia anima. Non conoscerò mai più
qualcuno come conobbi mia madre,
quando i cancelli dell'umanità furono abbattuti.

A week later

A week later, I said to a friend: I don't
think I could ever write about it.
Maybe in a year I could write something.
There is something in me maybe someday
to be written; now it is folded, and folded,
and folded, like a note in school. And in my dream
someone was playing jacks, and in the air there was a
huge, thrown, tilted jack
on fire. And when I woke up, I found myself
counting the days since I had last seen
my husband-only two years, and some weeks,
and hours. We had signed the papers and come down to the
ground floor of the Chrysler Building,
the intact beauty of its lobby around us
like a king's tomb, on the ceiling the little
painted plane, in the mural, flying. And it
entered my strictured heart, this morning,
slightly, shyly as if warily,
untamed, a greater sense of the sweetness
and plenty of his ongoing life,
unknown to me, unseen by me,
unheard, untouched-but known, seen,
heard, touched. And it came to me,
for moments at a time, moment after moment,
to be glad for him that he is with the one
he feels was meant for him. And I thought of my
mother, minutes from her death, eighty-five
years from her birth, the almost warbler
bones of her shoulder under my hand, the
eggshell skull, as she lay in some peace
in the clean sheets, and I could tell her the best
of my poor, partial love, I could sing her
out with it, I saw the luck
and luxury of that hour.

Una settimana dopo

Una settimana dopo ho detto a un amico: no,
non penso proprio di poterne scrivere.
Forse nel giro di un anno scriverò qualcosa.
Dentro di me, forse, c'è quel qualcosa che un giorno qualunque
finirò per scrivere; ma adesso è ben avvolto, strato su strato
su strato, chiuso come un appunto in un quaderno di scuola. E in sogno
qualcuno giocava a jacks (1) e in cielo vedevo
la parabola discendente di quell'enorme oggetto
in fiamme. E al risveglio mi sono ritrovata a contare
i giorni trascorsi dall'ultima volta che ho visto
mio marito - solo due anni e una manciata di settimane,
e qualche ora. Abbiamo firmato le carte e siamo scesi
al pian terreno del Chrysler Building
circondati dalla bellezza inalterabile dell'atrio,
una tomba da re, con il piccolo aereo
dipinto che attraversava il soffitto in volo. Ed entrò
nel mio cuore severo, quella mattina,
delicato, timido e attento,
indomito, un più ampio senso di dolcezza
colmo della sua vita fluente
a me incomprensibile, a me invisibile
impossibile da udire o da toccare - eppure conosciuto, visto,
udito, toccato. E venne da me,
in attimi uniti dal tempo, attimo dopo attimo,
perché fossi felice per lui, perché aveva scelto la persona
che sentiva giusta per lui. E ho pensato a mia madre,
ai minuti passati dalla sua morte, agli ottantacinque
anni passati dalla sua nascita, alle ossa d'uccello
della sua spalla sotto la mia mano,
al guscio d'uovo del suo cranio, mentre giaceva in quella sua pace
tra le lenzuola pulite, e io potevo raccontarle così bene
del mio povero amore incompleto e tenace, potevo invocarla
con il canto del mio amore, consapevole della fortunata
e preziosa occasione di quell'ora.

(1) The game of jacks è un gioco in cui si utilizzano piccoli oggetti di metallo a sei punte, detti appunto jack, a volte sostituiti da sassolini. Per informazioni sull'argomento: http://www.ehow.com/how_2964_play-jacks.html

Commento e traduzioni sono di proprietà dell'autore. Ne è vietata la riproduzione, anche parziale, se non dietro esplicito consenso dello stesso.
Per informazioni: info@alessandromanitto.com

Nota

Sharon Olds (San Francisco, 1942), poetessa statunitense, ha studiato alla Stanford University e alla Columbia University.
Ad oggi ha pubblicato otto volumi di poesie.
La sua prima raccolta risale al 1980, ed è stata pubblicata in Italia con il titolo Satana dice.
Rilevante tra le sue pubblicazioni anche Il padre (1992).
Nel corso della sua carriera le sono stati attribuiti diversi riconoscimenti. Attualmente vive a New York e insegna scrittura creativa alla New York University.
http://www.poetryfoundation.org/bio/sharon-olds

Alessandro Manitto insegna dal 2000 scrittura creativa e cinema, e lavora come autore per Walt Disney Television Italia nell'ambito del progetto di divulgazione scientifica AttivaMente.

Gabriella Cinti



Oggi di neve


La vita,
oggi,
rosa di
nubi-neve,
mi entra dal cielo,
dal bianco,
nei sentieri miei
del profondo.
Nell’oro bianco
che mi sorride,
vedo l’inverarsi
di un sospiro infinito
solo sperato.
Mi guardi attraverso
fiocchi di chiaro,
nell’aria soffiata
di luce
e l’eternità
dell’incontro
nostro
vola
ad ali congiunte
nel cielo pensato,
aria infinita
di parole
profumate
di indicibile.

18-02-09

Le querce di Dodona

Se percuotessi forte
i rami delle querce di Dodona,
per penetrarle
di grido lacerato congiunto
e rivivere
lo squasso di Dioniso,
riuscirei a ricomporre
lo spettro
di vorticosa essenza
che ti fanno
prisma inafferrabile.
Forse nel volo
a precipizio
dentro lo specchio nero
ti raggiungerò
fondendomi
nella fosca rinuncia
di ogni individuazione.
Trema il cristallo del vuoto
al tintinnio del tuo passo severo,
annuncia il tempo vero
del nulla
e porta via,
sui lembi dei tuoi abiti in fuga,
l’ultima virgola di sorriso,
conservata nel fondo remoto
del tuo riflesso.

Ti guardo

Ti guardo, mia pena,
appoggiata sul palmo della mano
e staccata un momento dal cuore,
perché disamina di sguardo
muti le spine in ciglia.
Ti frango,
con ciottolini lucenti di gioco
che smussino l’ingombro
nello scrigno del respiro.
Ti tolgo il corpo,
mia pena, che mi soggiorni in gola,
ti faccio d’aria
e ti pongo dietro grata di filigrana,
in cui anche il nodo più denso
si sfioca in segni diafani,
appena un graffio stilizzato,
senza più presa di fuoco
sull’anello del cuore.

28-06-09

Gioco infinito

Ora ho capito
che la danza di parole,
il corteggio dei respiri,
le volute delle mani,
altro non sono
che Gioco dell’Infinito
che ci sceglie
come dadi d’amore,
con le facce che esultano
guardandosi.
Ludo supremo,
alghe giocose
incamminate tra siepi odorose
di affinità-
ed in premio,
la stella del desiderio
tra i miei capelli
e sul tuo cuore.

9-03-09

Ali di assenza

Ho ali implumi
davanti alle grandi tue ali
screziate d’assenza,
pale stecchite nel vuoto.
La ruota della Moira
ti sospinge sempre più in là
da me
e l’ombra apre cunei
di geometrie disarmoniche
in cui ciò che credevo
un prato di luce.
Tu non t’avvedi
che il ghiaccio
ti ha conficcato le ali
in barriere di distanza.
Quale sarà il nume
che scuota
la tua fuga immobile,
a ritroso della vita
e lontano dal sogno
nostro di miele?

15-04-09

Aquilone di vita

E intanto annido lancette di splendore
nel quadrante del tempo
assopito nella ovvietà della penombra.
Sugli spalti del giorno
sempre inclini alla minaccia,
mi ritrovo a puntare falci di luce sorridente
per armare la milizia indifesa del cuore.
Ti faccio volare con me,
più leggero dell’aria,
nella solidità certa di una invisibile,
non eterea immanenza.
E pure solchiamo il tempo e lo spazio,
ma ci allaccia il vento del vero.
Nel percorrere i tuoi cieli
fusi nell’azzurro dei miei,
divento per te raggiante aquilone di vita.

3-10-09

NOTA
Gabriella Cinti è nata e vive a Jesi. Ha affiancato l’insegnamento alla critica letteraria, coltivando nel contempo interessi artistici e storico-filosofici. Da alcuni anni si occupa di poesia, di filosofia e archeologia delle lingue europee, di paleolinguistica, di etimologia e in particolare di poesia greca antica, di cui è anche interprete all’interno di importanti manifestazioni musicali, dove presenta uno spettacolo che ha ideato e che ha nome Mystis, cioè L’iniziatrice.

L’aver ritrovato la dimensione dell'oralità arcaica ha contribuito a rendere più sinestetico e sensoriale il suo approccio con la “poiesis”.
Ha scritto il saggio di apertura dell’
Atlante regionale dei vini delle Marche 2006, dal titolo Sentimento ellenico di-vino; del 2007 è il saggio Ma com’era la voce di Saffo? Riflessioni sulla vocalità della lingua poetica ellenica (Edizioni Nuove Scritture).
Nel febbraio 2008 ha pubblicato la raccolta di poesie
 Suite per la parola (PeQuod editore).

Damiano Visentin


Poesianatomia

Poesia de asfalto
de tera batua
de profumi de piova
e de spagna pasua

Poesia del me mar e del me campo
parchè da eori no go scampo
poesia de monti e de santi
sua me scachiera i tochi mancanti

Poesia de pasion e giuramenti
de amori longhi come i lampi
de nizioi stonfi e intorcoeai
impetai sui tradimenti

Poesia de lamenti
del no essar mai contenti
del sentirse un pass pi vanti
poesia de steche ciapae sui denti

Poesia de sucesi
de faimenti
del tornar indrio
co i me dise de ndar vanti

Poesia de sudor
de lavoro e besteme al vento
poesia del “No varie pi debiti
se a monea fose el talento”

Poesia de ciche stuae
de goti svodai
de noti spendue a domandarse
“Par cosa, par come?” e risponderse “Ormai…”

Poesia de oci masa pigri
par metarse contar
tuti i ragi che l’a el sol

Poesia de chi che varda a luna
disendo che’l podarie
però nol vol.

Poesianatomia 

Poesia d’asfalto
di terra battuta
di profumi di pioggia
e di erba sazia

Poesia del mio mare e del mio campo
perché da loro non ho scampo
poesia di monti e di santi
sulla mia scacchiera i pezzi mancanti

Poesia di passioni e giuramenti
di amori lunghi come i lampi
di lenzuola fradice e attorcigliate
appiccicate sui tradimenti

Poesia di lamenti
del non essere mai contenti
del sentirsi un passo più avanti
poesia di umiliazioni

Poesia di successi
di fallimenti
del tornare indietro
quando mi dicono di andare avanti

Poesia di sudore
di lavoro e bestemmie al vento
poesia del “Non avrei più debiti
se la moneta fosse il talento”

Poesia di sigarette spente
di bicchieri vuotati
di notti spese a chiedersi
“Per quale motivo?
Com’è stato possibile?”
e rispondersi “Ormai…”

Poesia di occhi troppo pigri
per mettersi a contare
tutti i raggi che ha il sole

Poesia di chi guarda la luna
dicendo che potrebbe
però non vuole


Sogni in cusina

Ò mess un sogno su sul fogo
e me son distrat un atimin

L’à ancora da ciapar el bojo
ma sinte za da brustoin

Sogni in cucina

Ho messo un sogno sul fuoco
E mi sono distratto un attimino

Deve ancora cominciare a bollire
ma si sente già puzza di bruciato


Àvari avari

Àvari avari
sguardi poeari

A vose s’incamina lenta
su un fi l de poca voja
e casca

i oci inzabotai
girandoghe torno al fastidio
i se puza sul vodo

Àvari avari
sguardi poeari

man ligae drio a na schena
ncora strissada dae me onge

imobie come na sfi nge
mi te onze ma ti te respinze

Àvari avari
sguardi poeari

te me par restaa a scuro
ho fat quel che poée
te asse sua tòea
un per de candee

Labbra avare

Labbra avare
sguardi polari

La voce s’incammina lenta
su un filo di poca voglia
e cade

gli occhi balbettanti
girando attorno al fastidio
si appoggiano sul vuoto

Labbra avare
sguardi polari

mani legate dietro ad una schiena
ancora piena delle mie unghie

immobile come un sfinge
io ti ungo ma tu respingi

Labbra avare
sguardi polari

mi sembri rimasta al buio
ho fatto quello che potevo
ti lascio sulla tavola
un paio di candele


Jere

Spericoeai zenoci nudi
sua carega de legno e paja.
Comi inciodai
sul davanzal de l’infanzia

Sporgendome verso el mezojorno
ofrie a un reame de nùvoe
e ultime perle
de che’l sudor amniotico
che ga dat da bevar al me germojar

Jere ncora sol che i oci de me mare
jere ncora sol che e gambe de me pare

A l’ombria dea quotidiana tregua
dee sonoente palpebre passue,
acudio dae amorevoi zeje
de na sentinea paziente, sbiancaa
dae ventere ingeae e contrarie del passà
vardee senza porghe far gnent
na piova de frece de istà
inzenerir pin pianet
a linea del tempo
de un pomerijo de zioghi

Dadrio ae sbare del divieto adulto
torturà da piume de premura
pareciee a me fuga
co lime de desideri
ingropando nizioi de fantasia.

Jere l’incant de na tenzion ribee
jere el sgrìsoeo che inonda a pee
jere l’essenza pi pura de un istinto mat
jere el bocia che no sarie pi stat

Ero

Spericolate ginocchia nude
sulla sedia di legno e paglia
Gomiti inchiodati
sul davanzale dell’infanzia

Sporgendomi verso il mezzogiorno
offrivo ad un reame di nuvole
le ultime perle
di quel sudore amniotico
che ha dissetato il mio germogliare

Ero ancora solo gli occhi di mia madre
Ero ancora solo le gambe di mio padre

All’ombra della quotidiana tregua
delle sonnolente palpebre sazie
accudito da amorevoli ciglia
di una sentinella paziente, incanutita
dai venti gelidi e contrari del passato
guardavo impotente
un pioggia di frecce d’estate
incenerire piano piano
la linea del tempo
di un pomeriggio di giochi

Dietro alle sbarre del divieto adulto
torturato da piume d’impazienza
preparavo la mia fuga
con lime di desideri
intrecciando lenzuola di fantasia

Ero l’incanto di una tentazione ribelle
ero il gemito che inonda la pelle
ero l’essenza più pura di un istinto matto
ero il bambino che non sarei più stato.

NOTA

Damiano Visentin nasce nel 1984, e trascorre i suoi primi vent'anni nelle osterie gestite dai genitori. Forte della convinzione che "osti se nasse, no se deventa ("osti si nasce, non si diventa"), nel 2005 apre un locale tutto suo, fondendo la passione per il mestiere all'estrosità e all'amore per l'arte. Il retro del bancone è, giocoforza, il luogo nel quale passa la maggior parte delle sue giornate; ciononostante, come in una perfetta Sindrome di Stoccolma, se ne innamora, trasformando quello scalino che lo separa un po' da tutto il resto nel suo personale punto di osservazione del circostante. È quindi quel bancone a dare i natali alla sua poesia: con
 In gropa ae stee de Van Gogh è alla sua prima pubblicazione, datata febbraio 2009 e riproposta nel 2010 da MiMiSol Edizioni.
Nel 2008 per la prima volta partecipa ad alcuni concorsi letterari. Al Premio De Palchi - Raiziss (Verona) viene selezionato fra i venti finalisti con un componimento in italiano intitolato La ballata del pianista bandito. Al Premio Vigonza si classifica secondo nella sezione Poesia dialetto Triveneto con la sua Metamorphoesia, e al premio Alicante (Vigolo Vattaro, Trento) viene premiato per il componimento Poeta Minòr.
Autore della prefazione al libro
 Tanto per cambiare (Asylums, 2009), con i suoi versi collabora a progetti di vari musicisti e cantautori.


Alessio Luise

L’ALTROPARLANTE
Per via della cravatta credono che io sia un impiegato. Constatato frettolosamente che fa freddo, constato freddolosamente che sono di fretta. Non appena in strada salto una merda di cane, penso che in Italia non va per niente bene. Che però abbiamo vinto i mondiali. Per via della cravatta sono considerato elegante. Senza moneta esco senza uscita, attuo un prelievo lampo da Bancomat non afferente al circuito. Le infrazioni si estinguono mediante il pagamento della somma, per quieto vivere così va il mondo. Per educazione, perché “tengo famiglia”. Non appena in strada per via della cravatta credono che vada ad un matrimonio. In pausa pranzo, davanti al piatto piano, mi chiedo se in passato ho toccato il fondo e cosa minestra. In dirittura d’arrivo del secondo addirittura arrivo a pensare che la cucina è un polenta. Ma le tue trovate sono piuttosto ricercate, sei una buona forchetta e non appena ti appendi al cucchiaio ti trovo a tua volta riposata. Ma se ti giri sei bella come vorrei. Conosco i miei limiti ma non limito la mia conoscenza. Per via della cravatta vengo scambiato per un dirigente. Dall’altro lato della casa parlo e d’altro canto, anch’io canto. Dall’altro lato parlante, dall’altoparlante di un altro. Per meglio sopportare il più delle cose inizi a usare metafore. Anche per questo i pacchetti delle sigarette ci ricordano che moriremo. Tu mi racconti spesso di non aver mai ricevuto regali per Natale, se non in tre occasioni. Ti rispondo che Babbo Natale li scartava prima ancora che ti arrivassero. Ti fossero arrivati, avresti scartato tu quelli più brutti. Subisco il fascino del tuo asserto. Realizzi che ciò che lascio in giro rappresenta ciò che vorrei fare o che vorrei essere in grado di fare. L’elettrauto all’incrocio mi saluta ogni mattina. Non sapendo il mio nome mi chiama “bello”. Per via della cravatta a volte mi chiama “capo”. Sfavorisco la centralità dell’io. Realizzo che i dischi si incantano. Che le canzoni si cantano. Che alcune di esse sono incantabili. Eratostene ha misurato la Terra da fermo per via delle ombre, duecentocinquantadue anni prima di Cristo e della sua luce. Il sole sorge solo nel linguaggio. Disimpegno una battuta del tipo “Sig. Guevara, che c’è?”. Attribuisco gioia. Concretizzo la precarietà osservando il destino dei giovani di oggi ma ne disattendo la fierezza paragonandoli ai giovani di ieri. Assisto alle varie stabilizzazioni in corso. Con un prodotto a base di ammoniaca formo in pochi istanti una densa schiuma pulente che agisce sotto i miei occhi. Poi per conforto e prima necessità si lavora in un call center da più di 10 anni e si impara a suonare il pianoforte in modo turbolento. E' possibile rientrare tra quelli che riescono. Tutto è altrimenti. Durante la vita veniamo in contatto con almeno sessantamila agenti chimici, per più della metà delle volte abituandoci a fare la stessa cosa tutti i giorni. Ma c’è una dose giornaliera ammessa per cui è possibile stabilire la quantità massima di gente che può essere assunta. C’è una dose giornaliera ammessa per cui è possibile stabilire la quantità massima di gente che può fare belle cose restando a casa senza morire sul lavoro. Potremmo parlare di tutte le cose qui intorno senza dipingere mai la figura che è al centro e in modo da renderne ovvia la deduzione. Potremmo arrivare a fare qualcosa senza farlo. Che ad esempio un bambino sa avanzare richieste piangendo. Che può imparare a contare prima di avere voce. Per via della cravatta c’è chi si aspetta di più da me. Come quando credevo che le mie scoperte potessero cambiare il mondo. Qualcosa mi sfugge soltanto nel passaggio dalla carne all’idea. Come fa il cervello che è fatto di carne a fare idee di merda. Come dire che nel privato tutti abbiamo qualcosa in comune. Non si è in via d’estinzione finché non se ne ha intenzione. Essere vivi e dover comunque morire.

REALTA' SCOMODE E SCOMODITA' REALI

Sono realtà scomode, reali scomodità. Tuo nonno dice che chi paga sbaglia, gli altri che chi sbaglia paga. Non cedo il passo al mocassino. Non confondendo mai ciò che è in vendita con quel che possiamo. I tuoi fanno un lavoro usurante. Non lavorano nell’azienda di famiglia. Professione: altro. Potremmo essere esposti a rischi. In fondo siamo tutti spacciati. Più che del senso delle cose si tratta di azioni praticabili, cose riconoscibili, ricorrenze o abitudini nominabili. Discutibili. Tutti i nostri errori sono un senso. Il fai da te è un servizio da te. La vita si ferma solo sulla foto della patente, ma te la ritirano anche se vai piano. In un nevrotico allontanamento dall’atto del fare, vedo l’ossessione del creare “una presunta unicità”. C’è un fatale adattamento disadattato che inverte nascondimento e ritrovamento dell’uno nel paradosso del divisibile all’infinito, in quel vortice proiettivo che è il concetto di raddoppio e divisione, nell’intreccio inevitabile della eterna sensualità dell’unione-unificazione a coppia.

Per conforto e prima necessità si lavora in un call center da più di 10 anni, da un tempo maggiore si pratica la scrittura. O si vive o si scrive. Si scrive quello che si vive. Anche a trent'anni sono abbastanza cretino per non ritenermi poeta e abbastanza poeta per ritenermi cretino, sento nuovamente che mutevole è il nostro esserci nello starci a fare. C'è un delizioso e al tempo stesso inquietante difetto di corrispondenza tra il linguaggio, la scrittura e le cose che si fanno. Tutto può infatti essere altrimenti.
Credo sia positivo che un blog letterario sia poco frequentato dai suoi funzionari, significa che sono presi dal fare altro, mutevole è il nostro esserci nello starci a fare. Personalmente mi fido di più di chi prima vive e poi scrive. Chi vive e scrive non ha molto tempo per essere uno che scrive. Non si vive soltanto con quello che si scrive, poi c'è chi scrive e vive di quello che scrive, oppure non vive di quello che scrive ma vive e scrive molto, scrive così tanto che gli avanza da scrivere, dunque ha molto tempo per essere uno che scrive, pochissimo per fare quello che scrive, moltissimo per vivere quello che scrive, alla fine ne perde tantissimo per fare quello che di solito scrive. "Fa quello che scrive" nel senso che è uno che scrive, ma "non fa quello che scrive" nel senso che alla fine le cose che scrive non le vive.
Il doppio come divisione dell’uno, l’uno come ritrovamento del doppio. La metà e il raddoppio sono la stessa cosa.
Per non contraddirsi, semplicemente per smentirsi, si potrebbe andare a fare i netturbini in Svizzera. Osservare il Ramadan al polo nord nel periodo dei 6 mesi di buio.

NOTA

Alessio Luise, classe 1978, laureato in Filosofia, lavora nei call-centers per conforto e prima necessità da più di dieci anni.
Da un tempo maggiore pratica la scrittura "meloGrammatica”.
Con Lietocolle Editore nel 2006 pubblica 
Concavo.Convesso.Corsivo.; contribuisce inoltre con tre liriche all’antologia, edita da Net Saggiatore, Subway - Poeti italiani underground, con prefazione di Davide Rondoni.
Autore di canzoni, con il nome Luisenzaltro ha autoprodotto i lavori sonori
 Inversioni aEIOU, in versione aUDIO (2004), L’uomo non è volante, ma sterza con furia (2005), Il corsivo è dell’autoradio (2006), Insicurezza sul lavoro (2007), in parte trasmessi da Radio Rai 1, Radio Popolare, Radio Alma (Bruxelles).
Altre apparizioni ne
 L'albero degli aforismi (Lietocolle Editore, 2004), in Ospite d'onore. Della Terra. (Subway, 2006, Tratto Pen), in Roma verso Milano (Lietocolle Editore, 2007), e nella biografia di Luigi Tenco Il mio posto nel mondo (BUR Rizzoli, 2007).http://www.myspace.com/daltrocuori


Alberto Mari




Infinito vivente

Una finestra, una sedia
un qualunque sospeso
paga tutto il mio guardare
lo star preferito, il volo
sotto di me, radici
dell’ascensore, della casa
volante di Dorothy…

e di qua e di là:
da spazio a spazio
è silenzio e silenzio
dove si sposta il cuore
parlo all’io abitante
di quel che non dico
ai lati, fuori di me.

Dovrei prender il vento
togliere l’orizzonte
nella geometria interrotta
gli occhi, oltre la linea
ideale; il voltarsi di lei
immagino, la voce
infinita nel pensiero

e provo la fine, ascolto
sommerso dal cielo
e mi sottrae il tramonto
l’imprevisto bacio
della realtà.

Cara inquietudine

Oh impulso
alto, alto,
lago sospeso

colmo di bianchi
io so:

il vuoto esige un contorno,
la spinta a risalire dalla vertigine,
l'orecchio balza all'occhio:
s'intuisce la spirale,
estrema impresa, non ancora scritta,
ombra su ombra

scavalco grandi occhiali,
l'essere piegato sorge
nella sua tinta neutra

i segni sembrano definitivi,
non so cosa continua:
è un mucchio di tempo,
credo, non dico come va,
qualcosa ancora avanza
da dire, gli inizi stendono
gli interlocutori

è bella, all'apparire,
per quel che dura,
mi oltrepassa, e me ne accorgo
nell'attenzione accanto,
oh, fa che non sia io
a coglierti, coltivarti, prenderti
per le spalle;
io butto, dico,
ribalto, aspetto...

sono i fatti tuoi,
il fastidio d'intendere
a volere, a perdersi,
puntate d'identità,

presa per il corpo,
per un niente
solido, trascorso d'aria,
rivive l'azione, la ribalta
s'inclina nell'unica dimensione,
della città franata

e vedevo le figure
nelle grotte e vedevo
il sonno filmato,
vetrine di traverso,
strade sradicate...

è tutto e basta.
Porta dopo porta, ripasso

pensa lingua, pensa
attimi, schegge,
attimi, schegge

pupilla del suono
il tempo rischiara,
parole azzurre escono

rimbalzano gli occhi
nel capo luminoso

cara inquietudine
fa qualcosa di me
che importi.




INTERVISTA AD ALBERTO MARI
a cura di Laura Montingelli

- In quale contesto culturale e con quali riferimenti hai cominciato a occuparti di poesia?
- Attraverso vari periodi; ricordo prima pochi poeti-guida. C’era un alone di sacralità nel considerarli ad uno ad uno: Ungaretti, Quasimodo, Montale… Pochi ma buoni? Forse…
Poi si sono succeduti gli altri, intesi come gruppi: il famoso 63 è divenuto il 93, e via dicendo. E’ venuta la stagione dei readings, con i vari festival, da Castelporziano a Milano poesia. Il bisogno di distinguersi con la propria rivista o associazione, ha contribuito a ingrossare l’esercito dei poeti, cercando di fregarsene di Mondadori; un’autonomia tutta da vedere, ha portato man mano al sovraffollamento assurdo attuale.
Nell’età ingenua ero rimasto colpito dalla poesia suoni e colori di Garcia Lorca. All’epoca c’era la versione sonora a 45 giri letta da Arnoldo Foà. Ricordo anche le versioni da Prevert. Mi piaceva insomma la poesia orale.
Quando sono passato a poeti più complessi come Eliot, sono rimasto male quando ho sentito Waste land interpretata da Giorgio Albertazzi, anche perchè avevo avuto la fortuna di ascoltare l’originale dello stesso Eliot. Ho avuto modo poi di apprezzare la voce di Ungaretti, una specie di poeta sonoro, come il mio amico Luigi Pasotelli, personaggio unico nel suo genere, purtroppo morto nel 1993, del quale rimane una testimonianza importante con un cofanetto (libro più video) da me curata.
La chiave di volta è la poesia orale, che mi ha spinto un po’ a inebriarmi e confondermi col mitico Bob Dylan, che naturalmente è tutt’altra cosa nell’ elemento decisivo della fusione musicale.
Del resto faccio fatica a immedesimarmi nei poeti classici, con i loro bei libroni “alla memoria”. Discreta operazione che ha condotto a suo tempo Giovanni Raboni, corredata anche da letture pubbliche al Piccolo Teatro.
E’ davvero così che si va a finire?
Certo, il contesto culturale in cui sono cresciuto, almeno qui in Italia, sta franando come avviene davvero in una specie di valenza simbolica. La stessa forse un po’ forzata che mi faceva tenere il pugno alzato col braccio “anchilosato” inneggiante ai tre patroni del marxismo.
- In quali rapporti sei stato con il mondo della poesia cosiddetta "ufficiale"? Quella dei soliti noti, dei nomi pubblicati dalle principali case editrici, dei "divi" e delle giovani "starlettes" di questo ambito, che sono sempre più tali con il trionfo della società dello spettacolo in cui siamo immersi? Mi hai raccontato di un'intervista che ti è stata fatta annifa, nella quale molto spazio è stato dato alla questione della scarsa visibilità e circolazione del tuo lavoro poetico; il che non ti aveva particolarmente entusiasmato. Questo perchè ritieni che il problema di un difficoltoso riconoscimento del lavoro artistico, il tuo in particolare e anche in generale, sia un falso problema? In altre parole, hai scritto e scrivi per te stesso, o perchè in qualche modo il tuo lavoro arrivi agli altri, e lasci in loro qualcosa?
- Direi che la società dello spettacolo con la poesia c’entra abbastanza poco, anche se i cantanti fanno di tutto e danno la parola anche ai brani classici. Un fenomeno che fa eccezione è il caso di una poetessa popolare come Alda Merini, divenuta poi un simbolo di comunicazione abbastanza facile e strumentalizzato.
Da parte mia sono grato a Franco Fortini, che ha suo tempo (un’ epoca di fermenti politici e qualcosa in cui credere) mi ha segnalato un poeta d’origine contadina, Angelo Lumelli (da Momperone, in provincia di Alessandria), uno un po’ snob, (allora c’erano ancora le classi politiche ed erano possibili certe suddivisioni sociali), Milo De Angelis, il più attento alla carriera, e uno che allora era militare, Michelangelo Coviello, il più interessato a tenere le fila e affezionato al discorso di una “triade” che attraverso varie peripezie si mantiene tuttora e che io ho voluto alla presentazione del mio ultimo libro di poesie, assumendo la parte del quarto incomodo. Naturalmente si è amici, e questo rimane al di là del fatto naturale delle nostre strade divergenti. Riguardo all’intervista a cui fai cenno, a me aveva solo dato fastidio di dover difendere una posizione per forza di cose precaria, che sapeva un po’ troppo di “resa dei conti”. L’effetto di queste cose è quasi sempre d’incomprensione, tanto più che difficilmente vieni recepito per la totalità della tua opera, anche se ultimamente mi esibisco in performance con una attrice-cantante (Carola Caruso) e un musicista, offrendo un repertorio piuttosto vario e volutamente contrastato.
Questa è una specie di mia “linea diretta” verso gli altri, che dimostra che i miei scritti non sono solo “cazzi miei”, anche se il punto di partenza è quello.
- Proprio nell'intervista di cui sopra, che ho letto sul tuo sito personale, dichiari "Io sono uno scettico appassionato. Non credo quasi a niente". Questa tua affermazione mi ha molto colpito, e colgo questo tuo scetticismo, un disincanto, anche nel tuo sguardo, nella calma apparente, ma in realtà sottesa da una sofferta perplessità, con la quale parli delle tue esperienze d'arte e di vita. Mi piacerebbe che tu andassi un po' a fondo di questa tua dichiarazione, me ne spiegassi le ragioni esistenziali e intellettuali.
- Il mio atteggiamento è questo, se vuoi anche un po’ ad effetto. D’altra parte non posso che essere così. La mia sofferta perplessità, che tu cogli così bene, è vera. Non sono un sacerdote della poesia e non amo particolarmente i valori assoluti. In questo scetticismo un po’ ironico cerco il disincanto, di “immunizzarmi”; di non prendermi troppo sul serio. In questo atteggiamento e nel modo di scrivere, mi ritrovo in un “simile diversissimo”: Dario Villa, un grande e sfortunato “poeta dandy”. Rimangono pochi altri amici stimabili, come Nanni Cagnone, Silvio Giussani e Gio Ferri (quelli affermati hanno già il loro daffare. Non disturbiamoli). Per questo non mi riconosco nei valori correnti e cerco di non cadere nella trappola dei riconoscimenti. E’ una forma di isolamento orgogliosamente egoistica, priva di alibi. D’altra parte, in fondo in fondo, se vogliamo dirla tutta, a me non piace “quasi nessuno”. Nelle operazioni di dare e avere quindi “si salvi chi può!” Bisogna guardarsi anche dai compagni di viaggio.
Questa specie di autonomia non mi preserva del tutto dalle chiusure esterne, che purtroppo permangono. E’ sempre più difficile trovare canali favorevoli. Del resto qui a Milano, in questa atmosfera mefitica, tra l’artistico e il professionale, la strada da me scelta, non ci si può reinventare all’infinito. Ogni tanto si cade, ogni tanto si è arzilli.
- So che ti affascina la scrittura di Edgar Allan Poe, e che in modo particolare ti interessa il tema della vertigine. Ti chiedo: perchè Poe? Inoltre vorrei capire se la vertigine ti interessa di più nelle sue valenze e implicazioni psicologiche (così mi pare di intuire, dato che hai intitolato Vertigo un tuo lavoro artistico a collage nel quale fai riferimento al cinema di Hitchcock), oppure in quelle visive, cioè intendendola come vortice.
- La misura della grandezza a volte prende direzioni lontane e divergenti.
Nella pittura è più facile e immediato proiettarsi verso ombre grandi. Sono più evidenti. Nella letteratura il genio assume forme impensate. Nel caso di Poe, con le sue allucinazioni fantastiche ci si misura con l’imprevedibile e l’impensabile. La sua attrazione verso i gorghi, come ne La discesa dal Maelstrom, si associa alla vertigine, l’idea di cadere, di precipitare, in un senso prospettico che ti sembra di poter gestire; una specie di potere che ha senz’altro valenze psicologiche. Il vortice dei titoli di testa del film Vertigo di Hitchcock, grande metafisico, assume un senso grafico e musicale. La musica, una specie di canone, ti avvolge come una spirale; per questo ho composto una poesia attiva in cui era previsto l’accompagnamento musicale e delle tavole illustrative. Mi piaceva l’idea di poter sconfinare dalla poesia, il fascino di atmosfere diverse. Intendiamoci, io ho preso Poe come spunto, ma c’è anche Hoffmann, che non è certo da meno ma non ha quella strana “disinvoltura”, carica di suggestioni, nei confronti del funereo e della morte che rendono Poe “diverso” anche nelle poesie. Alcune delle quali, come Ulalume, vanno rivalutate, essendo state considerate, secondo me a torto, minori rispetto ai più celebri racconti; non è un caso che mi sia permesso di tradurre liberamente Il corvo, e per combinazione anche lì c’è l’andamento iterativo, “nevermore”, che Garcia Lorca ha ripreso con il famoso “a las cinco de la tarde”.
- Veniamo, appunto, alla tua attività come artista visivo. So che ti sei accostato all'arte visiva a partire dall'illustrazione, o meglio, da alcuni esprimenti quasi casuali di poesia visiva. Dunque pare essersi verificata, e ancor oggi esistere, un'osmosi molto forte fra i due ambiti del tuo fare artistico. Vuoi parlarcene?
- Il fatto che io sia poeta mi porta verso la dimensione un po’ troppo obbligata di “visual poetry”, di poeta verbo-visuale, definizione che non mi piace, nata a posteriori per distinguere le diverse fasi di questo genere. Certo “io vedo quello scrivo”, la visione delle parole mi accompagna, ma non bisogna dimenticare che io nasco come disegnatore. Da bambino disegnavo col gesso sui marciapiedi, il segno per me è fondamentale, fa parte del mio mestiere, le parole vengono dopo e rimangono visivamente misteriose, nascoste, e il mio entrare nella scrittura è senz’altro pittorico. Il collage è un espediente tecnico che arricchisce il panorama espressivo e mi permette vari effetti (sento anche molto il pastello a cera). Le parole trapelano attraverso questo schermo compositivo e hanno una duplice valenza, come certi tratti miniaturizzati e il tocco essenziale di pennello rendono l’immagine concentrata in spazi essenziali molto elaborati.
- Mi hai mostrato diversi lavori realizzati con la tecnica del collage, lavori che fra l'altro in molti casi fanno riferimento al cinema, e soprattutto al noir. Ma anche opere astratte, nel cui disordine informale spicca la presenza di frammenti di parole o frasi. Cosa esprimi attraverso la pratica dell'uno e dell'altro genere? Ritieni il collage un versante più giocoso, o comunque più "leggero", della tua pratica artistica, o attribuisci anche ad esso dei significati "forti"?
- I collages cinematografici Effetto noir sono illustrativi, ed evocano film cult in bianco e nero; derivano da immagini, poster, da certe atmosfere irripetibili del cinema. Il più sfarzoso Technicolor non vale il bianco e nero de Il terzo uomo. La fotografia “vera” non ha bisogno del colore.
L’idea originale era di farne un calendario, divenuto poi una cartella arricchita e ampliata da altri esemplari tra cui anche una tavola in masonite. Naturalmente oltre all’“operazione nostalgia” l’impatto visivo è più semplice e diretto, forse meno complesso degli altri miei lavori, ma questo non vuol dire che siano meno apprezzabili, (del resto in quanti conoscono i vecchi film noir?). Così operando il tema è più leggibile; infatti ho potuto anche cimentarmi in grandi formati sul tema della moda (su commissione ho composto anche dei collages western su John Ford). A proposito di “quadri grandi” devi sapere che dalle parti di Treviso c’è un mio amico pittore, Giuseppe Lollo, uno di quelli “veri” che usano il cavalletto e i colori a olio, che mi prende in giro per i miei lavori di piccolo formato.
Riguardo alle mie opere più specifiche, non sono tanto d’accordo sull’espressione astratta e sul disordine informale. C’è dell’altro, credimi, le composizioni hanno valenza completa, esauriente, narrazioni e illustrazioni mentali in movimento, insomma quelle che io in prevalenza ho chiamato “scritture sommerse”. Devi considerare che io opero in divenire, per accumulo, il lavoro “non è mai finito”, quindi, al di là del senso compiuto, c’è sottintesa la “diavoleria” che c’è dietro la scrittura nascosta. Modestamente non mi sono mai definito pittore, anche se un po’ lo sono e la scrittura visiva a volte è un po’ una gabbia. Certo mi fanno un po’ senso i versi “scribacchiati” di molti poeti sonori, nei quali c’è la presunzione di enunciare poche massime e qualche schizzo per dimostrare la propria valenza visiva. Il mio problema comunque è quello di non avere uno studio più grande, uno spazio extra-casalingo. Il mio sogno.
- E il cinema? Cosa ti affascina di questo linguaggio? Quali generi e registi prediligi? Perchè lo fai interagire con la tua opera di artista visivo?
- Il cinema mi piace anche come luogo deputato. Io e mia moglie, Marina, amiamo andare nei cinematografi, anche se lo facciamo meno spesso di una volta. La televisione è soltanto più comoda, ma per molti versi ti limita, ti ottunde anche nelle sue infinite offerte e possibilità tecniche. Ha detto bene Albanese: che in certi casi, come il digitale terrestre, serve solo a crear casino nelle cose che prima funzionavano bene.
Io sono un po’ un amante dei generi: cinema, fotografia, fumetto, illustrazione, e del disegno soprattutto. Per un certo periodo ho fatto anche cartoni animati, quindi, figurati, in certe cose io ci sguazzo. Tornando al cinema, amo molto Roman Polansky, Stanley Kubrick, Billy Wilder, Howard Hawks, Brian De Palma, il grande, già citato Alfred. A parte qualche eccezione francese (Truffaut, Rohmer…), come vedi sono americanofilo, anche se apprezzo certe stagioni del cinema italiano. Nel mio fermento artistico entra un po’ di tutto, non possono mancare le citazioni in questo senso.
- Per concludere, vorrei fare riferimento anche al tuo interesse per il genere letterario della fiaba, della favola, del mito e della leggenda. Hai infatti dedicato in passato una parte della tua attività letteraria alla realizzazione di alcune raccolte ragionate di favole e leggende, pubblicate con un tuo apparato critico da Mondadori. Sei inoltre autore di favole e filastrocche. Per quali motivi, e attraverso quali occasioni e vie, è emerso questo tuo interesse? Come lo poni eventualmente in relazione alla tua attività come poeta?
- Mah, sai, di certo io non sono “puro”; non mi considero uno scrittore per ragazzi, anche se ho lavorato molto in modo estemporaneo con i bambini. Nelle scuole apparivo come una specie di mago di quelli che scompaginano le carte, ma ho sempre odiato la figura dell’animatore. Sono uno che sa disegnare e compone poesie, ma di fronte alle cose precostituite perdo facilmente la pazienza. Mi sono accostato alla fiaba per mestiere, e sono perfino diventato una specialista della leggenda perché amo andare a fondo alle cose, studiarle, sia pure a modo mio (mi sono documentato con delle “dosi” di Propp, Thompson, Bettelheim and company). Per questo non c’entro niente con i vari Piumini e compagnia bella. Se devo citarti uno che apprezzo molto è Antonio Faeti, che con i suoi libri in un certo senso mi ha preceduto con certe idee. Naturalmente quando vengo paragonato a Lewis Carroll la cosa non può che farmi piacere (il mio amico Tomaso Kemeny dice che gli assomiglio); di fatto le mie filastrocche, i nonsense, si possono accostare a un genere che ha una doppia valenza bambini- adulti. Del resto non scopro nulla di nuovo: Toti Scialoja è anche lui un pittore-poeta con una doppia valenza, e già le sue poesie per bambini sono “quasi per adulti”. Che cosa c’entra tutto ciò con la mia attività di poeta? C’entra, c’entra… Alla fine tutto si collega. Ci sono anche le prose poetiche, come il libro con le immagini di Andrea Cardile che ti ho dato, Il circo delle ambiguità, e poi, al di là di tutto, c’è un principio elementare inconfutabile. Sono sempre io, non ti pare?

NOTA

Alberto Mari (Milano, 1937), poeta e artista visivo, lavora nell’editoria e in campo giornalistico e pubblicitario.
Sue le raccolte
 Scomparse (Guanda, 1979), Manovre (Moizzi, 1984), Il mondo d’un fiato (La Vita felice, 1996), Pensieri, orologi (Niebo-La Vita felice, 2005). A queste si aggiungono le plaquettes La casa di sé (El Bagatt, 1991), Haidee (Signum Edizioni d’arte, 2001), Duemila e uno (Seregn de la memoria, 2002), Non è tutto (Dialogolibri, 2003), Trio (con Lorenzo Forges Davanzati e Luigi Pasotelli, Signum, 2005), Segni e sfumature (Signum, 2008).
Dal 1995 si occupa anche di poesia visiva, esponendo i propri lavori in personali e collettive (queste ultime tenutesi fra l’altro a Milano presso la galleria Sassetti, a Venezia, al Castello di Rivara, e nel gennaio/febbraio 2010 ancora a Milano, alla galleria S-Blu).
Una prima serie delle sue
 Scritture Sommerse è stata esposta alla galleria d’arte annessa alla Biblioteca Di Vittorio di Bergamo nel 2002; le successive a Milano, alla galleria Blachaert (2003), alla Libreria del Castello (2005) e allo Spazio Bocca (2008). In collaborazione con la Libreria Scientifica ha prodotto inoltre la cartella di dodici tavole Effetto Noir, esposte alla Scientifica stessa nel 2002.
Fra gli anni ’80 e ’90 ha curato per gli Oscar Mondadori diverse antologie di fiabe, leggende e miti europei
 a cui si è aggiunto più recentemente Il posto delle favole (Stampa Alternativa, 2001). E’ inoltre lui stesso autore di favole e filastrocche: Sotto la cappa del camino (in collaborazione con V. Savona e M.Straniero, Mondadori, 1985) e la raccolta di rime infantili Tuttadoro (EdiCart, 1997, rist. 2001).
Come poeta e performer ha partecipato a numerose manifestazioni, mentre come autore per l’infanzia ha tenuto corsi e spettacoli nelle biblioteche e nelle scuole, in diverse località nei dintorni di Milano.

http://albertomari.altervista.org/
alber.mari@tiscali.it

In apertura La scala a chiocciola di Alberto Mari

Cristina Bove

Come una scultura di A. Pomodoro
Vi chiamo a testimoni
dei miei spicchi di faccia
minuzzoli d'arancia sanguinella
scioglilingua al palato
uno tra i tanti

ad osservarmi antropomorfa
e non
criceto a ruota in gabbia
divento un clown
dalle risate tonde
oppure melagrana fusa in bronzo
e le parole
chicchi di cinabro.

Di me che allora... di me che ora...
Mi piacerebbe raccontarvi
di tane e di bisbigli
ma nella stanza si nasconde e tace
la rima chiusa della bocca
in formato ridotto.

Arcobaleni tondeggianti
sullo stelo dell'acero d'inverno
e mi rifletto in mille
microscopici tonfi la caduta

Non voglio che pensiate
a ghirlande romantiche
non c'è niente da cingere d'alloro
anche le gocce
ciondolanti sui rami
paragonarle a lacrime fa ridere.

Ma questo no
starsene a braccia vuote a contenere
quell'io dimenticato di bocciolo
non ancora dischiuso
e ripararlo per assurdo
questo non vale
adesso.

In s(ì) minore
Questa non è una tana di carezze, è piuttosto una scatola cinese
e dentro - sillabata - una fontana
ci sono voli sulle guglie e intrappolata
una bambina in processione per corridoi infiniti

la sua difesa è assecondare tutto

Dorme il fauno ebbro, ha sulla fronte il lascito di un sogno
l'edera sulla bocca
di terra i fori occlusi e muto il flauto

fuggi, bambina, è tempo di ferraglia
non di cocci smussati dalle onde, gemme
serbate nelle mani piccole
morivi di ogni età

disattesa la lingua e l'idiota enarmonico
canta quarti di luna. Sotto la scala immobile
il cane di Mirò

e tu
sì, dico a te
che il tuo passo di pioggia scivola sul mio vetro rassegnato
e non concede appigli
hai forse braccia
da contenere immenso?...

Moebius strip

Farsi carezza
abbrivio e commissura
ritorno senza andata

i matti fanno festa
con ciclamini sparsi nottetempo
sulle curve dei santi

procedere a singhiozzi
per quanto ci si sforzi d'allineare
rende gobbe le strade

attraversare non sarà mai facile
non basterà un boy scout
né un semaforo verde

l'amoerro del cielo a rifinire
orlo fra terra e mare
sul convesso

essere poi nel concavo del tempo
sapienti per metà
duplici e trini

Intrinseca


E voi
che se avessi braccia di paradiso
accoglierei per sempre e non soltanto
un giorno o un'ora rattoppata a metà
voi che sostate
conosco la tua sete, amico
la tua fame d'amore, amica
e il germinare delle croci
che non hanno platee né golgota
ma solo scene di silenzi orfani
parole vedove

Eden di mele e di serpenti
irragionevolmente amato
che nelle sottrazioni di coscienze
abbina vivi e morti
ai transeunti noi
convogliati alle pietre

voi che se non ci foste
non mi conoscerei
e che perfino quando mi uccidete
siete sussulto e vita
voi dalle labbra intinte nel vinsanto
un bacio rosso
e ancora voi da dirsene di notte
o tracimare risa

voi che se dico tu
mi diventate
sfera di pulsazioni e di scintille
sulla fronte d'un io
che siamo noi.

Oceanica

Sapeva fare nodi alla marinara
cazzare rande e ripassare bugne
non sapendo di nuvole
quel tanto da imparare le tempeste
errava di bolina
per scontare miracoli
così da poter essere acclamata
santa dei giorni dispari.

Resse il fasciame ma la velatura
fu divelta coll'albero maestro
e le sirene
ebbero gambe a dipartire il mare

i pesci quando piangono
hanno lacrime d'aria

le polene si arrendono agli abissi
non sanno camminare.

Se una clessidra...


Quando vi raccontai delle mie morti
udivo lo scandire dei rintocchi
pensavo non ci fosse molto tempo
presi coraggio e scrissi
senza pensarci troppo

e ancora sono qui
- non chiedevo miracoli stavolta -
eppure sono giunti
d'amore, d'amicizia, d'insolito accadere
d'ogni sorta

ed ho potuto avere di novembre
rose fiorite ancora

Ora chissà perché
penso che il tempo
abbia smesso di andare

NOTA

Cristina Bove è nata a Napoli nel 1942; dal 1963 vive a Roma.
Ha cominciato da piccolissima con la passione per la lettura, poi c’è stata la pittura, quindi la scultura, infine la scrittura, soprattutto la poesia.
Si sente una testimone del suo tempo e della sua esistenza. Ama la libertà e la giustizia, pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani.
E' alla costante ricerca di un significato nel mistero in cui si sente immersa.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie, Fiori e fulmini, Il respiro della luna e Attraversamenti verticali, per la casa editrice Il Foglio Letterario.http://cristinabove.splinder.com/

Alberto Veca 

Planimetria dello spazio

I

La stanza è luogo di rappresentanza,
dove mostri di te il minimo necessario
perché l’ospite non sia invaso. Queste
le buone maniere della discrezione. Poi capita
che le pareti aperte parlino
la tua lingua, ma questa è una variante necessitata
dall’aver raccolto memorie nel corso del tempo
visibili, anche ingombranti.

Lo studio è luogo riservato, dove tutto ti appartiene,
dove raccogli il libro, principe strumento della memoria,
ma anche succedanei di più pronta adesione, le fotografie
e gli oggetti, naturali o artefatti, che hanno composto
e segnato il tuo percorso. Lo studio
è luogo nevralgico della raccolta, dove l’elenco
e il disordine
giocano una gara costante, segno di vita,
di leggere, guardare, anche toccare ancora,
dopo che l’oggetto è eletto.

II

Lo sguardo, anche di sfuggita,
coglie il mutamento, la nota stonata,
raccoglie la tessera spostata
e la disciplina nel luogo d’origine: quando poi
hai il privilegio di ricordare la stazione
precedente e quella attuale, allora fra ieri e oggi
si completa l’intervallo, si sommano gesti altrimenti
senza un segnale evidente
del loro passaggio.

Tutto deve corrispondere, come in teatro
in un palcoscenico che non segnala tracce
di posizioni e distanze da rispettare. Come nel gioco
ogni nuova immissione nel sistema produce
le carte rimescolate, identiche e diverse, poi viste
da un punto di stazione diverso. Alla ricerca della migliore
fotogenia, perché certo l’elenco rende omogeneo
la presenza in archivio,
ma le preferenze sono variabili e, come in ogni discorso,
vi è la frase che zoppica, il periodo da completare, o rendere più evidente
con la sostituzione.

III

Un gioco di varianti,
dove la precedente è nella memoria,
eventualmente confinata in qualche foto d’occasione in cui
compare ciò che è scomparso.

Ma anche il sasso potrebbe,
e non può
stare in piedi, eppure ha un invito naturale
a una figura statuaria, ma a ogni tentativo
ricade.
Così l’immaginarlo a stele rimane implicito
nella possibilità che la cosmesi, la correzione possono offrire,
ma questo non appartiene al registro d’intenti.

Lasciamo il piedistallo a ciò che non sta in piedi,
un gradino futile
per chi legge l’artefatto secondo le regole dell’organismo,
e si tratta di un cambiamento bizzarro
per chi ha privilegiato l’astratto
al figurativo, per usare una comoda antinomia,
costantemente da rivedere a favore del secondo: in fondo
una riflessione sul referente inseguita con Paolo Minoli, complice
quando la stagione matura
e le somiglianze fra l’artefatto e la natura aumentano.

Ti accorgi che ancora, probabilmente da sempre, lavori sulla figura,
non con le parole - anche con quelle se lavoriamo sui suoni,
sulla somiglianza fra la voce e le lettere dell’alfabeto – e quanto
giudicato appartenere al modo del non mimetico
si affaccia allo sguardo irridente, e porge le proprie origini.

Il problema è non farne una gabbia: correggere il tutto
perché sia somigliante,sia legittima la convergenza
fra modello e ritratto: può essere di conforto
la variabile meteorologia che Shakespeare adotta nei suoi sonetti,
dove sole, alba e tramonto, estate e primavera diventano
motori evocativi per assonanze,
analogie che amplificano il ridotto episodio d’amore
eppure centrale
come l’universo.

(novembre 2006)

Rimettere in ordine/Revisioni

I

Riappropriarsi degli strumenti di lavoro,
come far proprio il territorio, segnare i limiti,
renderli confidenti: la mano e l’occhio
percorrono limiti nuovi, o magari di nuovo
consueti, dopo un intervallo di tempo.

La tastiera “suona” diversamente, associo l’oggi
a altri tempi, altri lavori, congiunture diverse
eppure affini.
Perdere e trovare, come il fisico mettere in ordine
cassetti da tempo non sottoposti a revisione: vi è
una gioia infantile, fra scoperta e timore, nel mettere
a nudo il luogo circoscritto della raccolta,
l’insieme degli atti, la stratificazione del tempo, la
mescolanza dell’ordine di raccolta,
quando la logica della successione cronologica
si ribalta nella successione alfabetica,
quando trovi “cartelle” fisiche o mentali,
individui i nuclei.

II

Vi è nelle cose un invecchiare
confidente, quando l’appunto acquista dignità
acquista dignità perché scritto lontano
e vi sono circostanze che invece, proprio perché legate
al contingente,
perdono senso, o chiedono una fatica
a ricostruire la circostanza. Allora il momento
nevralgico se cancellare, o eleggere, o dare ancora
una possibilità per esistere, dopo una correzione che può rendere leggibile
ciò che invece sembra incognito.
Accorgersi del contingente,
dell’occasione che ha promosso la riflessione,
poi cercare di fermarla, di renderla libera
dalla causa immediata: in fondo fare poesia
vuol dire rendere durevole, per poco non avendo
pretese d’eternità, un sentimento, un modo di leggere
l’attuale con l’occhio distante, superiore al disturbo.

III

Una pratica
di cui detti le regole: sei al tempo
creatore e giudice. Eletto
o cassato, il verso ti appartiene
in fondo come nient’altro ti viene incontro.
L’oggetto è nelle tue mani: non artifici
della scrittura obbligata, anche quella vincolata a un soggetto
sia pure eletto fra i possibili.

Riflettere sul fare
produce altre parole, estranee
che però servono a mettere in riga, disciplinare
il tema discusso.

(Milano, 2006)

NOTA

Alberto Veca, scomparso nel maggio 2009, storico e critico dell'arte e docente presso il Politecnico di Milano - Facoltà del Design, nella sua attività critica si è occupato in particolare di natura morta dell’età barocca, realizzando presso la galleria Lorenzelli di Bergamo le esposizioni
 Inganno & Realtà, 1980; Vanitas, 1981; Parádeisos, 1982; Simposio, 1983; Forma vera, 1985; Orbis pictus, 1986, Lombardia 1620 circa, 1989; The Lure of Still Life (Bergamo-Düsseldorf), 1995; Scenografie, 1998.
Ha collaborato all’esposizione Evaristo Baschenis e la natura morta in Europa (Accademia Carrara, Bergamo 1996), e ha curato l’esposizione Natura morta lombarda (Palazzo Reale, Milano 1999).
Nel 2002 ha pubblicato il saggio
 Honest Lies per il catalogo Deceptions and Illusions (National Gallery, Washington), e il saggio Ruolo e senso della natura morta per il catalogo Natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento (Monaco di Baviera).
Ha collaborato a
 La Gola, della Cooperativa Intrapresa, dal 1984 alla sua chiusura nel 1988, e alla rivista Slow dell’ArciGola.
Ha pubblicato saggi sulla rappresentazione del cibo nell’età moderna (Storia dell’alimentazione, a cura di J. L. Flandrin e M. Montanari, Laterza, 1997) e nel Novecento (Storia d’Italia. L’alimentazione, Annali 13, Einaudi, 1998).
Ha inoltre pubblicato articoli e presentazioni di artisti nell’ambito dell’arte contemporanea.
E' autore dei due volumi di poesie
 Dedicate1, Dedicate2Dedicate3, editi dalla galleria Cavenaghi Arte di Milano.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Julian Tuwim


Il Cristo della citta'

Ballavano sul ponte,
ballavano tutta la notte.
Banditi, boia, emarginati,
impiccati, meretrici,
sifilitici, teppisti,
canaglie, ladri, di vodka bevitori.
Ballavano sul ponte,
ballavano fino alla mane.
Mendicanti, sgualdrine,
matti, furbe spie,
ballavano là per le strade,
forche, lanterne, carogne.
Ballavano sul ponte
illustri clienti:
farabutti!
Ruffiani, vecchi licenziosi,
autoviolentatori vergognosi.
I piedi battevano,
suonavano le armoniche, le fisarmoniche
fino all'alba suonavano,
ballavano il loro incivile:
Avanti! Avanti!
Divoravano, bevevano, ballavano.
Ed era uno straniero,
era uno sconosciuto,
lo guardavano di sbieco,
le spalle scrollavano,
sputavano.
L'hanno preso a parte:
parlavano, parlavano, chiedevano,
taceva.
Gli si è avvicinato rosso rossiccio:
- Chi sei tu?
Taceva.
Gli si è avvicinato un altro,
senza il naso,
pustoloso:
- Chi sei tu?
Taceva.
Gli si è avvicinato uno sornione,
ha borbottato:
- Chi sei tu?
Taceva.
Gli si è avvicinata Maddalena:
ha riconosciuto, ha detto ...
Lui ha pianto ...
Silenzio.Qualcosa sussurravano.
A terra cadevano. Piangevano.


Io da te non posso, non posso

Io da te non posso, non posso... Vieni tu, da me, un bosco nano.
Oppure almeno un albero mandami,
di Inovlozlav bosco lontano.
Quello, sotto il quale ho abbracciato
la felicità, la felicità, bosco di Inovlozlav!
Quello, sul quale - dalla felicità, dalla felicità! -
ancora non mi sono in anticipo impiccato.

Un'attesa


Sconcertato col mio angelismo
imito (abbastanza male) un uomo.
E il cuore, proprio disumanamente rubizzo,
stringo in solitudine. Sto aspettando.
Conosco il Vangelo e la disgrazia,
di nazioni il calpestio, sussurri di donne
e la vecchiaia di parole, e di sogni la concezione,
e del vino l'odore, e il fiore sulla tomba.
E lo spirito conosco, che senza l'incarnazione
sulla terra è come un suono sordo,
e il corpo - inimmaginabile
senza la grazia e lo spirito divino.
Sto aspettando. Nella marea alta e quella bassa
ondeggia un mormorio lontano,
e giorno dopo giorno, come una bizzarria dopo l'altra,
scoppia col pianto o con la voluttà.
Scoppia con efflorescenza come le frasche,
vola via con lo stormo di colombe.
Ah! Le mie poesie sorprendenti!
Ah! La mia vita, che sarà?

A Varsavia nell'anno 2000


Anno ab urbe destructa
quinquagesimo sexto.
Ti ricorderà in un gruppo di giovani
un anziano, di oggi bambino,
ti ricorderà cenciaiola,
e - incompreso - piangerà:
che non ci sarà una migliore
di questa orrenda, mendicante,
di questa morsicata, gobba,
di questa inchinata su sestessa,
decorata come con fiori
dal lutto alarinese ...
Quella bella ricostruita
indifferente guarderà,
porgerà il dito sulle labbra
e - incompreso - si inginocchierà.
Anno ab urbe destructa
quinquagesimo sexto.
E nel terzo millennio,
e nel quarto millennio,
e credete posteri! - In eternità.

NOTA

Julian Tuwim (Lodz, 1894 - Zakopane, 1958), fu tra i poeti più in vista riuniti intorno alla rivista 
Skamander, che propugnava una poesia senza aggettivi e libera dall'impegno civile tipico delle generazioni precedenti. 
Fu autore di diverse raccolte, tra cui: Socrate danzante (1920), Parole nel sangue (1926), Bibbia zigana (1933).


Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Giovanni Schiavo Campo

animo mio lasciati da me solo piegare
a chi ti saggia senza purezza
la tua corda vibratile non canti

cuore oggi unisciti al tuo cuore

compiendo per il fuoco
con la parola un sacrificio
chiedendo a quel saggio
conoscente di sé d’essere elevati
operando con mente illuminata
una dissipazione dell’oscuro

esiste la mia ombra, non io

del mondo scardinato battente
la via mi precede dappertutto

immobile dal senza tempo
io guardo il corso contemplando
la diritta via guardando
l’al di qua e l’al di là
sono per me una porta per passare

tu salve o dio,

tu delle forme fiorite dio silvestre

annunciati tu che cavalchi la nube
che si espande dai recinti del cielo
colmo della tua nuvola
lampeggia, o signore,
tuona forte sicché ti si ascolti
rombando del tuono che lacera l’aria
fino in cima all’eco
con lo scroscio del fulmine
che scuoti dai rami dell’aria
della tua forza del tuono
sotto il cumulo del cielo che sovrasta

poiché da radici possenti
è il legame al mondo
che mantiene assieme saldamente
la cerchia azzurra del silenzio
delle quattro direzioni del suo cielo
tutto ovunque composto di puntelli
che tiene assieme a quattro da radici
c’è mondo per le radici
che si apre in ampiezza
il cielo è ancora più aperto

sia eguagliata la tensione,

signore del rimbombo odimi
avvicinati spirito delle altezze
abbassa la cavalcatura delle nubi
a te che potente accorri
dalla cavalcatura delle nubi come lampo
udendo del tuono della tua voce o signore
del tuo tuono che si propaga
sento rombare:
ti risvegliasti figlio del cielo

NOTA

Giovanni Schiavo Campo è nato il 22 giugno 1960 a Milano, dove vive e lavora, oggi come collaboratore indipendente di vari periodici e critico d’arte.
Come poeta, dopo il pieghevole
 Le mandrie del sole (Monza 1988), ha esordito con L’oro e il fuoco (All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1995). Si segnalano invece tra gli sparsi riferimenti editi su antologie e riviste: Annuale 2, supplemento al n. 2 di Finisterre, Riga (1993), Mondo giovani/mondo poesia, rassegna antologica del Comune di Milano a cura di Biagio Cepollaro e Giancarlo Majorino (1993), Anterem – Scritture di fine Novecento (Verona 1998). Singole poesie sono comparse in cataloghi di mostre e altre pubblicazioni in collaborazione con artisti: diversi volumetti stampati da Alberto Casiraghi per le edizioni Pulcinoelefante di Osnago con interventi visivi dello stesso Casiraghi, di Paolo Schiavocampo, padre scultore di Giovanni, e di Lamberto Correggiari; una cartella di grafiche dello scultore Giancarlo Bulli (Persezioni, 1991); E il merlo?, poesia con relativa traduzione in francese accompagnata da un’acquaforte e acquatinta di Gino Gini (I libri del Merlo, Il Laboratorio, Nola 2005); laminette incise e altri esemplari unici d’artista della moglie Jelica Tipic'.
Di rilievo teorico l’interpretazione di un frammento di Eraclito (
Che cosa non nasconde l’oracolo, Manocomete 3, dicembre 1995) e, sul piano dell’elaborazione poetica, l’intervento Segnatempo: frammenti sul segno come orientamento, pubblicato negli atti del convegno Scritture e realtà – linguaggi e discipline a confronto, a cura di MilanoCosa (Milano 2000).
Si inseriscono in un articolato percorso teoretico, al momento noto in minima parte, condotto anche attraverso la traduzione dal greco antico: frammenti di Eraclito, Empedocle e, per intero, il libro di Parmenide (inediti insieme alle note di commento).
Frutto di una ricerca intrapresa negli ultimi anni, improntata agli esagrammi dell’I Ching, il millenario oracolo cinese, e finalizzata alla grafica del libro, è invece 
Ausa (2006), esperimento di autoproduzione editoriale con una ventina di testi riprodotti sia con mezzi elettronici, sia in versione realizzata con la tecnica d’ incisione su lastre di zinco (fotoincisione e acquaforte) in 30 copie, numerate e firmate, tirate a mano e rilegate dall’autore.giovannischiavocampo@libero.it

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Cristiano Mattia Ricci 


NOTA DELL'AUTORE

Il poemetto è stato composto quasi frettolosamente dopo la Pasqua 2002; è il risultato di uno stato emotivo indotto dagli avvenimenti di quei giorni in Medio Oriente.
Il significato della sacra ricorrenza pasquale, come per ogni altra ricorrenza religiosa, non l’ho avvertito in minima parte; sono stato invece sopraffatto per tutta la durata delle feste dalla barbarie di quegli avvenimenti trasmessi dai telegiornali.
A Sesto San Giovanni, città in cui vivo, erano i giorni del Festival Il Cerchio Azzurro di cui sono stato promotore, e si presentava per me un’occasione per riflettere anche creativamente su quei fatti a noi contemporanei.
Il poemetto è stato letto dall’attrice Itala Cosmo la sera del 4 aprile 2002 nella sala del Centro Culturale Sergio Valmaggi.

Cristiano Mattia Ricci

Il treno (a Mahmud Darwish)

1

Il treno ha percorso questi campi rilegati,
in orizzontale solca la nostra scabra sembianza
nelle sale rilegate giù al Valmaggi: emette con barbarie
ai nostri cuori i propri suoni occlusi; osceno,
ne fa taglio e croce.

Il paesaggio si snatura al suo passare,
c’è premura d’arrivare ad ogni singola carrozza;

ciò che si vede intorno è irreale per ognuno,
la descrizione viene dettata dalle genti (ad uno ad uno): la pistola col suo sangue
gira di mano in mano, di nazione in nazione ne amplifica inquietudini.

2

Non ha vincoli sull’erba il treno,
fa segnale dalle strade alle persone nelle case.

Le case diroccate,
come semaforo rosso danno indicazioni al circostante:
non è un vero giocare, per questi luoghi del mondo.

S’affollano di riflesso le parole nel disagio,
percorrono queste sale rilegate, oscillano
di grida naturali, disarmate.

In queste stanche vasche, ora, si dice dei popoli della terra:
la televisione italiana commerciale s’interrompe, perde le sue ali nel contesto.

Lo sforzo avvolge le parole,
continua la loro naturale apprensione di conoscere…

Lungo i campi in Medioriente, passa tutto quanto qui si ferma.

3

“I am one of you and being one of you is being and knowing what I am and know”
Wallace Stevens
Procede la mia invenzione dirimpetto a questi luoghi,
senza il tempo di guardarsi: prende forma vacillante di bestia
e s’asciuga di se stessa tra le bestie senza azione.

Non c’è più un significare a tutto ciò che si ha davanti,
percorri nuove strade nell’assenza: il niente, mi dico,
ha già un bel significare, è mandante di messaggio.

L’invenzione corre per quei campi, viene di propria iniziativa.

Se l’ascolti per le sale e ti muovi in questo mondo,
devi prestarti a vederlo, puoi inseguirti tra le cose,
rinnovare te stesso negli altri:

rimani infatti un po’ovunque, sparso nelle città, nel tuo pensarti fra paesi,
con l’attuale dissapore di doverti intervistare per le strade di questo mondo;

ti sei portato, da allora, a sentire te stesso
dove l’uomo subisce ingiustizia dall’uomo
che pure tu sei.

Se rimani su una sedia devi pensarti nel mondo, ascoltarti in ogni suono,
saperti compromesso finalmente ovunque.

4

Un suono di tromba agita il tuo folto cranio
e bacia la tua fronte.
Lo stesso suono erompe violento ai tuoi pensieri,
fischia oltre il treno sui tuoi occhi.

Un suono ad ogni forma si diffonde,
districa il suo problema tra chi lo combatte.
Guarda dunque a questi campi, falli entrare nel tuo sogno.

Nelle case le insegne sono cadute di senso,
ti arrivano notizie dai televisori, nelle case.

Le targhe commerciali affisse,
non valgono più a nulla se il mondo è divenuto pietra.

I poeti, posseggono suoni e spinta ad arrivare:
alcuni li puoi vedere sulle case polverose nelle strade,
uno di loro (musulmano), è da anni chiuso in casa prigioniero.

Sopra le case,
guardano fieri il cielo, così come possono vederlo,
e passeggiano nell’aria;

hanno cercato di trovare le poesie del loro popolo
in questo vecchio suono ossessivo, d’un treno
che gli passa la morte ad ogni istante.

5

Il treno rende questa puzza onnipresente: “Puzza d’uomo” la chiamo;
dell’ uomo del mondo in Israele e Palestina assente,
dell’uomo stanco di Dio.

Noi siamo di nessuno, sembra;
noi vogliamo essere topi. Dunque,
il treno è ora zeppo di topi: topi e zanzare, precisamente.
Noi non li mangiamo con piacere, non gradiamo il topo e le zanzare,
allontaniamo l’altrui disgrazia nostra…

Un altro poeta è nelle sale del paese, disossato,
sopraggiunge in sogno alla mia mente quieta.
Ora lo osservi che si alza quella lunga gonna, che ti mostra un mitra da vicino:
poi, viene uno sparo senza suono ch’è diretto alla tua fronte d’uomo, mentre
tutto quanto già scompare per le stesse sale del potere, dimenticato.

Impari tutto questo, osservando ciò che ti è vicino,
le varie strade in cui ti muovi sulla terra.

6

Il treno ripulisce la pianura di persone, non soddisfa il mio appetito,
fa sparire le malcapitate case; e’una questione puramente alimentare,
di semplice tipologia culinaria.

Un uomo fuori al treno, si dispone su una macchina di fango
e brinda contro il sole: poi, lo stesso sparo arriva,
i bianchi teli fanno da coperta all’uomo.

I personaggi reali quanto questi, rinunciano ad avere appetito:
cerco di rifocillare con fantasia, dove non posso, ma qui ora,
più non si mangia al sole.

La tavola la vedo scomparire: le rotaie passano da uomo a uomo,
il treno fischia trionfante.

7

Il signor C., abitante di piccola città, eccolo ovunque intorno a voi!
Non può e non deve mettersi tappi nelle orecchie, non brindare più alle sue tavole.
Rinuncerà soddisfatto ad imbandirle di pesci e delizie,
si porrà nondimeno ovunque egli resista.

Il mondo da oggi è la sua casa rotonda,
il treno diviene barbarie definita, trait de union tra popoli…

I signori delle sale invece, amano le polpette? Ne gradiscono il profumo?

8

Ed ecco le nostre tavole apparire apparecchiate:
riposti sotto le tovaglie stanno i topi.
Le polpette fanno ghiotto il signore d’occidente,
si specchiano col sole e cotte
profumano le loro spezie sull’odore dei topi.

Il treno è colmo di sangue, di salame e fagiani, per tutto il mondo;
corre veloce contro le mura delle sale.

Ora che siedo tra profughi nei campi, ho davanti
questo piatto d’abbondanza; dietro stanno i re con le corone
e molte sale ancora sono ricolme di ricchezza materiale.

Il vizio recalcitrante si sussegue,
l’ingiustizia è praticata finemente.

Ho sopra i miei campi, non distante, un treno:
ci addormenta sobriamente al suo volere
la sua forma di valore.

“Le polpette fanno digerire Washington e New York”,
si legge sui giornali nelle piazze.

(1 aprile 2002)

NOTA

Cristiano Mattia Ricci è nato a Cesena (FO) l’8 agosto 1973. E’ diplomato al Liceo artistico, e laureato in architettura presso il Politecnico di Milano; parallelamente all’attività artistica, pratica la professione di architetto.
Tra il 1995 e il 2003, la sua attenzione si è concentrata in prevalenza sulla parola scritta e sul linguaggio poetico. In quel periodo ha scritto poesie e ha partecipato di frequente a reading poetici; suoi testi sono stati pubblicati su riviste di settore, antologie e edizioni d'arte.
Nel 2000 ha fondato il gruppo del
 Cerchio Azzurro, che si occupa di esplorare i nessi tra le diverse forme di espressione artistica: arti visive, letteratura, musica.
Nel 2003, presso la
 Quadreria del Lotto di Trapani, con la mostra Retornos de lo vivo lejano, il suo linguaggio visivo è radicalmente cambiato.
Da allora partecipa regolarmente a esposizioni collettive, tra le quali si segnalano in particolare 
Fundus (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2008), Polifonie (Cavenaghi Arte, Milano, 2008), Din Don d’Arte – Richiami d’espressività giovane (Villa Bertarelli, Galbiate - Lecco, 2007), Preghiere – Approdi minoritari dell’anima (Art Gallery Bistrot Garden Grove, Roma, 2007), 10 per 10. Questioni di Matematica (Florilegio Arte, Leno – Brescia, 2006), Settimana bianca in galleria e Il segno del Nuovo (Galleria del Barcon, Milano, 2005 e 2004).
Tra le mostre personali più recenti segnaliamo
 Kunst im Wechsel – Arte in cambio (galleria Artycon, Offenbach – Francoforte, 2007), sua prima esposizione all’estero, e Sulle acque della luna (Florilegio Arte, Leno – Brescia, 2006).
A settembre 2009 terrà una nuova mostra personale presso la galleria 
Artycon di Offenbach, dal titolo Vahine's ballad, all’interno della manifestazione d’arte contemporanea Kunstansichten 2009.
Sue opere sono presenti presso collezioni private italiane ed estere.

http://www.cristianomattiaricci.com/

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Stefano Raimondi 

Le carni di Bacon

Ci sono carni e carni, pezzi
dove tenersi, altre dove fare posto
alle ossa, ai nervi, alle guerre.

I

Si fanno i conti con i fiumi
con le sorgenti, con i rigagnoli
storti della memoria.

Facciamo vedere bene le torture
tese, sorridenti, nostre.

Passano ancora di qua i giorni neri
le scorciatoie freatiche dell’acqua
che porta, che riporta tutto:
i ghigni, i musi, le smorfie appese
sui balconi, i maiali colati
a testa in giù, cullati dalle piazze
e tutto il resto che circola
e ricircola come un fatto, come un fiato
che ha già visto tutto, che sa
di come si andrà a finire, di chi
finirà col morire nel suo letto e chi no.

II

I giorni, a volte, arrivano come colpi di mortaio e ci sono
luoghi dove non c’è posto per non tremare, spogliarsi, farsi
picchiare.

“Tienimi dove non c’è paura: sotto la casa di una città
mai inventata, nel cortile spaventato dei bambini tolti al chiaro
per niente, per poche cose sporche. Tienimi fino a quando
saranno spariti tutti e le loro facce d’aguzzini siano
sperma seccato sopra un muro inutile, appoggiato a
niente, come un’altra memoria, un’altra storia: una sorte
raccontata per fare paura”.

III

Non sono bastati trenta denari.
non sono bastati gli anni

per cantare tutte le città
come fossero campisanti
cartoline stampate male
bocce senza più neve da voltare.

Non sono bastate le facce
strappate dalle trincee

per cantare tutta la loro rabbia
i sogni dei bambinicarroarmato
gli abbracci che si tolgono
a uno a uno come ustioni.

E da nessuna parte c’è una città
che smetta di tremare.

Non sono bastate le giostre
degli aerei dentro i finestroni

per sentirci la terra
come faccia male dentro gli occhi
e il buio diventi di maceria
nella bocca. Che qualcuno lo dica
cos’è quello che toglie il respiro
e resta come un cerchio solo
una città smangiata
un parco bruciato
una casa bucata... lo dica cos’è
che rimane a memoria
fin dentro i cassetti, sopra le lame
come la notizia dei morti –
quando arriva: quella di chi se ne va
nella sua guerra a tremare
che trova la sua città
precisa, per morire.

IV

...che strane città si vedono da qui.

Il muro dei fucilati è un documentario
le buche riempite a vivo si svuotano
senza sonoro come le carni fradice di Bacon.
In diretta, si scannano le case, le facce
gli abbracci preventivi della morte.

Stare da questa parte, la Storia, cambia.

Da qui è tutt’altra cosa questo
fiato rotto, ancora, questa pietà.

C’è chi stende ancora stuoie, sotto al sole
dove tutto deve continuare. Intanto
“un tradimento sordo cresce” come
un silenzio gridato, lentamente, al buio.

V

Si compendiano gli istanti tolti
alla paura, le provviste fatte
nel chiaro, le corse fuori
dai rastrellamenti. E chi incontri
non sai di che vita sia:
se più vicina alla tua di bocca
o a un bacio tolto dal Getsemani.

VI

Facciamo che le vittime non capiscano
che gli assassini si vantino
che le strade diventino minate
e che i bambini smettano di giocare
senza mani, gambe, sogni: senza trame.
Facciamolo coraggiosamente, però
come quando la guerra – si diceva-
è dove ti cadono le bombe tra i capelli
e i rifugi restavano serrati
come canti infiniti di tombini
e non c’è più nessuno che ti creda.

VII

Ci sono gesti fatti per ultimi
per continuare come una promessa
o un bambino che ti guarda.

Toccami sotto le macerie
tra le gambe, nell’inguine
indurito di un sesso disfatto.

Facciamo l’amore da qui come
in una grotta d’acqua.

E che il respiro venga metà
da fuori, metà dall’orlo
che tiene tutto sotto. Facciamolo
come un fiato passato piano: per ultimo.

NOTA

Stefano Raimondi è nato a Milano nel 1964. E' laureato in filosofia.
Ha pubblicato 
Invernale (Lietocollelibri, 1999), e Una lettura d'anni in Poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2001). Sue poesie sono apparse su Nuovi ArgomentiIdraAtelier
.
Gli interventi critici su riviste e in volumi collettanei hanno trattato autori come Philippe Jaccottet, Yves Bonnefoy, René Char, Paul Celan, Nelly Sachs e il pittore Nicolas de Staël.
È inoltre autore della monografia critica
 La Frontiera di Vittorio Sereni (Unicopli, 2000) e curatore del volume Poesia @... Luoghi Esposizioni Connessioni 
(Cuem Edizioni, 2002).
Collabora con 
Poesia e Pulp Libri. È tra i fondatori della rivista Materiali di Estetica
.
Nel 2003 ha vinto il premio Città di Tirano, per la miglior opera di italiano pubblicata all’estero.
E’ curatore della rassegna milanese
 PAROLE URBANE - poeti filosofi artisti urbanisti.
(Biografia tratta da http://www.culturactif.ch/)

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Antonio Porta
Su gentile concessione di Rosemary Liedl Porta, abbiamo il piacere di presentare alcuni testi inediti per canzoni, scritti agli inizi degli anni '80 da Antonio Porta.
Su cortese invito della stessa Rosemary, il seguente testo è stato musicato e arrangiato dal cantautore Alessio Luise, in arte luisenzaltro.

Come una nave rotta

Nel mio motore c'è un segreto
forse sono malato come una nave rotta
come una nave rotta faccio acqua dal naso
non mordermi la lingua
Ma dammi soltanto un bacio
con mille forse in più
Voglio fare il bambino tu fammi da cuscino
mi chiedi di volare come una nave rotta
non so più pensare
Sono confuso amore, lasciami andar via
tu mi riempi il cuore e lui galleggia e nuota
Sono confuso amore qui c'è troppo calore
dentro la testa vuota
il cuore galleggia e nuota
Dentro la testa vuota c'è un segreto
Lasciami andar via non chiedermi d'amare
ora che mi succede forse io sono malato
non mordermi la lingua
Ma dammi soltanto un bacio
con mille forse in più
non voglio nuotare, come una nave rotta
non tornare più faccio acqua dal naso
ho un forte dolore
Sono confuso amore, lasciami andar via
tu mi riempi il cuore e lui galleggia e nuota
Sono confuso amore qui c'è troppo calore
dentro la testa vuota
forse non è amore.

La Cicala (22/5/1983)

Te sulle labbra io voglio baciare
amore mio diletto
te e altri mille
io voglio baciare
te sulla bocca
e mille altre bocche
perchè intorno al mondo
io voglio girare
per tutta la terra
io voglio danzare
da te e altri mille
per farmi baciare
nell'aria del mare
io voglio girare
io voglio danzare
intorno alla terra
non so cosa sono
son uomo son donna
è dentro la terra
che voglio strisciare
con mille e una foglia
mi voglio toccare
se bacio se danzo
intorno alla vita
son nuvola, fuoco
ti brucio le dita
la voglia è infinita

mi dici: sei matta!
son matta son savia
chissà cosa sono
son più di una gatta
col piede incarnato
coi denti lucenti
son savia son matta
chissà cosa sono

qualcuno mi bacia
nessuno da amare
son tutti da amare
per tutta la vita
ho ali alle labbra
ho baci negli occhi
ma solo danzare
danzare
danzare
con tutte le dita

io te e altri mille
la voglia è infinita
io te e altri mille
mi dici: hai coraggio
tu sfidi la vita
ti dico: coraggio
morire bisogna
la voglia e la vita

son quel che tu vuoi
son quel che non vuoi
se bacio se danzo
son nuvola, fuoco
son madre son figlia
ho ali alle labbra
la donna ha pazienza
io ora ho furore
nessuno da amare
son tutti da amare
per tutta la vita
ma solo danzare
danzare
danzare
con voglia infinita
io te e altri mille
danzare
danzare
fin dentro l'uscita
la voglia è infinita
la voglia è la vita
la donna ha pazienza
io ora ho furore
la voglia la danza
la vita è infinita

con te e altri mille
io voglio danzare
intorno alla terra
io voglio girare
da te e altri mille
per farmi baciare
nell'aria del mare
nessuno da amare
ma solo danzare
danzare
danzare
la voglia è infinita

son quel che tu vuoi
son quel che non vuoi
non so cosa sono
son donna son uomo
son madre sorella
non sono più quella
ho ali alle labbra
ho baci negli occhi
son tutti da amare
nessuno da amare
la vita è infinita

Ho un buco nel cuore

Ho un buco nel cuore
che mi fa tanto male
si sente il temporale
come scende come sale
più solo sempre solo
ascolto il tuo scrosciare
ho ingoiato i tuoi occhi
nel cielo non mi vedo
Io volevo una foto
tu hai gridato: non voglio
io ho gridato: ti amo
tu mi hai dato un ombrello
ti baciavo la mano
ti toccavo la bocca
io volevo una foto
tu hai detto non voglio
Mi hai regalato un ombrello
e mi hai detto, aprilo
quando ti cadono le lacrime
Per un buco nel cuore
mi hanno aperto il torace
ci hanno trovato un tuo dito
che mi ha tanto ferito
e il chirurgo ha gridato
quando ha visto i tuoi occhi
ha perso tutto il suo fiato
I tuoi occhi nel cuore
il chirurgo ha ricucito
poi ha preso il tuo dito
lo ha gettato nel mare
io non so cosa fare
lui mi dice: sei guarito
voglio andare per mare
a cercare il tuo dito
Ora ho aperto l'ombrello
ma non piove già più
io non sono più quello
senza il buco nel cuore
Mi hai regalato un ombrello
e mi hai detto, aprilo
quando ti cadono le lacrime

NOTA

Antonio Porta fu lo pseudonimo di Leo Paolazzi. Nato a Vicenza nel 1935, visse a Milano.
Presente ne
 I nuovissimi (1961) e curatore di Poesia degli anni Settanta, 
antologia poetica di cui curò anche l'introduzione, fece parte del Gruppo 63.
Dal 1963 al 1967 prese parte attiva alla redazione della rivista di punta della nuova avanguardia 
Malebolge. In quegli stessi anni si dedicò alla poesia visiva, partecipando ad alcune mostre a Padova, Milano, Roma, Londra. La sua opera più strettamente legata a questa esperienza è Zero
, pubblicata in edizione numerata nel 1963.
Ha svolto una notevole attività critica, di collaborazione a riviste che sono state importanti nel panorama culturale dell'Italia contemporanea, e di traduttore: ha collaborato tra l'altro al
 Verri, di cui è stato redattore, al mensile Alfabeta e ai quotidiani Il Giorno dal 1972 al 1978, al Corriere della sera (e al suo supplemento Sette), PanoramaL'Europeo e L'Unità
.
Con scritti teorici sulla pubblicità ha collaborato a 
TargetComunicare Strategia
.
Ha insegnato nelle università di Chieti, Pavia, Yale. E' stato dirigente per le case editrici Bompiani e Feltrinelli, e ha lavorato per la Rai.
E' morto nel 1989.
Tra i testi sperimentali di narrativa sono 
Partita (1967), Il re del magazzino (1978), Se fosse tutto un tradimento 
(1981).
Tra i testi poetici:
 La palpebra rovesciata (1960), I rapporti (1965), Metropolis (1971), tutti raccolti in Quanto ho da dirvi (1977) e seguiti da Passi passaggi (1980), L'aria della fine (1982), Invasioni (1984), e il postumo Yellow
 (2002).
Opera teatrale è
 La presa del potere di Ivan lo sciocco (1974), caratterizzata da una vena surrealista.
(Biografia tratta da http://www.girodivite.it/)

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Andrea Pedrazzini

Per nulle varianti

1
Sguardi in ginocchio e cloni di mondi
sverbano idee e sospiri per ansie
(inutili stragi, oscure e gravose):
già prima di me vomitavano sale.

E’ qui che io vivo e m’intrido di tempo
immobile, eterno per nulle varianti.
Gli attracchi sfiorati, gli aspetti del fuori,
le torte indivise, i fondali abbaglianti.

All’occhio seduto, al collo sterzato
ti vedi aspettare (è meglio se vado):
gli spezzi di canti, i sorrisi lamati:
inutile il senso che già s’è storto.

Straccio di mani, schiere di nati
per nulle varianti del lutto:
per quello che vale, anch’io rimarrò
sul cubo acculato, nello stento di nenie…

Quando mi chiami non sento nessuno
Quando mi guardi penombro del tutto

2
Sappiamo già tutti che il tempo non passa:
con occhi adesivi (è meglio se vai)
le lunghe varianti si marciano in onde
e delirio rimane dove tutto è rimasto.

Il tempo non passa perché va a morire
se da muto che era si nebbia in zittio
o in grido grottoso, sul collo sterzato
da venti di niente che gela e rimbomba.

Il delirio rimane dove tutto è ritmato
a salti sghimbesci, a nuvole tratte,
stonate, rubate alla demenza che aspetto
ogni tanto, ogni volta. Ad ogni tocco rimasto.

Urlando per tempo, sotto le coltri
si fecero copie e cloni di mondi
ma l’ultimo giorno non sarà ultimo
ma inutile pieno, e pieno di stragi…

Quando mi chiami non sento nessuno
Quando mi guardi penombro nel lutto

3
Flosce le mani, nolenti e insolenti,
a salti sghimbesci, la schiena si storta:
l’attesa ci porta nel niente che aspetto
e so che già adesso l’attesa mi porta

a spalanchi ed intubi, portali ed affacci
che crepano in risa e nulle varianti…
in quell’inutile pieno che è pieno di stragi.
(è ora che vada, se qualcosa mi porta)

Zittano i volti come fossero armi
frenetiche al dolo, spalanco di nulla:
è qui che io vivo, con dita ghiacciate
mi annodo gli sguardi per altre varianti.

Sto quasi per dire e sono invece parlato
da copie fasulle e cloni di mondi.
Il risaputo si fredda, mi spacca la pelle:
muoio nel pieno che è cucito di stragi.

Quando mi chiami non sento nessuno
Quando mi guardi ti perdo del tutto

4
Per cloni di mondi si monta alla cieca
pregando con finta i divini lontani
e la finta è sostanza infinita dei riti,
di quelle nulle isostrofiche merci

che piattano e rugano le linee del mondo.
Le bocche coi denti, le lame pensate,
gli stracci di pelle, il sangue sborsato,
le nulle varianti e lo sperma finito.

Stando sicuri nei nidi asfissiati
per cloni di mondi si monta alla buona:
teste sgonfiate comprano sguardi.
Ali di sasso e banditi servili.

Assediato da schermi ed occhi nolenti,
m’annido nel tuffo, mi scanso, mi perdo
come ho già perso gli archivi e le notti;
stando sicuro nei nidi asfissiati…

Quando mi chiami non sono nessuno
Quando mi guardi penombro del tutto

5
Spalanchi veloci e grido di donne,
digrigno sottile a zittare la mossa,
senza dolore è il frastuono dei mondi:
di lato dagli occhi vedo ancora battaglie.
Il rifugio è una grande mangiata di unghie
che tutto nel dorso è il timore del passo:

il rifugio del bianco, lo sguardo annoiato:
forse è meglio se vado e già sono perso.

Le bocche linguano l’apocalisse dei media
per luci gridate e nulle varianti:
mi senti? Ti chiamo e mi vede nessuno,
flosce le mani, nolenti e insolenti.

Capelli tagliati, duci morenti,
affacci distratti, polpe di carni,
stracci pensosi (quando mi guardi),
teste sorrise e bisogni venduti.

Quando mi chiami non chiami nessuno
Quando gli sguardi penombrano tutto

6
Sappiamo già tutti che il tempo non passa
quello d’avanzo o quello già perso,
agonico straccio che clona i miei gesti:
da tempo ci invadono i duci vincenti

che sul cibo acculati mangiano e sanno,
di fronte a milioni di bipedi nudi
che mangiano mangiano e non sanno se sanno,
che mangiano trombano e non sanno se sanno.

Quando gli sguardi penombrano all’erta
ogni bagliore è uno sverso di gola:
un colpo rimasto, un busso di porta,
lontano rimbombo di idee già smentite
da vincitori a cavallo, marci di gloria
(peni mostrati, nolenti e solerti),
da vincitori con ali di sasso:
teste sorrise e bisogni venduti.

Quando mi chiami io sono nessuno
Quando mi guardi penombro da tutto

7
Per cloni di mondi si morde alla cieca
sempre a cavallo, già pronti a tutt’altro:
le poppe rigonfie, i nodi perduti,
i doli, i trapassi e le prese furtive.

Ed è qui che io vivo con occhi tramonti,
quasi adatti allo sguardo asfissiato e spalanco
(si perdono un botto e non vedono l’altro)
nel rifugio del bianco, ad un pelo da tutto.

Contro di me vado e ritorno
pensando cose a cui non credo;
quasi adatto resisto tra i bipedi nudi
che mangiano trombano e sguardi in ginocchio.

Assediato da schermi e tracce di mondi,
m’annido nel tuffo, mi scanso, mi perdo
come ho già perso gli archivi e le notti;
stando sicuro ad un pelo da tutto…

Quando mi chiami non sono nessuno
Quando mi guardi penombro del tutto

8
poi riparto di gamba, senza volerlo
(il rinculo del mondo mi sta schiudendo);
tra grido di donne e semplici colpi
riparto di gamba, senza la gamba.

poi riparto di gamba, senza saperlo
(il rinculo del mondo mi sta schiudendo);
tra grido di donne e comandi stentati
riparto di gamba, senza la gamba.

poi riparto di gamba, senza volerlo
(il rinculo del mondo mi sta schiudendo);
tra torte indivise e nulle varianti
riparto di gamba, senza la gamba.

poi riparto di gamba, senza pensarlo
(il rinculo del mondo mi sta schiudendo);
tra inverni di luce e semplici colpi
riparto di gamba, senza la gamba.

Quando mi chiami non chiami nessuno;
quando gli sguardi penombrano tutto

riparto di gamba, senza la gamba.

(II stesura - 2004)

NOTA

Andrea Pedrazzini vive e lavora a Milano. Suoi disegni sono stati pubblicati, a partire dal 1987, dal Sole 24 OreAlfabeta, La GolaSlow, La StampaL'Unità, L'Atelier du RomanL'Autre Journal, The Wall Street JournalChicago Tribune, Linea d'Ombra e molti altri. E' stato illustratore e redattore della rivista di poesia contemporanea Baldus. Ha partecipato a varie esposizioni collettive e rassegne d'arte contemporanea. Nel 2000, insieme ad Umberto Parenti, ha fondato le Buioproduzioni, atelier di arte contemporanea.
http://buioproduzioni.wordpress.com/chi-siamo/http://debestiarumnaturisn.wordpress.com/

Contributo pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Pietro Pancamo
In campagna
S'alza al mattino
un fumo di tigri
dalle iridi aperte,
in campagna;
un'espressione grinzosa
rimbocca la faccia
dei contadini.
E mentre il fiume
s'accalca ai loro piedi,
si spulciano gli occhi
scrupolosamente
trovandovi affogate
zampette di ragno.
Io invece,
montanaro del cuore che batte,
m'inerpico per un letto castano
di mie pietruzze in salita.
Poi, di sera,
- tornando a zonzo verso casa -
sembro un fantasma nero che,
appuntito come un ago,
viaggi sui trampoli del buio.

Confronto
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un'orma di luce
imbavaglia lo spazio.

Decomposizione psichica
Musica come bava alla bocca:
e il cielo si gonfia tra le urla dei pazzi,
il loro sguardo è vento
che si perde nel labirinto di stelle.
Ogni parola è una stella
che splende di saliva: e cieli agitati
innevati di stupore
tramontano lontani,
evocati dalla morte.
Il mio cielo
è questo mio cervello
pieno di tralicci spezzati
e di barriere sventrate
e d'acque ferite
e di binari sradicati
che si mordono col ferro.
Dentro le vene,
aggrovigliate come un gomitolo
di dolore,
il sangue è un fiume abbandonato
terso di rumori prosciugati.
La morte è silenzio
stonato.

Morte antologica permanente
Siccome la vita
ci rovina la vita
(sempre!),
ieri ho visitato
(un po' turista, un po' becchino
e un po' parente sconsolato)
l'interessante morte
antologica permanente
delle mie speranze
migliori:
quanti sogni falliti
imbalsamati in bella mostra!
Li guardavo e piangevo
desolato nero,
dannandomi frenetico
la salute.
E adesso è soltanto
stanchezza rabbiosa
resistere ogni giorno
al ripetersi ingombrante del respiro
e della luce.

Occhi e geometria
Diametri di pioggia
attraversano il mio sogno.
Il silenzio
è un pergolato di nubi
che stringe a sè lo sguardo.Sguardo innamorato del sole,
vorresti che quel bulbo giallognolo
fosse un occhio, forse il tuo!
Invece è solo
una geometria di fuoco...

Trattatello

Prefazione
le parole seguenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Il silenzio è un'isteria di solitudine
che genera e accumula:
prodotti temporali,
energie cinetiche,
reazioni di gesti a catena.
I sogni, inseriti nella rassegnazione
come in un programma di noia pianificata,
sono gli arti di questo silenzio;
o, se preferiamo,
gli organuli ciechi del silenzio
che lavorano a tastoni
dentro il suo liquido citoplasmico.
Il silenzio può anche essere
la cellula monocorde
di un sentimento spaventato,
di un amore rappreso,
di un guanto scucito:
in tal caso
trasforma la solitudine
nella raggiera cerimoniosa
d'una nausea che procede,
maestosa,
con moto uniformemente accelerato.
(Si registra un'accelerazione a sbalzi
solo quando
un'effervescente disperazione
s'intromette con scatti sismici
a deviare il corso
dell'accelerazione stessa).
Per concludere,
l'evoluzione della nausea
può secernere un vuoto,
avente più o meno
le caratteristiche della morte;
o germogliare per gemmazione
quella strana forma di vita
identificata col nome di indifferenza,
la quale risulta essere (da approfondite supposizioni)
il chiasmo di paura e odio.

Postfazione
le parole precedenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Ogni allusione
a sentimenti e/o fatti reali
è voluta
silenziosamente.

NOTA
Pietro Pancamo, nato nel 1972, è giornalista e redattore professionista.
Attualmente collabora come redattore della rivista on-line
Scriptamanent, appartenente alla casa editrice Rubbettino. Scrive poi articoli letterari per Fucine Mute, periodico web di Trieste (http://www.fucine.com/), articoli sportivi per il Corriere dell'Umbria, nonché poesie e racconti per il mensile telematico di Lucca La Notizia; infine cura la sezione di poesie del bimestrale elettronico Progetto Babele (http://www.progettobabele.it/). Ha pubblicato articoli, racconti e poesie anche su riviste cartacee, anche internazionali.
In campo letterario ha ottenuto il primo posto assoluto al Premio Città di Torino e il secondo al Trofeo Medusa Aurea, indetto dall'Accademia Internazionale d'Arte moderna di Roma.
Ultimamente collabora, in veste di traduttore ufficiale dall'inglese, con la versione italiana della rivista internazionale Niederngasse.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Miguel Otero Silva
NOTA DEL TRADUTTORE
Aderisco con convinzione al precetto di Milan Kundera secondo cui “per un traduttore l’autorità suprema dovrebbe essere lo stile personale dell’autore” (I testamenti traditi, Adelphi, 1994, pag. 114), non la ricerca della bella lingua. Questo significa mantenere il più possibile la fedeltà letterale al testo d’origine.
Il principio trova facile e doverosa applicazione nella traduzione dei testi in prosa e in versi, fino a quando non si incontrano locuzioni idiomatiche che non hanno un corrispondente letterale nella lingua d’arrivo.
Mi spiego con un esempio. Una persona particolarmente fastidiosa viene definita nel mondo anglosassone "a pain in the ass", e questa è un’espressione in qualche modo codificata, già pronta, da prendere e usare come fosse un’unica parola.
Ma cosa può fare un traduttore italiano quando l’incontra?
Immaginiamo un testo in cui si dica che "George was a pain in the ass".
Tradurrà letteralmente "George era un dolore al culo", senza curarsi del fatto che non sta usando un modo di dire ma azzardando una (relativamente) nuova metafora?
Sceglierà un’espressione italiana analoga nel significato ma assai meno colorita come "era una spina nel fianco"?
Cercherà il colore e una maggiore aderenza all’espressione originaria con un "era peggio delle emorroidi"?
Scriverà una nota a pié di pagina?
Sono dilemmi con cui ci si può divertire e cimentarsi nella ricerca di soluzioni inedite.
Ma laddove non si presentino problematiche di questo tipo, il traduttore kunderiano non farà sfoggio di sinonimi e non andrà a cercare equivalenze dinamiche, preferendo sempre la traduzione letterale.
E’ ciò che ho fatto con le poesie di Miguel Otero Silva, scoprendo con piacere che le sue parole andavano come ad accomodarsi nell’italiano, trovando spontaneamente un’armonia che, anche se facilitata dalle analogie che la nostra lingua ha con lo spagnolo, aveva, comunque, qualcosa di magico.
Ma… ogni regola ha un’eccezione. Nelle poesie in versi liberi l’ho applicata, ma di fronte a El aire ya no es aire mi sono chiesto se fosse meglio – ossia più fedele allo stile – tradurre letteralmente, con la conseguenza di trasformare un sonetto in un altro componimento in versi liberi, oppure, con qualche piccola forzatura, mantenere la scelta formale dell’autore.
Mi sono preso la responsabilità di scegliere la seconda opzione poiché più che nella prosa, in poesia s’impone il fenomeno della semantizzazione del significante, vi è, cioè, un’osmosi fra contenuto e forma che suggerisce di discostarsi il meno possibile dalle alchimie verbali stabilite dall’autore.
Se un poeta che si esprime in versi liberi in modo così melodioso e disteso, mi sono detto, ha deciso di scrivere secondo uno schema codificato, ha avuto i suoi motivi. Ed ho, quindi, scelto di mantenere anche in italiano la forma-sonetto.
Ne L’aria non è più aria, dunque, la traduzione, sebbene rispettosa del senso originario, si è presa qualche libertà e, pur senza inseguire il miraggio di un’isometria che riproducesse anche la struttura di rime del testo spagnolo, ha mantenuto il classico schema del sonetto in endecasillabi.
In un caso, ne La sesta voce del coro di questo lago, la scelta di non tradurre ha permesso di conservare un’eco sonora significativa.
E’ tutto per le questioni tecniche.
Di Miguel Otero Silva, mi limito a dire che è un poeta nel solco della migliore tradizione novecentesca latino americana – quella di Neruda, per intenderci – un autore pieno di passione, e, direi, di una passione contagiosa.
Perdersi nei suoi versi ampi, nella loro musica evocativa, e vibrare con essi è fare un viaggio nell’intensità.

Alessandro Magherini (alessandro.magherini@rcm.inet.it)

L'aria non è più aria
L’aria non è più aria, ma respiro;
l’acqua non è più acqua, ma uno specchio,
poiché l’acqua non è che il tuo riflesso
E viaggia la tua voce con il vento.

Più non è verso il mio, ma solo accento;
né più è cammino il mio, già che è un corteo,
poiché torno da te quando ti lascio
e ombra di tua luce è il mio pensiero.

Crudele sfoglia il fiore la ferita
ed è la morte un tenero fluire
che a te mi lega con perpetui nodi:

Brilla come una rosa la ferita,
morte non più ma dolcezza di vita
la morte che mi dai fra le tue braccia.

La poesia
Tu, poesia,
ombra più misteriosa
della radice oscura degli antichi alberi,
più irraggiungibile dall’aria
delle vene segrete dei minerali profondi,
astro più recondito
della brace rinchiusa sotto le arcate terrestri.

Tu, musica tessuta
dalla non udibile arpa delle costellazioni,
tu, musica protesa
al limitare degli ultimi precipizi azzurri,
tu, musica generata
nel tam-tam del polso e nel canto del sangue.

Tu, poesia,
nata per l’uomo e il suo linguaggio,
né candido gabbiano sopra un mare senza navi,
né fiore leggiadro svettante sulla piaga di un deserto.

La sesta voce del coro di questo lago
Nella mia vasta estensione di pianto e argento,
nell’assalto azzurro delle mie spade,
nei miei infervorati boschi d’acqua,

arteria sono per il pulsare della sua morte.

Nelle fauci del sole, giaguaro di fuoco,
nelle ali del sole, gallo del cielo,
nella criniera del sole, cavallo sciolto,

fiaccola sono per dar luce alla sua morte.

Nella rotta odorosa delle iris,
nel dolce arrivare del fuggitivo,
nel latte caldo dei fiumi,

cammino sono per incontrare la sua morte.

Nel polline astrale dell’acquerugiola,
nello scrosciare di cristallo e furia,
nel chiaro piumaggio della pioggia,

semenza sono per seminare la sua morte.

Nelle mangrovie dalla radice scalza,
nelle isole di visceri calcinati,
nel silenzio bianco delle spiagge,

sabbia sono per essiccare la sua morte.

Nel puledro di luce impennato,
nella notte traversata da una frusta,
nel fuoco sbigottito di una folgore,

candela sono per bruciare la sua morte.

Nella palma lacerata dal vento,
nei monconi dei tronchi secchi,
nella stanchezza degli alberi di cocco,

lode io sono per tessere la sua morte.

Nell’agitarsi delle vele alte,
nell’angolatura dei boma,
nella lenta evasione delle palandre,

corteo sono per portare la sua morte.

Nelle labbra silenti degli indios,
nello sguardo di secoli sospesi,
nell’assetato cuore contadino,

guarura sono per ululare la sua morte.

Nell’untuoso bollire di notte e fango,
nelle oscure chiaviche sinistre,
nelle mie pupille torbide di petrolio,

olio sono per accendere la sua morte.

Nei motori rauchi delle navi,
nel pugnale immerso nel mio costato,
nell’avido rampone delle trivelle,

parola sono per negare la sua morte.

Guarura: strumento a fiato dei nativi venezuelani.
E’ costruita utilizzando un corno bovino oppure la pianta della tapara.

Poesia della tua voce
La tua voce popola di iris
i precipizi solatii dove fischiano i miei versi
di combattimento.

La tua voce semina di stelle e d’azzurro
il cielo piccolino della mia anima.

La tua voce cade nel mio sangue
come una pietra bianca in un lago tranquillo.
Nel mio petto albeggiano uccelli e campane
quando muore il silenzio per far nascere la tua voce.

Amo la tua voce quando canti
e c’è un tremore di nidi e boschi nella tua
gola bianca.

Amo la tua voce quando canti
e ti fa fremere il ritmo delle fonti che scendono
dalla montagna.

Amo la tua voce quando canti
e scuote la tua voce la tenerezza feconda
delle brezze che trasportano polline nelle sere
di primavera.

Amo la tua voce quando sei in silenzio
poiché il silenzio è un sottile presagio della tua voce.

E amo la tua voce di un amore intenso come la morte
quando si sfoglia in parole confuse,
in parole bagnate dal tuo aroma e dal tuo sangue,
in minute parole che nell’ombra mi cercano
come bimbi perduti,
in parole brucianti come fiamme azzurre,
nel tiepido bisbiglio che non è ancora parola.
Amo la tua voce intensamente nel cuore della mezzanotte.
Quando la tua voce arde nella selva incendiata del
nostro amore.

Ritrovamento della pietra
Ritrovamento della pietra:
La pietra è il riscatto di forme e volumi
che furono sotterrati dal tallone del vento.

Parafrasi dell’iris:
l’iris è la vendetta di erba mate e fronde
che estinsero il loro verde nel fango dell’iris.

Genesi della pioggia:
la pioggia è il ripiegare di ruscelli e paludi
che assaltarono il cielo dall’arcata del sole.

Sorgente di una voce:
la tua voce, giovane poeta illuminato,
disegnatore di epicicli, scopritore di mondi,
quella voce che ti sgorga dalle insolite viscere
in risacca di grida dei poeti morti.
E’ la calce delle ossa dei poeti morti,
bianca semente che germoglia sopra il tuo cuore.

Semina
Quando di me non resterà che un albero,
quando le mie ossa saranno sparse
sotto la terra madre;
quando di te non resterà che una rosa bianca
nutritasi di quello che tu fosti
e già sarà salpato con mille differenti brezze
l’alito del bacio che oggi beviamo;
quando i nostri nomi
saranno suoni senza eco
addormentati all’ombra di un oblio insondabile;
tu continuerai a vivere nella bellezza della rosa,
come io nel fogliame dell’albero
e il nostro amore nel sussurro della brezza.

Ascoltami!
Io aspiro a che viviamo
nelle vibranti voci del mattino.

Io voglio rimanere con te
nella linfa profonda dell’umanità:
nel riso del fanciullo,
nella pace degli uomini,
nell’amore senza lacrime.

Per questo,
siccome dovremo darci alla rosa e all’albero,
alla terra e al vento,
ti chiedo che ci diamo al futuro del mondo…

SOTTERRARE E TACERE

Goya
Se sono morti fra scintille ingannatrici
immolati da crateri d’acciaio,
affogati da un fiume di cavalli,
schiacciati da sauri meccanici,
sgozzati da lamine di forgia,
triturati da eliche coscienti,
arsi da un fuoco diretto,
sotterrare e tacere?

Se sono caduti con le spalle nel fango
con un foro violetto nella gola,
se avvoltoi di legno ed alluminio
dal più alto azzurro diedero loro morte,
se l’aria che bevvero i loro polmoni
fu uno sbuffo di nube velenosa,
se così morirono senza aver vissuto,
sotterrare e tacere?
Se le voci di comando li mandarono
deliberatamente nell’abisso,
se inumidì i loro aridi cadaveri
il pianto complice degli aspersori,
se il loro sangue di giovani, il loro sangue
fu soltanto la cifra di un contratto,
se le streghe cavalcano le loro ossa,
sotterrare e tacere?

Sotterrare e gridare.

Tre variazioni a proposito della morte
Le nostre vite sono i fiumi
che vanno incontro al mare,
che è il morire.

Jorge Manrique


1
No! Non è possibile vivere come i fiumi
cantando fra declivi e iris
o fra rupi puntute e rami troncati,
senza presentire il mare che li aspetta,
l’infinito verde e increspato
nel cui cuore di sale i fiumi si trasformano in pesci.

Non è possibile ondeggiare come il fuoco,
illuminando volti di danzatori ridenti
o tingendo solchi d’angosce nelle facce dolorose,
senza presentire la brezza che ne ucciderà la luce
o l’acqua che ne trasformerà le rose in cenere.
Per metà della vita cantiamo la morte
che è il mare dei fiumi e l’acqua delle fiamme.

2
Simboli della morte non sognano d’essere l’osso,
né le orbite vuote, né il sudario flaccido.
Le ossa sono solo il vestibolo della morte.

Quando le ossa cessano d’essere ossa
e nel loro biancore rigido v’è un tremore di germi,
è che nasce la poesia dalla morte,
è che germoglia il simbolo creatore della morte.

La morte che io canto non è croce di cimitero,
né illusione metafisica delle menti codarde,
né oscuro infinito di profondi filosofi.

La morte che io canto è un’ombra costruttrice
di bianche farfalle che attraversano i cammini del vento,
di steli che si mescolano alla polpa materna della terra,
di limpide fonti che scuotano le viscere del mondo.

3
Un bimbo è la crisalide di un amore e di un pianto,
è la prima strofa di un poema,
è la costa iniziale di una montagna.
E la morte di un bimbo è assurda
come quella di un mattino che si trasformi in ombre.

Se ieri si aprirono le carni della madre,
se un rumor di biancore le risvegliò i seni,
quel sangue, quel latte, quel dolore, sono stati
la radice dei passi di un uomo.

Solo il boscaiolo folle taglia un albero
quando il tronco è appena tenero germoglio inutile.
Solo folle la morte uccide un bimbo,
spegne un amore che non è nato
dissecca lacrime che non sono mai scese.
Quando sono i bambini a morire
non so comprendere la missione della morte.

NOTA

Miguel Otero Silva, nato a Barcelona (Venezuela) nel 1908, è stato poeta e giornalista.
L’adesione alla lotta politica, unita a un interesse sempre crescente per la letteratura e il giornalismo, gli impedì di terminare gli studi di ingegneria. Fu incarcerato ed esiliato a causa della sua opposizione al governo dittatoriale di Juan Vicente Gómez (1930-1936). Caduto il dittatore, fu nuovamente esiliato nel 1937 per le sue tendenze rivoluzionarie e fu, quindi, costretto a spostarsi ancora in diversi Paesi. Rientrò in Venezuela nel 1941 e si dedicò completamente al giornalismo e alla poesia, divenendo un affermato saggista e narratore.
Fra le sue opere vanno ricordate:
 Agua y cauce del 1937; Elegía coral a Andrés Eloy Blanco del 1959; La mar que es el morir, Umbral Obra poética del 1977.
E’ morto nel 1985.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Angelo Montingelli
Mio padre

Porta sulla fronte i segni
di torride mietiture, di terre
pietrificate e consunte nell'anelito d'acqua;
sulle labbra il lamento muto
delle piaghe sotto l'unghie che strappano
alla terra in letargo e alla brina
un'esile radice amara;
nelle pupille la chiarità di tramonti primaverili
al limitare della pianura
che è miserabile pascolo a misero gregge.
In lui è l'immagine
delle eterne stagioni della terra.

Infanzia

Sulle mie dita, farfalla,
riflessi opalini di ali strappate
ai papaveri rossi e delicati.
Letame. Rifiuti.
Fra le pietre roventi di sole
le attese per cogliere
nel cappio dei fili dell'erba
il tuo capo ansimante, lucertola.
Nel mio cuore,
ombre di spenta tristezza
per la vostra agonia che precede
la morte della mia infanzia.

Per un figlio

Tua madre abortì
lavando i delicati lini
di frau Erika, puttana di rango,
raschiando piccole geografie
di sperma con le unghie
consunte e livide nel lavatoio comune.
Poi Franz, fabbro e lattoniere
mi assunse a giornata
e tua madre lavò solo i miei panni.
Quando, incinta del tuo feto,
aspettava di vivere il suo premio,
il forcipe le uccise negli occhi
la sublime, dolorosa visione.

Natale ad Auschwitz

Quella notte,
Johanna partorì al campo 6
un Cristo morto.
Un chiarore da oriente,
luci di bombe?,
animò lacrime di pietra.
Magi nutriti di edemi
piansero il mancato prodigio
sui miseri doni.
Canne d'organo, ignare,
cantavano lontano
la nascita della speranza.

Per un ebreo del ghetto di Varsavia

Sotto le volte
della nostra necropoli
la tua agonia fu lenta,
Fridrik.
La fogna del ghetto
fu il tuo Golgota,
senz'ombra di corruccio biblico.
Tredici volte cadesti
a lambire le carni aperte,
lordate di sterco d'uomo.
Quando credesti di afferrare la luce,
il carnefice biondo
ti indicò i due ladroni
in dignitosa attesa
del Cristo Fridrik,
per offrire alla canaglia
i fasti della seconda Passione.

NOTA

Angelo Montingelli è nato nel 1935 a Milano.
I suoi studi si sono svolti fra l'Istituto Tecnico Feltrinelli e il liceo classico; in quegli anni si è innamorato dei libri.
Nel 1969 ha sposato Lidia, e nel 1974 è nata l'amatissima Laura.
Ha lavorato per 35 anni presso un'azienda farmaceutica; ma fuori dall'ufficio ha continuato a coltivare i suoi interessi culturali e la sua vorace, instancabile passione per la lettura.
Nel 1965, una serie di scritti nati sia da esperienze di vita vissuta sia da riflessioni sulle sue letture si trasformò, per interessamento dell’amico fraterno Giorgio Fioravanti, in un libro edito da Luigi Maestri, con una prefazione del critico e anglista Roberto Sanesi: 
Su un profilo in creta e altre poesie.
Nel 2005, altri più recenti scritti sono confluiti nella seconda raccolta
 Nel tempo, corredata da alcuni acquarelli di Cristiano Mattia Ricci.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Marco Monteverdi
AEIOU
COME FATE A DUBITARE QUANDO NON SAPETE NEANCHE PER QUALE MOTIVO IN QUESTO MOMENTO PENSATE?
Scudo di riflessi mediati da una fonte segreta e immutabile,
il mondo della realtà delle cose è un ostacolo
che rappresenta una distorsione
se non addirittura un inganno.
Sensazioni che portano sulla strada
che porta alla porta da aprire.
COME FATE A DUBITARE QUANDO NON SAPETE NEANCHE PER QUALE MOTIVO IN QUESTO MOMENTO PENSATE?

Canto
Le gocce d’acqua oscillano
In un disseminarsi di frammenti
Pergamena distesa fra le menti
Rotoli ombrosi che brillano.
Canto
Un Amore mai noto (non ancora)
Eppur non dimenticato

Esposti
Esposti a raggruppamenti
Suddivisi
rimbombano voci previste
posti,
menti,
visi,
viste.
Valore unico, inscindibile, su.
Dentro, componenti ideali,
Fuori, rivalutazioni emozionali,
Altrimenti,
regole eventuali.

Intuizione
Fotografia
L’immagine apparentemente si ferma
Ma nulla è fermo
Tutto ruota
Immagini che i nostri occhi percepiscono
Ma i nostri occhi non vedono tutto
Ecco l’ intuizione.
La vedi?

Necessità
Vi sarà il potere mafioso fino a quando vi sarà il potere politico,
vi sarà il potere religioso fino a quando vi sarà il potere mafioso e quello politico,
tutto è necessario perché l’uomo capisca
CHE IL POTERE NON SPETTA ALL’UOMO.

Ora
Ora, il tuo pensiero distolto da ogni fittizio problema
lentamente scema,
e di nuovo, come per incanto
torni
serena.

Prof
Tipica vestaglia di seta cromata.
La osservo.
Intanto parla ma come parole vane non le sento già più,
vedo solo la sua bocca truccata di un rosso intenso muoversi,
Difficili interpretazioni,
aggiornamenti e modifiche continue,
manipolazioni,
l’originale,
qual è l’originale?
Qual è la verità da cui l’uomo scappa da sempre?
I testi antichi che giungono a noi,
sono tradotti correttamente o sono in qualche modo modificati?
Il dubbio è umano, la certezza divina.
L’Amore, il mio unico pensiero, non riesco a pensare ad altro…
Perché lei intanto continua a parlarmi di chimica?
Prof. Posso uscire un attimo?

Resa
Si arrese,
il “nemico” si arrese,
in un paesaggio sterminato
in quel momento capì quanto inutile fosse combattere,
capì, capì, capì
capì anche quanto difficile fosse farlo capire ai “vincitori”.

Sale
Tratta di Sale
In Alto
Da un Monte Vedo
Un Aquila
Reale
Tutto ciò che ho
Detto
Fatto

Spirale
Déjà vu,
Effetti geometrici mai esenti
Nella luce del giorno
un peculiare profumo
prisma generatore di albore
mancanza preadamitica
tramite di trasfigurazione di luci che vengono da lontano
la vita terrestre non è nemmeno
l'infinitesima parte
di quel primitivo splendore
che l'umanità perse.
Il tutto nel frammento.

Sussurro
Sussurro nelle tue orecchie
Un Dolce principio in cui tutto è vivo.

Velo
Innocuo meraviglioso favoleggiar dei poeti
Timidamente allo Specchio
Chioma folta accogliente
Contrapposizione Netta alla metodologica calvizie
cercata dalla massa
Visione amorevole e naturale
contrapposizione ad una realtà sempre più dura, cruda e sporca.
Dolce volare in un mondo d’Amore
E il far volare nell’aria di questa realtà
Un soffice velo di Verità.
Niente trucco.
Solo un velo.

NOTA

Marco Monteverdi è presente su questa terra dal 17 febbraio 1975; è nato a Casorate Primo (Pv), e vive a Buccinasco (Mi).
Terminata la scuola ha subito iniziato a lavorare, adattandosi alle più svariate situazioni e frequentando qualche corso di formazione, tra cui uno in
 Tecniche della commercializzazione e della comunicazione visiva
. Esperienze a suo giudizio molto dure, e che, come ci dice l’autore, “portano insegnamenti importanti, come ogni istante della Vita, che è Sacra”.
Ha iniziato a scrivere intorno al 1993, rientrato a casa dopo una serata con amici; da allora non ha più smesso.
Per Monteverdi la scrittura è senza dubbio un dono che viene dall'Alto.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Luigi Medri
Madrigale
Con più assai cortesia
cantare vorrei
la folta notte dei tuoi
neri capelli ove dormono
i sogni del vento.
Con più assai cortesia
raccontare vorrei
i tuoi grandi occhi ove pare
trascolorare
buia acqua di mare.

Come attraverso un vetro
Amici miei cari
perduti lungo la via
io non ho pianto, né
pregato mai
sopra le vostre croci.
Ma se mi volgo indietro
sorridermi vi scorgo
come attraverso un vetro.

1952
(a Carlino Guerra - Giandinoto)

In una tazza bevo
Dondola un vento fragile sui vetri
mentre trabocca intorno
la primavera alta fra le canne.
In una tazza bianca bevo
la solitudine del giorno.

1979

Plenilunio
Conosco il tuo passo che mi sfiora
la tua figura d’ombra che mi veglia
nella bassa marea del corpo steso.
Remoto è il tuo mondo, senza peso.
E tu non vuoi, né puoi darmi una mano
per togliermi quest’abito imbrattato,
intriso d’anni, che non lascia
filtrare più l’aria della vita
- che nel mio corpo affonda
i suoi ami di morte.
Non recito da tempo, tu lo sai,
che una mediocre e quotidiana
vuota commedia destinata, penso,
a me soltanto: una commedia umana
che non ha gran senso.

1980
(alla memoria del padre)

Più caro è il silenzio
Più caro è il silenzio quando sai
ch’essere uditi è solo un’illusione
e ognuno che parla, parla appena
per deporre su un altro la sua pena.
Così decidi un giorno che non hai
più voglia di sentirti recitare
né ti lusinga più d’aver ragione.
Solo ti basta di poter durare
da questa alla prossima stagione
e farti un po’ di caldo per dormire
sulla strada del nulla fin che vai.

1981

Biografia
No, io non ero il principe di un dramma
in una ressa d’armi e di congiure,
ma un cortigiano invece: uno, per dire,
volonteroso,
senza gran talento,
utile forse a chiudere un corteo,
a dare avvio ad una scena o due,
ad avvisare il principe:
strumento
facile, mite, di fidato uso;
con nobili sentenze ma un po’ ottuso.
Divento vecchio...quasi vecchio sono.
Ritroverò il coraggio di sgusciare
una mandorla bruna, d’accostare
una pesca matura alla mia bocca?
Amleto è morto, la mia voce è stanca;
mi vedrai sulla spiaggia camminare
con pantaloni di flanella bianca.
Udito ho cantare le sirene
l’una all’altra nell’ora della sera.
Le vedrò al largo pettinare l’onde,
incoronate d’alghe, risospinte
sulla cresta dell’acqua bianca e nera.

1979

Endecasillabi sotto l'albero di ciliege
Acceca il sole l’onda del frumento,
l’attimo vola dove vola il vento
ma rare son le cose che non scordo
ove m’attira l’ombra del ricordo:
una cantina sporca di carbone,
l’acrobata del circo sul pennone,
una ballata che s’annoda piano
in una chioma d’aria colorata.
Nella mia classe l’insegnante dava
ad uno ad uno i voti d’italiano;
nei suoi capelli un’ape si posava.
E tutto s’è perso in un viavai
d’anniversari vuoti e polverosi,
le lettere alle quali non risposi
i libri amati che non lessi mai.
Ho smesso di distinguermi dai morti,
tutti son vivi, tutti son morti;
potrei essere un altro eppur me stesso,
dire altre cose e crederle per vere.
Ma ride il vento, batte il cuore adesso.
Ho solo voglia di ciliege nere
e di baciarti sulla bocca, amore,
riversa tra i cespugli delle more.

Insonnia
Morirò un giorno, così, come tutti,
ma perché ancor mi sorprendo
d’ognuno che muore, non so;
né so perché un bimbo in giardino
dà agli alberi un nome e gli parla
come ad amici nel gioco
mentre più in là nelle strade
o lungo il fiume tra gli orti
soldati in eterno cammino
buttano un telo sui morti.
Non posso chiudere gli occhi, e le storie
m’arrivano come
sospese memorie
di campi, di sole, di giostre, di grano,
di ciminiere di fumo,
di corti assolate,
e un infinito mormorio di gente
che m’accompagna per via
verso la terra del niente.

10 giugno 1999

Ricordo del padre
S’io vedevo mio padre,
anni lontani,
le spalle curve, silenziosamente
da una finestra all’altra camminare
- dietro la schiena tutt’e due le mani
e l’occhio assente, immemore, profondo,
mi domandavo: cosa sta a pensare?
Ora lo so dal fatto che io stesso
con l’aria assente che vedevo in lui
da una finestra all’altra vado spesso.
E senza tema d’ingannarmi ormai
rispondermi potrei sommessamente:
me ne vado su e giù,
non penso a niente.

A un gigolò in riviera
Il mio nome è Valié, sì, ma per anni
ebbi altro nome, il vero
non lo potevo dire: ero un attore
del cinema alto biondo
dalle donne adorato
ma stroncato
dalla critica colta dei giornali.
La verità è che mai
a patti m’adattai
con questa
società disonesta.
Preferivo
farmi gli affari miei: portarmi a letto
donne senza pretese:
stringere sul mio petto
ragazze di paese
ebbre di dolce vino
con nere calze a rete
in camere segrete
a Portofino:
antilopi e gazzelle affusolate e snelle,
docili al mio piacere
senza la spocchia e l’arie
di nobildonne altere.
Detti a ciascuna il dono
di un trepido abbandono.
Quando ci penso adesso
e parlo col cipresso
o mi confido al vento
di nulla mi pento.
M’hanno sepolto, vedi, qui in riviera...
era un mattino spento,
quasi sembrava sera

1982

NOTA

Luigi Medri è nato a Sesto San Giovanni, dove ha sempre vissuto e a tutt'oggi vive, nel 1922.
Di lui ha scritto l’amico critico Paolo Lezziero: “Medri è uomo di spessore umano e culturale. Nella storia cittadina ha avuto un ruolo preciso. Tra i fondatori della Biblioteca Civica nel 1951, con Lincoln Cadioli e altri amici, vicedirettore del settimanale sestese 
L’incontro
, pubblicazione che dalla fine della guerra sino agli anni ’60 svolse in campo culturale una funzione nuova, quasi di sperimentazione, entro una realtà di parametri culturali fra cui era cresciuta un’intera generazione, dalla Resistenza in poi".
“Sfiorato e urtato, come tutti, dalla storia – dice Medri di sé – in parallelo alla mediocre vita di ogni giorno scatta l’irrazionale della poesia, che si fa esigenza immaginaria, insopprimibile (…)".
Ha pubblicato le seguenti raccolte:
 La solitudine del giornoIntermezzo, Le ultime mosche, Nell’impero del vento, E arcane voci e paroleMillennio, e inoltre due brevi opere in prosa, Una storia piccola e L’ipicì.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Alessio Luise
Al Vorrei avere chiaro un po’ più di tutto.

Nel tempo libero mi libero del tempo, e nel tanto tempo che passo ad autocompiacermi penso che mi piaccia in fondo stare al passo coi tempi. Tentare non nuoce ma generalmente le tentazioni se ne fregano della salute. I singoli fanno bella coppia con se stessi, le belle coppie sono singolari, i singoli di successo vendono molte copie. Chi copia è invidioso, adula con sincerità. “Voglio stare sulla bocca di tutti, mi piace che tutti mi abbiano sulla punta della lingua.”

Vorrei fosse chiaro un po’ più di tutto.

Nel tempo la libertà nutre i vizi, il vizio si oppone alla virtù, il lupo non lo perde perché ci tiene a reinventarsi. Non esistono segreti se li racconti: e chi vive sul mare è distratto dai detti e dai fatti. Le cose migliori le fai con la bocca per questo non puoi raccontarle. Ho apprezzato l’uso dei condizionali, ma mi hanno condizionato gli apprezzamenti. Però li ho usati, come frasi fatte fatte apposta per condizionarmi. I secoli dovrebbero essere serviti a progredire, gli anni servono a peggiorare, i mesi a migliorare il tempo, i giorni sono invece giovani. Le ore si fanno piccole piccole, piccolissime, minuti... I secondi saranno primi soprattutto se si sbrigano. Gli istanti complicano le cose. Siamo sorgenti reciproche di perturbazione, a motivo di una medesima natura elettrica. Io so lasciare perdere ma tu non mi lasciare mai stare. Il migliore dei mondi possibili se è il migliore non può peggiorare per il principio di non contraddizione, e siccome è tutto retorico decido che anche se peggiorasse si rovinerebbe nel migliore dei modi possibili.

Vorrei chiarire tutto un po’ di più.

Negli anni i miei capelli si sono chiesti cosa avessero da perdere. Negli anni le mie superstizioni hanno avuto la meglio. Negli anni ho modificato l’approccio alle novità. Negli anni Ottanta era normale vestirsi male. Negli anni di scuola non pensavo mai a cosa avrebbero fatto gli altri da grandi. Con gli anni passa la spensieratezza, si diventa più giovani. Se facessi gli anni il giorno dopo di Natale polemizzerei sulla scelta del tuo nome che è Stefano. Molti libri sono inutili, soprattutto se si regalano. Molti non leggono. Molti libri non si utilizzano che sui mezzi pubblici. Molti sono i libri destinati al grande pubblico. Molti grandi libri non vengono pubblicati, ad esempio i miei. Mi comporto sgarbatamente per via di una naturale predisposizione alla mia evoluzione. Però i tuoi colori mi aiutano a nascondere il sole. Ce l’ho in faccia, anche se resta a otto minuti di luce da me. In fondo ammiro chi si fa notare. Chi trova un ago nel pagliaio si mette in vista, riesce a vedere la cruna dell’ago. Per le crune ci passano i cammelli ma non i ricchi...
I cammelli vanno in paradiso, per questo i ricchi se ne circondano.

Chiaramente è tutto voluto.

Gli amanti platonici regalano rose dei venti, perdono l’orientamento. Proprio adesso che ho un corridoio nella voce, e sulla punta della lingua Te mentre mi sveglio di martedì mattina a Venezia, sì proprio adesso mi viene, mentre ci svegliamo di martedì mattina a Venezia, e ti va in gola la mia voce nella sequenza a cui sempre ho preferito l’intreccio.

Martedì mattina a Venezia

***
Ma come faccio a non darmi le arie? Le imitazioni
hanno le proprie limitazioni. E come faccio fatica
ad essere uomo, non sono certo un uomo di fatiche.
Ma che faccia lassista che mi ritrovo, amo le piante
e le porto fuori a bere, intanto mi differenzio dalle
bestie per via delle calzature. Ma come faccio a non
darmi le arie, come faccio a non darmele? Quando
per via degli odori del mondo impugno un ventaglio,
non sbaglio. E parlo come mangio, mi rimangio quel
che ho detto, mi annoio una sola volta all’anno. Sono
tornato domani. Qui dove l’occhio vuole la sua parte
tanto che tutto costa un occhio della testa. Tra poco
non ci vedremo più, confido nei saldi, ora che i nervi
più non lo sono...

Mercoledì sera di ritorno a Milano.

***

Due gatti litigano. Poi si riappacificano e si chiedono:"restiamo mici?"
Due persone fanno le stesse cose per un anno. Il più intelligente si annoia.
Due calzini formano un paio di calzini. Ma due mutande formano due paia di mutande.
Due occhi non mi bastano. Per questo scelgo Te.
Due passi o due conti sono in realtà una piccola quantità indeterminata di passi e conti.
Due è la metà di quattro. Oppure il doppio di uno.
Due minuti non bastano per certe cose. Ma sono troppi per altre.
Due gatti si incontrano e si dicono: “Miao! Come stai?”
Due persone si trovano in un letto, soprattutto se sono una coppia.
Due mammiferi somatizzano il proprio desiderio attaccandosi.
Due Paesi somatizzano il proprio odio attaccandosi.
Due baci sulle guance sono segno di amicizia.
Due che si baciano come minimo si sono appena conosciuti.
Due bambini che nascono insieme sono gemelli.
Due gemelli sono vestiti allo stesso modo dai genitori ottusi.
Due angoli retti formano un angolo piatto e due piatti sono un pranzo.
Due rette sono parallele o si incontreranno in uno ed un solo punto.
Due ore fa ero più giovane di adesso.
Due ruote permettono di eludere molte fatiche.
Due miliardi non sono un biliardo.
Due che giocano a carte hanno tempo da perdere, da poco hanno preso un
Due di picche e sono autoironici in fronte all’evenienza esistente nel mazzo.
Due si piacciono e si vogliono vedere.
Due si piacciono e si vogliono guardare.
Due se si piacciono si vogliono toccare.
Due se si piacciono si vogliono masticare.
Due se si masticano non vogliono più staccarsi.
Due che si staccano si dividono.
Due che si attaccano si condividono.
Due si incastrano per via dei concavi e dei convessi.
Due se si piacciono si fanno bene. Si fanno troppo bene.
Due

***
Si può sentire anche ciò che non si può neanche toccare. Arrossendo delle proprie audacità. Sazio d’ombre a passo di danza. Ciò che mi manca dovrei averlo perso, invece non l’ho mai avuto. Piove a fiori. E vorrei far l’amore anche con me.
SodDisfacimento.

***
Al posto degli occhi due dadi rossi, a cinque facce più una in ombra. Per vezzo. I paradisi di carta, quelli di vetro e i paradisi di carne. All’altezza delle bassezze, le mie. Non le altrui.
Inferi.

NOTA

Alessio Luise è nato a Sesto San Giovanni il 2 maggio 1978.
Scrive canzoni in forma di poesia con il suo vero nome e audiopoesie in forma di canzoni col nome di Luisenzaltro. Si definisce uno “sdrammaticato interessato alla dimensione frazionaria dell'esistenza”. Ha autoprodotto il suo primo disco solista di canzoni e musica “non euclidea” 
Le inversioni Aeiou
, in versione audio nel marzo del 2004.
E’ stato pubblicato come autore di poesie dalla rivista 
Confini (ediz. La Vita Felice), e come aforista da Lietocolle Libri nel volume L'albero degli aforismi. Su invito di Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta, scomparso nel 1989, ha messo in musica il suo testo incompiuto per canzone Come una nave rotta.

http://www.myspace.com/daltrocuori

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Gianmario Lucini

OTTO POESIE SUL TEMA DEL SILENZIO

S...
E’ come urlo assopito,
vasto silenzio di foglie che a tratti
si sveglia, sussurro di tutte le voci
di tutte le parole che furono dette
e dentro lui nell’altra dimensione
lo sbadiglio della vita che si sveglia,
la voglia che si calma e s’assopisce,
cede per vincere e rinascere.
Le mie dita sono rami che frugano il cielo
cercando verità che dormono da sempre,
le gambe tronchi che gemono al vento
- tornando indietro nel tempo ero albero.

I...
C’è un dolore cupo in queste pietre
sono là sul ciglio del sentiero
attendono sguardi nel silenzio
che le faccia nascere al flusso della storia,
voci che le chiamino, pensiero
che riconosca i loro simboli.
Sono lacrime dei secoli dei secoli
sgorgate dai sogni delle vedove,
sangue di guerrieri caduti
per tutti i tempi dei tempi,
il pane duro della pace
che nessuno ha mai mangiato.
Stanno fisse sotto i pilastri del tempio
verde del bosco
come capitelli caduti a terra.

L ...
Scorre un’acqua e non sa dove andrà
nel ruscello
ancora giovane fra le foglie
morte e l’erba bruciata dal gelo.
Acqua giovane corre verso l’estate
portando con sé profumo di abeti
con la grazia di una giovane donna,
che s’ingravida di noi
e dei rifiuti delle nostre pene
giungerà sfinita alla sua pace al suo oblìo
disciogliendosi morta nel suo dio
- lei, la dea fedele non s’imbotra
tornando al ventre della terra
e a fiotti e a salti non rincorre
un’idea di gioventù che non sfiorisce.
E’ come l’albero che nutre, è come il vento
che asciuga il sudore dei condannati alla fatica
la nostra giovane prima madre
acqua
segreta e docile sussurra con le fronde
una preghiera antica
ch’esse soltanto ricordano.

E...
Nel bosco dove passeggio catturando immagini
solo il silenzio ha verità da mormorare.
Ascolto la neve crocchiare
al passo della risalita;
doppiando il crinale s’apre
il largo respiro d’una valle
che pare là in attesa
d’uno sguardo che la voglia amare:
in questa bruma di neve
ancora canta la poesia,
in questo freddo che morde e risana
c’è il calore d’una casa antica
fra antiche parole d’accoglienza.
E sulla bocca si fa l’oro del silenzio.

N...
Le rocce di quassù sanno l’impercettibile
mutare. Il tempo
si scandisce in paesaggi
sogni di muschio e lichene
che s’affaccia sui burroni.
E’ solo un colpo di vento
la vita
un’esile parola che altissima
vorrebbe colmare grandiosi scenari
e rivelarsi.
E le parole avvampano in fonemi di vento
sibilando fra guglie e strapiombi
nel sonno profondo dell’era
che immutabile muta
pallido riflesso dell’eterno.

Z...
Ti sei evocato dal nulla attorniandoti di nulla
chiamando te stesso dal baratro
che ci attira e ci intrappola
sola parola
che nessuno saprà mai pronunciare.
- granello di sale, scintilla
e Tu, inconsumabile fuoco.

I...
Ora le nuvole sono di fuoco
il buio muggisce, non c’è pace
nell’era dei miracoli dell’etere,
dell’onnipresenza.
Non c’è più alfa né òmega
non c’è più èffeta
non c’è più senso.

O
Parole s’appoggiano con grazia
come s’appoggia la neve all’ossa dei rami
parole nel sudario che sperano risorgere
dopo tre giorni dalla loro cenere
saremo forse, penombra di foresta
o una bocca, soltanto una bocca,
angusto spazio nella sera, silenzio
nostra sicura barriera.

NOTA

Gianmario Lucini è nato a Sondrio nel 1953. Ha frequentato l'Università Cattolica di Brescia, laureandosi in Scienze dell'educazione e conseguendo anche un master in Critica letteraria.
Per alcuni anni ha vissuto fra la Svizzera e Sondrio lavorando come sindacalista, iniziando nel frattempo a pubblicare suoi scritti su alcune riviste, fra le quali Lengua.
Dal 1998 ha lavorato presso un ente pubblico e si è occupato anche di formazione e animazione culturale come libero professionista.
Da allora cura i siti culturali http://www.poiein.it/http://www.nordorobie.it/, http://www.abramolevi.it/e ha inoltre organizzato il premio di poesia "David Maria Turoldo", il cui ricavato viene devoluto a situazioni di emergenza umanitaria.
Dal 2007 lavora 6 mesi a Sondrio e 6 mesi in Calabria, dove collabora in qualità di esperto multimediale presso l'Associazione "don Milani" di Gioiosa Jonica.
Nel 2007 ha iniziato a raccogliere documentazione antimafiosa sul sito http://www.donmilanigioiosa.it/, e nel 2008 ha realizzato un documentario di formazione alla legalità per la Provincia Autonoma di Trento e un documentario-intervista in due DVD, La guerra dei poveri, dedicato ai reduci della seconda guerra mondiale e alla Resistenza in Valtellina.
Dal 2006 a poco tempo fa è stato anche direttore del periodico locale All'ombra del Rodes, edito in Valtellina.
In un momento di dissennatezza ha pubblicato Allegro moderato, e ha partecipato con 12 testi alla raccolta Poesia del dissenso, curata da Erminia Passannanti. Poi è rinsavito, si è cosparso il capo di cenere e si ripromette di non peccare più.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Beno Fignon
E non già
Amava la vita di ieri
di quando non c’era
e l’amava per la vita di oggi
assaggio promessa rimpianto

amava la vita ventura
di quando mancherà
e l’amava per la vita di oggi
passaggio prologo rimpiazzo

Alla fine dell’estate
nell’affectus di un altrove
dove non era e non sarà
per la vita di qui, ora
e non già.

L’ultimo istante
Sognava l’ideale
la condizione ideale
per partire conoscere decidere
ferire salvare cantare…

svanirono così nella menzogna
coscienza amore canto

si dissolsero così senza rampogna
scienza ardore vanto

non smise di sognare
amò l’ultimo istante
come il suo prossimo più prossimo.

Più che mura di Gerico
Più che mura di Gerico
muraglia d’oriente
vallo nordico
è un tarlo il tempo del 2000

cedimenti
sfacimenti
sfinimenti

Alla fine dell’estate
ingialliscono le foglie
vanno nel turbine del vento
in un’ebbrezza che non mi concederò
in cupio dissolvi che osteggerò

soccorreranno le mie ossa
crepe di un muro
che resisterà fino alla fine del tempo.

Fin de siècle
disfa polis
dis-fati dèi
dis-sputate sofie
dis-fari verba
disforia opus
distorta mente
programmi pogrom
in braghe de tela
sensa braghe la putéla

eppure svolano gli angeli
spray antigelo geyser
su dal cuore devastato
che pur respira
che pur riprende la mira

mea culpa che può dannare
mea culpa che può salvare
non solo d’oggi la babele
sarà domani il racconto
post fiele di latte e miele?

NOTA

Beno Fignon (Montereale Valcellina, 1940 - Milano, 2009), friulano di nascita ma milanese d'adozione, è stato giornalista pubblicista e collaboratore della pagina culturale de
 Il Gazzettino e dell’inserto culturale del quotidiano della Cisl Nazionale Conquiste del lavoro.
Si è impegnato in movimenti culturali e sociali, in particolare in qualità di socio di Milanocosa dal 2004.
Vincitore di vari premi di poesia e prosa, ha pubblicato:

Poesia
L’intelligenza (gratis) barattata al 1000%, Gorlini, Milano
-
 Isla de Pascua, Società di Poesia, Milano (finalista premio Poesia Nuova, Campobasso, vinto da Edoardo Sanguineti)
Dialet (poesia in friulano), edizioni di Via Manin 18, Spilimberc
Li’ castelanis (poesia in friulano con traduzione a fronte). Da questa raccolta le poesie vincitrici del premio S. Vito al Tagliamento per il friulano
Erosmetro, Tracce, Pescara
-
 Sine glossa, Edizioni del Leone, Spinea (VE).
- Haiku furlans. Poesia dei magredi (poesia in friulano con traduzione a fronte), Società Filologica Friulana, Udine

Prosa
-
 L’arco del tempo, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone
Cellina, Edizioni della Biblioteca dell’Immagine, Pordenone
- Voci autentiche della Valcellina. Scrittori poeti scultori fotografi documentaristi, Ellerani, S. Vito al Tagliamento

Aforismi e satira
-
 L’altra metà del cesio, Nuova Brianza, Como
Aforismi, Campanotto, Udine
-
 Risus taschabilis, Nuova Brianza, Como
-
 Mille e un respiro, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2003 (2° edizione: 2004)
Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Alberto Figliolia

Costante Girardengo
L’omino di Novi, il sorriso
a dipingere rughe d’impassibilità,
tenacia, forza, impossibilità,
l’omino sulla grande bicicletta,
colui che sferrava l’assalto
alle strade sterrate dell’Italia
contadina. Nelle tue orecchie,
mentre correvi, il canto
delle mondine, nei tuoi occhi
polvere bruciante come riflessi
di mille soli lancinanti.
Volavi, Costante, nelle scie
del sogno, distacchi abissali
come notturni astrali.
Siamo tutti un po’ pionieri,
Costante, nel vincere
come nel perdere; c’è chi
ha perduto più di te,
che correvi nel gelo,
al solleone, al calar del sole,
nel buio, nel silenzio,
fra le urla, la luce
in fondo alle gallerie,
traguardi importanti
quanto effimeri,
anima gioiosa e lacerata,
le gomme a tracolla,
quali legacci che avvincono
a insopprimibili gravità,
perché più nobile sia
il desiderio d’evaderne,
fosse solo
per un ultimo traguardo.

Dal buio sei comparsa
tela di ragno
scena e sipario.
Dammi il prezioso braciere
dei tuoi seni
perché vi stenda
l’alba dei miei sensi;
ti donerò desiderio
grande come il mondo
da appoggiare sui lobi
dei miei pensieri.
Forgerò con il nero
dei tuoi capelli
una notte più scura
di tutte quelle
mai conosciute.

Quando puoi dire
che il tuo viaggio è terminato?
Quando – e se –
dentro di te è iniziato?
Oggi sei un eroe
domani una spoglia.
Ma ogni fiume, infine,
va al suo mare.

Io t’invoco,
Madonna nera di carbone
di carne umana.
E mentre il fiume
placato scorre
si scioglie veleno
nel mio cuore.

Tina Modotti
“La vita è una malattia
dalla quale si guarisce
con la morte”?
questo, Tina, pensavi
nel lungo inverno staliniano
quando sui vetri striati di ghiaccio
disegnavi il volto dei taglienti
soli di Mexico City
e le indie di Oaxaca tenevano
il tuo grande cuore
nelle mani screpolate
da fatica di sangue
mani stremate dalla Conquista
O Tina dagli occhi neri
congiunti astri d’amore e morte
mobili e tragici
come il sangue di Juan Antonio
tu sapevi della sua condanna?
e della tua?
Il tuo corpo un sogno di luce
un pensiero tradito
una fotografia di pure linee
il botto di uno sparo rivoluzionario
i silenzi del divenire
arte di vendetta oblio
Quante volte hai cessato d’essere
quando sparavano nella schiena
dei compagni, Tina,
il cuore ti moriva
una rosa oscura di sangue?
Non generasti e fu uno sbaglio
poiché dalla tua malinconia
sarebbero nati
splendidi fiori d’amore
o Tina, morta in un taxi
sopra le rovine azteche già morte
e quelle del mondo che sognasti
e non nacque, o Tina…

AL ALFAMI ALBERTUS FIGLIOLIAE FECIT

La notte della luce
I bruchi di Escher scalano
cosmi di gradini, scale di cielo
torri dai tetti d'oro e odio
dove il dentro è fuori, il fuori dentro. Dove?
Esseri si trascinano con pena
nell'assurdo saliscendi senza tregua
scrutando rivali troppo vicini
ammiccando - con orrore - a quelli lontani.
Aperture di luce ignota, borbottii
di dei crudeli, alla deriva...
Non vi sono umane menti
a fabbricare artifizi né pentimenti
solamente rassegnazione, demente confusione
Sono prigioniero di quest'ufficio
Sono schiavo delle nubi che non vedo
Dentro di me ho pozzi oscuri di libertà
Vi precipito senza posa per non riemergere
Mai più

Il pilota del treno
Vorrei essere il pilota del treno,
condurre tutti quei destini alla meta:
vite a me affidate, alle mie mani,
alla mia mente, ai miei sensi.
Innanzi a me due binari dritti,
ai lati canne sbattute dal vento
e case troppo veloci per scorgerne
occupanti silenti d'altri mondi.
Forse il mare, forse i monti o
città dove mai mi sono fermato...
nei vagoni uomini e donne intenti
allo scorrere del tempo che si fa vuoto,
bambini speranzosi di nulla.
Fischia il treno l'ultima volta...

Alla sconosciuta...
Quali freddi mari hanno visitato
i tuoi occhi? Quante praterie d'erbe
percorse dai venti orientali o
foreste d'imperscrutabili ombre?
Oggi cammini nel Sud del giorno
ma è un tempo oscuro, non previsto,
o luogo di memorie sconosciute.
Il biancore del tuo corpo è pensiero
di sesso pavido e, insieme, irrefrenabile;
le tue occhiaie, sotto gli occhi scuri,
promesse mai mantenute eppur vive
(minacce annunciate o solo sognate?).
Comprendi la mia lingua, ninfa d'altra terra?
Le tue occhiate di nascosto nel fulgore del
cielo, nel silenzio ruvido del mare, sono per me
o per lo sconosciuto al tuo fianco?

Camogli
Sospirano le onde fra rari palazzi
in angoli riposti marosi di spuma
antichi sputi cantucci della mente
Seguivo nere curve di coste
ardori andati di esistenze passate
trafficando amori clandestini
amori sul nascere presto morti come carogne
fra scogliere ardite nascoste
spiagge assenti pietre metafisiche
grida immobili di pescatori forti
ubriachi d’assoluto e vino a buon mercato
lacere reti tirate a riva
e lo sbattere nel mare
di dolori e ricordi alla deriva
Ho seppellito ogni amore
sotto assi disgiunte
di amorfe violente soffitte scordate
in case dirute di paesi solo sognati
Cercavo giardini fioriti
sulle sponde del liquido padre
o i confini dell’essere
vagando con il naviglio distante
che portava vite certe ed ignote
all’improbabile meta
di libertà?

NOTA

Alberto Figliolia, nato nel 1958, vive a Cesano Boscone. Collabora con
Il Giorno, Tuttosport, Superbasket e altre riviste e periodici del settore sportivo.
Ha al suo attivo diversi libri di poesia e narrativa, tra cui Notturni a venire (ExCogita Editore) cui si aggiunge quell'appassionato omaggio al mondo della pallacanestro che è Giganti e pallonesse, basket e poesia (Edizioni Libreria dello sport).


Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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Aurelia Delfino

Sogno
Dormo lungo la mia notte
porosa di sogni
un sonno vitale,
mi vedo il mio corpo
respirare il silenzio odoroso
dei canti del nostro coinciderci.
Scrigno esteso di carne,
come la terra di vigna,
custode insaziata di un'acqua che crea,
riaffioro alla pelle trascorsa
il senso dei tuoi sensi bianchi
ed è altrove
dal verde nuvoloso dei miei occhi
che l'averti si fa ricordo e respiro e sogno
lungo la mia notte.

(quasi convinta di Milano)
Appena un gorgo
di sole, la quarta
respira pallore dal limite,
si fa sudore svegliando,
l'odore bruciato dei tram.
Anche il cane riposa seduto
alla fine di un bagno
d'urla la città risponde
che non siamo più bambini
e anche tu sei nato qui.

Una telecamera come un coinquilino nello sguardo
subaffitta le geometrie dell'io.
Altri, manciate di indecidibili attenzioni
sostano brevi sui grani d'asfalto:
ricopre il corpo di terra appena sotto misura al suo respiro,
tanto che ne dubita solo violenza,
che scossa, che crepa,
che vuol dire morire.

E dominante
e sgorgata
di mezzo a un silenzio più grave,
chiamare il nome perché giunga
corpo a corpo a sgolarsi
la presenza, l'assiduo, il dolore
non è sufficiente,
si dovrebbe cominciare
con una trasfusione di peccati.

La potenza senza alcuna implicazione di responsabilità.
L'atto sessuale reso sterile dal progestinico orale.
La salvezza del godimento puro raggiunto a chiavistelli schierati,
a mutande inondate, poi, dalle armate sterminate di sperma
che ritornano estromesse a brani dalle pieghe inospitali:
chissà se soffrono, se muoiono gemendo.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Laura D'Incà

Aveva in mano un libro
Pioveva. Aveva in mano
un libro, l'uomo che seguivo.

E come un aquilone colorato
sistemato nell'armadio dei ricordi

in detto spazio chiuso, polveroso
e oscuro, lungamente rimase

polverosamente, oscuramente
con infinita pazienza attendendo

il ritrovamento postumo del reperto
e ora vola finalmente libero nello

sconfinato cosmodromo turchino
dell'eternità.

Le donne ferite
Le donne ferite ballano sotto i meli
sfiorano i rami bassi scheggiano i tronchi lisci
li incidono con le unghie succhiano sidro
lo impastano in bocca
e coi loro mattoni sferici fabbricano grandi alveari
rinchiudono i loro sogni in celle esagonali
quasi regolarmente perfette

NOTA

Laura D'Incà è nata a Monza. Vive e lavora a Milano. Ha pubblicato una raccolta di poesie per
Edizioni Nuove Scritture e un testo singolo per Pulcinoelefante. Altre poesie sono apparse sulla rivista Nuovi Confini n. 10.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Giuseppe Catozzella

prosa #3
se è l'azione del dire che si dice
allora non conviene
o conviene all'infinito
giocare al giro di giostra.
palla che passa alla tracotanza
o alla semplicità;
qui si dà una frattura
il continuo si rompe,
e sceglie.
ma è la forza della disgiunzione
o
che mi lascia per forza impietrito
(non conviene o conviene).

prosa #7
la strada che va in sù
e la strada che va in giù
sono la stessa e unica strada
questo si può capire
da dove è nato quello sforzo
a livellare
la parola si china fino a terra
come la schiena
e non si spezza
perché il fiato è caldo
e va per aria.
mia nonna sette volte
è stata doppia e una,
l'altra quattro,
io difatti ho nove zii,
che è nell'orlo che si nasce
e si finisce
alla scuola delle sarte
con la macchina a pedale.

prosa #8
il metro spartisce
il senziente e chi
lo sente:
separa a gradi,
apposta per limina,
classa fiati simili
in silenzi analoghi.
si suggerisce
un nuovo fare:
con l’erpice
traslare i nomi
da un mi a un sì bemolle,
e vedere che succede.
una legge d’alchimia:
ci si accoppia
a tanfo di umori
a pari
temperature.
a discrimine il guizzo,
il cipiglio,
i cognomi evaporati
dalle tombe:
il loro segno sta
al profondo dell’inciso,
si misura a
millimetri.

prosa #18
da sempre lappole brune
di ‘ciao, a dopo’
bioccoli di congedi riarsi,
diademi di saluti
rimasti sulle porte impagliati
e mai davvero entrati:
tante occasioni di cambiare
davvero,
di uscire:
lo scandalo dello scandaglio,
dell’occhiello:
è la stessa violenza vile
della chiosa, del
riassunto,
della battuta, della
chiusura,
la medesima mestizia
che rest’amara dopo il
riso:
questa lurida faccia
mi rimane ogni giorno
che esci,
delle letture
l’a
capo.

prosa #19
ferve il bruco a scovare
i crocicchi del cervello:
crocchi di dita svelte e
sciolte le labbra a pronunciare
i versi giusti:
così si fa
un mondo nuovo, onesto,
il marcio
ai vermi volentieri,
che ci si sfamino, porelli,
e non gli scampi.

si fa l’estremo dire
di ciò che mai si è,
che rimane celato
poiché lo si misura,
l’ombra leggèra del solco,
l’occhio sulla nuca.
la morsa tensione a toccare
l’elettrone, il viso sotto
il trucco:
è quando ti guardo e tu abbassi gli occhi,
l’ombra che ci diventiamo
e mai ci apparteniamo.

esistere perché ci si guarda
e non che per quello,
e per questo stesso poi
essere già da prima,
e del prima volere
che ci dica dal passato nel presente,
in un atto, per forza, mancato.

di questo ai signori dalle sedie
a contratto nulla frega,
che proprio esistono per questa
rimozione, e così vanno
avanti a promozioni,
come bravi scolaretti,
a giocare immemori da vermi
tra i vermi.

prosa #23
traslitterare d’accidioso in diafano
genera l’anima:
esercizio da fare a ogni risveglio,
venti e più volte al dì.
le cose, delle cose hanno i nomi,
si trapassano l’un l’altra
in esigui interstizi
sgombri a distrazione.
si potrebbe tentare un mero
gioco di prestigio, o salto acrobatico
a riaverci,
dopo che per primi si è
il verbo pronunciato;
ma a volte è di voglia che si tratta,
che la fibra in poltrona s’affloscia.
tra un punto A e uno B fissati,
e questi restano tali,
poniamo siano i nostri occhi,
è il numero immemore di strade
che continua a contare

prosa #24
questo poco con me nato,
qualche poco ancora avrà in luce,
di certo non quello che io credo,
e come per la luce
solo dopo tempo rappreso
io cambierò col quel poco
che il mio corpo scorge in differita.
in questo poco a corti passi
s’inciampa di continuo
nelle stesse presse,
negli stessi coagulati umori,
il solito iracondo anche filo di trame
che ti regge alla caduta, che ti dona
la presenza senza poi troppo ferire.
ci si fa presenza a scatti tali
ai vecchi telefoni a gettoni,
la voce giunge rifratta e ritardata,
e nel tempo che ci mette a tornare
a se stessa non si cambia,
nulla muta:
questo è il tempo che sembra
non esistere.

tale incedere è quello bieco,
che si accumula in bile o si lascia indietro
a dono

prosa #27
l’avvenimento dello scavo di grosse fondamenta
senza eccezione poco per volta si colma
di fatterelli piccoli e più comodi a narrare,
traslato sopra un più umano piano, pieno
di presenza, di piccole inezie, di vita elementare.
si finisce immantinente a spolverare,
a chiosare, a dire le stoviglie, lo spessore
delle tare, il peso dei balcani, il clangore
degli stipiti, la chiusura delle bare, i
millimetri di fango nella suola dentellata di
tale o tal’altro sbrindellato stivale, il tonfo sordo
del pulsare di qualche arto artificiale, il vigile
in gonnella, la parata militare, le calze di flanella
alla vigilia di natale, le zampogne alla risacca
in qualche grotta sconosciuta, la tua specie preferita
di batterio alimentare, tutta roba buona a tenere a freno
i denti, affilare i canini e irrobustire le mascelle.

NOTA

Giuseppe Catozzella è nato a Milano nel 1976 e risiede a Milano.
Laureato in filosofia con una tesi su Nietzsche che si rifà a posizioni di Carlo Sini, lavora come redattore per la sezione narrativa di Arnoldo Mondadori Editore, per cui ha anche tradotto alcuni romanzi.
Giornalista freelance, scrive per la pagina culturale di Nuovasesto e saltuariamente per Maxim. Suoi testi sono apparsi su PrivatePoesia da Fare, sul IX Quaderno di Poesia da Fare, e nell’antologia Segreto delle fragole (2008), di Lietocolle Editore. La sua prima silloge poetica, Scrivere il silenzio, risale al 1996.
Proponiamo qui qualche estratto dalla sua nuova raccolta La scimmia scrive. Prose (uscita nell’ottobre 2007 per le Biagio Cepollaro Edizioni). Queste le considerazioni di Alessio Luise a recensione di questa pubblicazione:
"(...) testimonianza del processo di autocoscienza che il mondo ha raggiunto attraverso l’autore, e cerebrale prova di emozioni in divenire nel meccanismo a mutuo scambio della liberazione dei limiti corporei e indicativi del gesto nel segno atteso come indicazione e dominazione congetturata del nominare. Come l’autore ama definirlo, il riferimento alle ‘prose’ è una provocazione, ma anche una strategia a tavolino per dividere la poesia da se stessa.
In un nevrotico allontanamento dall’atto del fare, inteso come lo spulciarsi della scimmia, e dall’ossessione del creare “una presunta unicità”, Catozzella porta a galla una personale rivendicazione ghiandolare e pineale della natura, al contempo duale e univoca, da cui di continuo l’uomo sfugge nell’azione quotidiana del consueto generare. Queste false prose sconfessano l’atto del produrre e ci rimandano a un fatale adattamento disadattato, che inverte nascondimento e ritrovamento dell’uno nel paradosso del divisibile all’infinito, in quel vortice proiettivo che è il concetto di raddoppio e divisione, nell’intreccio inevitabile della eterna sensualità dell’ unione-unificazione a coppia." (Alessio Luise)

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
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Luca Camurri

Sembravi una spiga dorata
spuntata fra la terra brulla,
mentre vagabonde note greche
assolavano la strada tortuosa,
e la raffica sferzante
s'infrangeva sulla roccia nuda.

Un attimo, forse anche meno,
e sono rimasto solo io,
solo,
col frusciante sciabordìo.

Credevo nel corso del tempo
di cristallizzare gli istanti
che come tanti picchi aguzzi
propagavano il senso vitale:

le ondate sonore di quel caldo sguardo,
il vago sorriso del fraintendimento,
la guida sicura del gran desiderio;

ma, immerso nel gioco del flusso,
vorrei navigare nell'acqua
di quel primo fatale naufragio

Profilo perduto

Sfinge
che guardi
acquei orizzonti,

e ascolti
pensieri
di fughe improvvise,

da tempo
io seguo
ricerche inesauste,

ma ciò
che raccolgo
è aria fremente,

fremente
di dubbio,
di occhi eludenti.

L'orologio che lento scorre
nella penombra, come la penna
su questo foglio d'occasione,
mi avvicinano poco a poco
al momento dell'aria infranta,
in cui forse lo specchio degli occhi
ti brillerà con luce d'abisso.

S.P.

Solo oggi,
nel giorno
del segno di braccia d'acciaio,
capisco che tu fai da ponte
sul fiume dell'aria piovana:

la tua voce mi risuona
nella calma dell'intonazione,

dopo che ti ho vista
nell'imbuto a ritroso del tempo.

NOTA

Luca Camurri è nato nel 1963 a Sesto San Giovanni.
Si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne all'Università degli Studi di Milano, con una tesi sulla teoria del romanzo di Henry James e Robert Louis Stevenson.
E' uno dei promotori del gruppo di lettura
Lo scaffale capovolto. Alcune sue poesie sono apparse sulle riviste Physis, Il foglio Letterario e La Bottega di Poesia. Ha pubblicato in edizione privata il poema Intersecarsi nel 2000, e la silloge Permanenza dei tracciati nel 2002. Quest'ultima opera ha ricevuto una menzione particolare da parte della rivista Il Segnale.
Ha recentemente fondato la casa editrice Festuca 
(http://www.festucaeditore.it/festuca_index.htm).

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)

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Monica Caleffi 

Tele di ragno
Un grido imploso
nel silenzio dell'anima.
Poi il Nulla.
Ad avvolgere i giorni,
a tessere tele di ragno
su emozioni perdute.
Filo su filo.
Lavorio incessante
che fa scordare
di vivere.

La lunga ombra
La lunga ombra del non essere
non conosce giorni assolati.
Solo l'eterno crepuscolo
della malinconia senza tempo.
Deforme cifra di un corpo senza volto
che dilaga sull'asfalto della vita
incapace di trovare dimensione.

Frammenti
Frammenti di vita
compongono il mosaico dei giorni.
Come schegge di vetro talvolta feriscono.
Ma è un fiume, il sangue che scorre:
impetuoso o tranquillo, giunge sempre alla foce.

Non più sogni
Nell’ora segreta dei sogni
il silenzio della mente è completo.

Schegge di luce (*)
Nell’aria tremolante
il calore frantuma i colori
in schegge di luce.
Svanisce la realtà percepita
e il miraggio dorato è la sola certezza.

(*) Per la mostra personale della pittrice Adelheid Cattaneo Wildberger

NOTA

Monica Caleffi è nata nel 1964 a Mirandola (Mo), ed è laureata in Giurisprudenza.
Vive a Campagnatico, paese di dantesca memoria in provincia di Grosseto, e tra varie occupazioni è responsabile per la sicurezza dell'Ente Parco Regionale della Maremma.
Nel 2001 ha vinto il concorso indetto dalla Maremmi Editori di Firenze, che ha pubblicato la raccolta poetica
I giorni della Crisalide.
Nel gennaio 2004 ha pubblicato per la casa editrice Mursia - Le Monnier un romanzo per ragazzi delle scuole medie inferiori, intitolato
Il dono della pietra, seguito da Il segreto di Ulisse, rivolto allo stesso tipo di pubblico.
Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Sandro Boccardi


LE TEMPORA
A mia madre

"A fulgure et tempestate libera nos, Domine"

Sez. 2
Estate, verdi ramarri al sole,
trapunta di ricordi come d’erba i prati,
il fieno sente i rebbi della forca,
viene l’odore buono del rigoglio
(erba salina bisiàda dal biss
che la Madona la benediss)
polvere e rovi e sul brusio dei gelsi
smangiati dai bachi sulle stuoie
il primo rintronare da levante.
Anima nostra tessuta come il solco
da grumi di radici nell’incerto
aspettare dell’adolescenza…
ma rimuovendo la pàtina del tempo
velo di fiato sullo specchio, il morso
le cicatrici dell’amore ancora
gridano te.

Sez. 3
L’ora distrutta dentro il diluviare
quelle saette che stingono il cielo
in abbrivi di fosforo e mercurio
e il tracciato di grandine, i refoli e i rimbombo
sulla nera pianeta… non le immagini
che l’inchiostro raggruma e poi distrugge
in un vano farnetico di chiasmi
che la psiche riagita: e dove
dove la verità se le fronde
strappate a un unico verbo (o ceppo)
come le fronde vere,
rùnici appunti al fioco dondolare
della candela sghemba.
Scava, dicevi, nell’utero notturno
scendi le vie dell’altra gravità,
non dal pino scaleno alle radici
ma dall’essere come siamo al nodo
dove si forca in due la volontà.
Quali strade seguire, quali attese,
quali, madre.

Sez. 4
Quale terrena rosa luce
grembo di foglie nell’ombrìa di luce
zolla spezzata dal gelo del sereno
latte frumento acerbo dondolare
di paglia e spighe verderame mare
capelli avvolti fra le dita e il vento
e tu garza di rosa che si sbenda in fumo
da giorni a giorni salendo questa scala
di toni e semitoni e riprecipiti
piuma soave e tronco che ci curva
le spalle.

Sez. 5
In vene di melma s’acquartiera
l’acqua vitale omore della terrestre machina;
campi pianura leonardesca, cascinali sparsi
ne’ silenzi fra nuvoli di nebbia
come tra fumo e polvere la piuma d’ali
della tortora che più non azzurreggia.
Qui siamo nati, fra spoglianti file
di pioppi che tagliano quadrati
di campi e paesi da nomi longobardi
con le stalle di cotto, fantasmi di romanico
e intonaci e tetti dispioventi, e cigolio di ante
arrugginite
che si smangiano ai muschi a tramontana
come mani impietose al rùmine di novembre…
Qui siamo nati e svezzati dalla vita
piegammo la nostra mente pseudoromana
Nel saio dell’ora et labora, e al sacro e al profano
morire nei brividi del gelo, scalcinati
frammenti al telo della brina che lega le parole
che cuce e scuce il sacco della vita,
anime e fiati…

LA BIGONCIA
Bigoncia di sogni in viaggio per l’Oltrepò
per un carico di bonarda e di clinto sei partita
che tacevano i galli.
Uno strame di nebbia accartocciava
la lampadina del granaio. E tu,
dentro una grama coperta da landò
– notte maternamente come amnio lega
nei sogni il nascituro – e
t’accompagni la Vergine ben oltre (disse
l’altra madre apprensiva):
Da una rete metallica che stilla
lento un zig zag di rugiada
il tempo si defila.
Ora sull’invaso violaceo dei mosti
(arrugginito il perno della stanga cigola)
i bianchi trapezi dell’Orsa Maggiore
offuscati da frasche ora dal sonno
splendono.
Così da una buia placenta origliare al giaciglio di paglia
con le stelle supine,
dura amaca sotto le scapole la terra,
e l’onda del Po che ansima e bilica il pontile
fra plancia e plancia.

Ma le pulegge, i cerchi serrati
di frassino e robinia ti sostentino
a riva, arca che vai terramarique
al lume dell’acetilene
tra i garretti e l’assito.
Adagio“ave materna madre di misericordia”
da valli di lacrime, in nuce
il cuore vaso di non-sapienza
e adagio (ave)
adagio volgendo in quella china di loti
disancorata zattera alla scia
il cuore bambino come l’argento
nei gorghi di un ex voto pio, poi fra le bende
tremule di dormiveglia, non tra i mulinelli
ma tra i festoni dell’uve mature
a stento felici dischiudere gli occhi.

A BARBARA
Barbara, sai, marzo è una rosa di correnti d’aria
che toglie il fiato.
Arruffa propositi, anima, consensi, lungo i sentieri d’erbe
mareggiate
Qui dove il verde dove il vento insieme
Rimescola semi e fioriture
Qui nei lombardi chiari appezzamenti.
Barbara dico: è inutile resistere:
La polvere sale come un ventaglio
Sopra le
aie piccole padane, scricchiola batte alle verdi persiani
La voce genuflessa della primavera.

BUIO
Ora per me
Ora per me
per me si completa il passaggio
perché dolore umano non si nutre
di sé se non mutando in fiori
fiori di buio semi della notte
fiori stipati d’acqua mentre inclina
la nube sui tetti di lavagna mentre
con manciate di ghiaccio la tempesta
scivola e grugnisce
contro il tepore oscuro di me
contro il mio nulla di me il fiato
che appanna lo specchio
(quando si vedrà se siamo morti o vivi
o bios o inerzia
o fiori…)

NELL'ESTATE LARGA
1
Scoppia da una radura bruciata di stoppie
il forte frinire dei grilli nell'estate larga
La vita insensata rabbrividisce nella caldura
Un tripudio di spilli puntella il cielo
onda che ride di gioia e dolore

3
Spenti gli astri buttati a manciate
sulla tabula rasa della notte, spenti i lucori effimeri dei sogni
immemore esplode la luce, il vento gonfia gli alberi marini
spettina le siepi dei pitosfori
odora di muschi e di conchiglie e di ceste
strofina cinerine ardesie, e tu
con i sandali lucenti appari sull'erba
dove prima era notte.
Da troppo tempo ho imparato
che le immagini s'affollano come l'aria
alle porte dell'anima, stordiscono
gelide parvenze, foglie secche,
fantasmi: tremano come fili d'erba
rabbrividiti dalla salsedine
Greve zavorra è il corpo che giace
oppresso dagli anni
Non c'è terra né mare né cielo
oltre le siepi dove sprofonda l'abisso;

4
Una rosa s'affoca nel vïola*
e odora di cannella
come i baci bruciati dalla sete.

5
Trilla una lamina d'oro,
una celesta impazzita sul vertice del bosco. Il picchio
o un'ultima cicala nella sera
che sprofonda di silenzio in silenzio
stoltamente grida
ci sarà un'aurora?
* Var.: dï viola: la dieresi sulla i trasforma il verso in endecasillabo

INSETTI
1
Prima che il rostro piombi
sulla divisa verderame dello scarabeo
felice nella nube che lo porta
per il cielo e per i prati
c'è un attimo di fulminea gioia
nella leggerezza dell'addome.

2
Il filo invisibile dell’oro
in cui s'avvolge il baco (eremita del bosco).
il gemito (un bip) dal suo universo
molecolare, crepitio di voraci
mandibole: alle foglie, il gelso-gelo, poi
la punta dolente del bulino: il foglio
bianco stupito immacolato
da un pensiero speculare…
così l’ombra-clorofilla si contorce
morta stella alfa-omega in anni luce, fiat
(così crediamo nel nostro desiderio
d’immortalitudine)
fiat che vuole nascere e morire, mai nel nero
assoluto sprofondare
tacere
stare

3 Variatio
incide recide il bulino la parca
il tempo che fu del bruco sulla foglia
il segno sulla carta che ingiallisce
il pugnale di luce la ferita d'inchiostro
lo zampettio lontanante che dilegua
nella neve ai bordi della via lattea
poi il buio e il tic tac della pendola.
Devi tracciare linee ovali segni
incasellare il supplizio di un pensiero
arroventare la fiamma del colore
o frenare lo slancio abbassare il tono
fino a subire l'onta dell'indifferenza.
Dunque elimina la materia accendi il vuoto
incidi recidi parca
carica di dolore

4
Soffre la crisalide che muta
il suo stato? È febbre
il tremito che scuote
il suo abito di sposa moribonda?
[larva rinsecchita in una stanza
o nell'incavo di corteccia ancora tiepida
vai nel pulviscolo, memoria sfatta]

Forse nel greto dell'Adda
in qualche conchiglia sotterranea
è la cellula di luce che germoglia
come un croco d'autunno
Poi dal sonno della neve lombarda
l'inchiostro seppia dei reticoli, tragitti
impercettibili lumi della carta,
segni che si perdono nell'acqua verde:
(così ogni stigma del vissuto
sarà metafora di morte?).
Abbiamo crepuscoli e mattini
uguali e pensieri che girano a vuoto,
La luce è incerta.

SULLA TUA MANO BIANCA
Sulla tua mano bianca che si arrende
tremando nella mia
sono perle le gocce della pioggia.
Sono trepide e fresche le tue mani.
Hanno di foglie inesperienza,
età di verdi umori,
quella fragranza intatta di mattini
sulle pianure a festa.
Non sono in accordo con i giorni.
Ora avanza l’autunno. L’illusione
è regina del bosco e le sue mandrie
hanno intaccato l’ombra delle fronde.
Ho le tue mani soltanto e questa pioggia
che alle perle somiglia e fa rumore
come grani di miglio dove i baci
son passeri di pura fantasia.

ORFEO SENZA SPERANZA
Acidule mele
maturano d’estate
i pometi lombardi
del mio primo amore
e dolce il granoturco si fa ruggine
al sole di settembre. E la tua pelle
più dolce della mela che ricordo
addentata una sera da fanciullo,
la tua pelle è di scabra materia,
serena e primordiale,
una ciotola forse
tra ghirigori d’acqua.
O epidermide di scorze e di velluti,
quante mani hanno i sensi dell’attesa.
Eppure le parole
modulate sul suono delle foglie
una canzone non sanno ritmare
per la tua grazia acerba.
E si fa notte.
Orfeo senza speranza,
la cetra ripongo dei miei versi.
Periferie di stelle addormentate…
Lontanissimi aedi accordano
inutili strumenti.

SONETTI
1 - Sonetto del merlo
Scritto per l' Associazione per la liberazione del merlo maschio di Nola

Dare del merlo al merlo è un controsenso.
L'uomo non è un uccello, o il merlo un pirla.
E' quasi un sillogismo se a ridirla
Suona la frase come un doppio senso,
ma il merlo è furbo e dell'umano censo
s'infischia (e fischia), e a render la pariglia
cocente il suo DNA scompiglia
ataviche abitudini. Se penso
e paragono l'uomo alla tribù
dei merli di città che, a tu per tu,
con noi di mezzo, saltellano senza
timore di fucili o reverenza
di gatti pigri e cani ben pasciuti
e inappetenti…. "Chi è il pirla?", m'aiuti?

2 - Sonetto secondo del merlo (a Guido Oldani)
Guido i' vorrei che il merlo non cantasse
soltanto sopra il torchio, in quel di Nola
ma liberato al giogo, la sua gola
gialla da un fitto bosco solfeggiasse
un canto trovadorico per sola
nostra delizia bella. Non da casse
acusticistiche sorpreso o da matasse
di fotogrammi al giro di moviola

immortalato nel solo minuto
d'un fïat che s'invola nel sereno
e poi di foglia in foglia scende acuto
dolore, umana doglia, sul terreno
spogliato dell'esistere… e pur voglio
Guido, a fatica, dedicarti il foglio.

IL VECCHIO
Di ferri e legni che s’accozzano
tutta la notte una beffa
(i crauti – bah, che stomaco! – indigesti)
e tutta quella pioggia tutti quei sesterzi
buttati a vuoto alla rinfusa come insulti schiaffi
a squassare gli infissi il tetto le ringhiere.
«Non hai paura, vecchio» mi dissi
così per dire che non ho paura
all’età mia non si ha paura
e tantopoco se la grandinata
si spacca l’osso sul granito
di notte
una grandine così (uova di struzzo)
non vendemmiò i vigneti se rammento
prima del trenta e fu con tale rabbia
che per mesi e mesi il raspo
in gola non voleva scendere,
a tutti, e non mi pare

NOTA

Sandro Boccardi, nato a Villanova Sillaro (Lodi) il 5 marzo 1932, ha esordito in poesia con 
A dispetto delle sentinelle (1963, collana Oggetto e simbolo diretta da Luciano Anceschi, ed. Magenta, Varese). A essa sono seguite presso l’editore Scheiwiller La città (1965), Durezze e ligature (1967), Ricercari (1973) e Le tempora 
(1978).
E' autore di un solo racconto,
 I nodi della terra (ed. Galleria 32, Milano, 1972).
Per Galleria 32 ha diretto la collana Il bicordo, pubblicando fra l’altro poesie di Yannis Ritsos, Günter Grass e Franco Loi.
Dal 1976 al 2006 è stato Direttore artistico di
 Musica e Poesia a San Maurizio, rassegna internazionale del Comune di Milano dedicata alla musica antica e alla poesia. E’ stato ideatore di alcuni progetti musicali, quali la costruzione del grande organo Ahrend per la Basilica di San Simpliciano in Milano (1991), e dell’esecuzione integrale delle cantate di J. S. Bach per la rassegna I Concerti del Quartetto - Settimane Bach di Milano (iniziata nel 1994).

Collabora con riviste e giornali, in particolare su temi legati alla musica e alla poesia.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Marco Bin
Qui
Sui muri dei bagni
una ressa di segni
a costellare il vuoto

E’ qui che ogni parete impara a pregare, e ride. Ogni sillaba,
incontro, gesto, rumore, si spicca dal suo centro, si fa parte e vive.
Come le B fatte di aste e pance.
E pagine, pagine, litri di bianchetto.

E’ qui che imparo Milano come mi hai scritto.

Blu *
Qualcuno la chiama Piccola Neve.
Loro, da dentro, dicono Blu.
Serve a stordirsi di bianco
a sciacquarsi dagli occhi
un regno di sguardi, pareti di dita
e pupille spuntate per dire puntando
cieche masticando parole.

E allora si sceglie.
Allora viene quel respiro
e ci si perde.

- Ma tu, che leggi le lettere belle
riesci a vederli i pomeriggi
grigi uguali, stipati come maglioni
col “dove” degli altri che filtra a gocce
si annida in chiazze da dietro gli armadi?
Qui non si muore, sbiaditi ci si continua.

Fuori continuano le strade. E sempre dietro gli occhi, nelle tasche di tutti
ognuno cova un altro dove.
Nei giorni si svezzano prigioni
le si cresce tra sillaba e gola
fino a che il grido sfuma e si fa sfondo.

Non è una grata che stringe di nero
dentro o nei parchi, qui o chiusi su un viale
ma la vita, lasciata a guardarsi.
Un’agonia di gusci e cicale.

*Nelle carceri milanesi Blu è la bomboletta di gas usata in cella per il caffè o altre vivande.

La coda
Io lo so che non ci credi
ma c’è qualche volta
qualche piccola volta molto rada
che anche il traffico è simpatico, e la coda.

E ci si ferma in mezze maniche
si allacciano parole
che quando si riparte
si tirano sottili
si allungano in sorrisi
voltandosi, in profili
bianchi e assoluti come i monti
da dietro il mordersi dei viali.

Fuori dal metrò
Fuori dal metrò, dopo la salita
mi sfiora un volo di piccione
mentre ognuno torna a farsi segreto.

E’ la vita, che si chiama per nome.
E’ il mondo che azzarda un saluto.


Dispari
(Quando non scrivo)
Vorrei una gazzella
che scorresse i silenzi fra le righe
e stesse comoda nei miei versi.
Vorrei sbranamenti
rossi come lampi sul mio lago.

E un cielo per non sbagliarmi, scandito
da lave e lapilli, pelli viventi.
Di nuovo vorrei il tempo delle stirpi
dove un nome bastava a un branco intero
bastava un verso, bastavano i denti

Vorrei tutta una fauna da dioramaferma, fatta per essere indicata
puntata da dita e bambini
spiegata dai papà per tornare tranquilli
dopo un gioco di paura, e fortini.

Mentre si svuota il mezzanino
nomi preme intorno la pazienza dei cortili
tutto il silenzio dove inciampo
se la vita sciama fuori dal foglio
e più nessuno a ritmare le cose.

Brianza
Si svuota il giorno nella sera.
Regala un incendio all’appello delle cose.

Tutto si sporge
preme sullo sguardo
s’aggrappa al suo nome.

Come in gola una calca di parole
prima del bacio.

E in pratica anch’io resto
pieno soltanto a metà.
Rimango un quasi.

Come questa quasi mia terra
che un tempo era piena, e cantava.

NOTA

Marco Bin, classe 1984, vive a Milano, dove ha studiato lettere all’Università Statale. Si è distinto nel 2004 con il primo premio al concorso Marina Incerti dell’Istituto Pasolini di Milano. Nel 2006 è risultato tra i finalisti del premio nazionale DeltaPoesia e del premio Città di Monza.
Collabora attivamente con la casa editrice Aquaviva, insieme alla quale organizza e interpreta letture poetiche in librerie e luoghi di ritrovo milanesi, e nella cui rivista Il Poeta sono apparsi alcuni suoi lavori.
Nel 2007 ha partecipato con l’associazione
A briglia sciolta alla manifestazione Carovana dei versi,
per una settimana di letture in occasione della Giornata mondiale della poesia.
Appassionato e consumato amante del verso, la sua scrittura in costante evoluzione appare fuori dal tempo, calata nel vivere comune e tesa a raccontare con sensibilità le eterogenee sfumature umane della metropoli e dei luoghi del suo esistere.
Per ora ama dire di sé che, non essendo del tutto maturo, più di tutto ama leggere per gli altri, e in modo particolare David Maria Turoldo, Milo De Angelis e Stefano Raimondi.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Stefano Aldeni


Barcone
Sembrano scarpe che abbassano
quelle di quella ragazza,
scarpe del fratello maggiore.

Qualche sua faccia ribadisce
quanto gli occhi si trovino
nella magrezza dei suoi stracci:
il pianto si estende a morsi
a tutto il corpo, fino al cibo
che lei mangia con troppi denti.

Un libro si vede fuori
dalla cigolante sacca;
sulla spalla, come un bisbiglio
della fatica o una moneta
senza guadagno, tintinna piano.

Un libro coi disegni di bambina:
le sue mani posseggono mostri
nitidi e con piccole teste,
come ferite accolte.
Due bocche, due nasi ed occhi
senza cifra, sono la bruttezza
che a colpi di sbarco
l’allatta
come una figlia totale.

Sono i corpi a consistere
ad avere senso, grido
di vita o morte.

Come sul barcone,
il suo scafo,
lo stare a gallatutto di piedi.

Le case accese
I
L’uomo che fuma guarda tutto
e si ascolta restare
nelle boccate che fissano.

II
Il muro continua in ragazzi
che parlano senza vedersi:
si perdono
in interi angoli
d’una notte che li scrive
dandosi luci, aperture
di braccia, gambe
ed occasionali corpi.

III
Nel tratto di facciata
che più conosce,
la luce del lampione
decide una parola:
nel bagliore
il piano della casa appresso
sembra giungere prima
ma una finestra lo frena,
aprendosi, ed un viso,
sporto sul nome della via,
l’adopera.

IV
Di sotto
si vede in visita
alle vie del centro
un altro funerale:
senza interesse,
passa nella città
e vi si conficca.

V
L’odore altrui arriva con fretta
e con molto pianto
che sta in cose porte
e tornate presto
facce.

Microclima
Nella domenica di elezioni
la città è da ascoltare:
tutto resta abbozzato
dagli urli appiccati sui manifesti
rovistati un ultimo giorno
dalla via ispida di case.

Sul tardi
in quell’ora di nessuno
o nella piazza che possiede tutto,
arrivano le auto blu
dando alla folla una sporgenza
che prende ogni passante,
ogni tratto in cui la città si chiude
chiamando a sé bus, tram e simili bestie.

Sono posti che sono intorno,
tutti questi: dove sentirsi ospiti,
dove il corteo sbracciato parte
e stringe le sue persone
l’una all’altra contro, quasi
internate ad armonia.

Il posto della folla, come una stanza gremita,
è dove sentire della città
il fiato di tutto un giorno,
la saliva
che anche la pioggia non asciuga.

Un’afa di gente attende
truccando coi colori
degli ombrelli aperti
la strada in magra.

La piazza,
delle cartacce è la piazza
e della folla, appena sopra,
che la monda.

Prendo appunti con tutto il corpo
e più tardi ne scrivo
con le unghie sbiancate,
i piedi calpestati ed un visoche sembra tutto baciato.

Milionesimo fiore
Sai durare s’una strada
con inaudite mani immediate
che ti stringono al suolo
sulle tue poche cosce.
Sono i corpi dei passanti
a guardarti, le loro paure;
gli occhi s’innestano altrove,
s’impigliano lontano e tu
rimani al costo di una sosta,
come un milionesimo fiore.

La luce ingiallisce
nel mezzo tramonto
e mezzo temporale
ed in quell’ora, tra quelle mani,
piano
stride il tuo bambino,
chilo dopo chilo, senza
una minima coperta, una lana
di capelli lunghi sulle spalle
e sconci, in quella loro caduta
così nuda e peggiore.

L’industria dei tuoi piedi
parte dal tuo bacino
di un bianco colossale:
ti sostiene
come un arto in legno,
vincolandoti alla fatica;
ti risponde sulla vita
in tutte quelle sere
di fitte mostre, pigioni alla carne
chieste seno su seno.

Treno del bar
Mi parli dell’ultimo ragazzo
con tristezza e risatine
e sguardi tozzi alla peluria
scura delle braccia, ai bicchieri
grandi che le incrociano.

Mentre sosta
il treno sembra s’affolli
del vento a cui, intero,
resiste nella banchina.
Il bar ingombra un vagone
sforzando le pareti per starvi,
le persone. E’ torrido restare
in quest’aria piena, flessa.

Sarebbe una mossa sola, uno scarto
per cadere nel parcheggio della stazione
inanellato per questa sera
dai calci di una partita
tra ragazzi grandi e padri

in quell’incertezza tenera,
di gatti smagriti dal pelo zuppo,
a muoverli lenti,
azzoppati dalle pozze,
nell’unica luce
del bianco del pallone.

Sarebbe questa pioggia
a tenerci nella povertà
di uno scompartimento pieno,
dentro un rumore
condiviso al dettaglio
di scricchiolii e ritorni a casa.

Non riconosci presto la tua città
mentre l’attraversi col treno:
impieghi il tempo delle poche piazze
che s’affacciano sui binari.

Preme il sole sui tetti
I
Preme il sole sui tetti
diramandovi sopra,
ombroso. Le case,
calciate dal traffico,
si tengono tra loro,
segrete e ben guardate
dai pedoni sulla loro terra,
tutta di confine.

II
Le case non servono più
a far nascere: il pavimento
rapprende pure la madre
con le braccia muscolose
dei quattro figli,
della spesa prima della festa,
del ponte mezzo feriale.

III
La madre ancora sembra
sostenere qualcuno, dentro,
e qualcosa, quando parla
al neon della farmacia,
distante e giusto alla svolta
del suo due locali o corre
al frutto che rotola via
dalle sue borse medie.

IV
Quelle borse piene di partenze,
di notte, come strattoni
tra i semafori dei grandi incroci
che tutti insieme occhieggiano
senza guardare; quelle borse
cariche di viaggi al mare
che non sembrano riuscire:
minuscoli secoli
nei tornanti a picco
rimescolano i bambini,
dispiacciono.
L’ora d’arrivo è sconosciuta,
quando ancora gli allievi
non ripassano e le vecchie
ripetono sottovoce tutta la messa.

V
C’è un ultimo duro timore
quando il nuovo costume
è preso da quel vento
che aggancia la pioggia
e la uncina a sé:
i bambini mettono
quel viso non loro, freddo
ed occupato, sopra le gambe
di traverso o stese, ma spacciate:
per quel pomeriggio, la madre
preferisce bagnarsi tutta,
ostentandosi da sola, nel mare,
che solo la testa, fuori,
nel temporale che dopo la spiaggia
sembra affondare dall’alto,
ammarare.

Ti guardo a lungo, madre,
e non sembro tacere.

Quella tua poca coordinazione
I
Quella tua poca coordinazione
nel tirare gli elastici;
i tuoi versetti e le risatine
a quell’imbarazzo delle dita,
a quell’ammanco
di polso, gomito, spalla
e del colpo, all’improvviso,
frustato sulla mano
come una luce, una giornata
che si spegne sull’autostrada
e sul suo tappeto
rosso di fari.

II
Inizia la vacanza
con l’espressione crudele
di casa nostra che s’allontana
e degli spazzini arancioni
che passano le scope,
rifanno la strada, pennellano.

Punti il mento sulla spalla
mentre guido nella coda
dei milioni che partono.
Hai sempre avuto un traffico
negli occhi, un gioco rumoroso
sul viso
ed enormi mete
a cui tendere i tuoi talloni
bianchi di bambina.

III
Apri le braccia,
attenta a restare zitta
come ad un solletico
o ad una messa al mare,
- strana,
quando al padre nostro
le braccia stanno aperte,
ma tutte diverse. –

Mi stringi
fino alle tue piccole unghie,
fino ad unire i corpi raggelati
dal caldo lento del viaggio.
Hai al polso nudo
quell’elastico rinunciato.

Lanci nel tuo abbraccio
più carne che puoi.

Sono le otto
I
Sono le otto e le ombre
si sgranchiscono dalle cose
con spavento ed urlo
dei bambini rimasti
nei giardini di lampioni
e di quelli
che cominciano appena
a mollare le rotelle
delle biciclette.

Sono le otto ed il quartiere,
che si tocca al suo interno
per le finestre aperte,
rintocca del tg che inizia,
dei titoli,
della musichetta
grande intere famiglie.

II
I tuoi tre figli
conoscono tutti
gli immagini jingle
della televisione;
canticchiarli
è da grandi: da loro
i suoni escono carponi,
ripetuti
come un insegnamento
ed un po’
risorti.

III
Sono le otto e la città estiva
lascia sfuriare
l’ultimo traffico;
così la stanza
nelle sue viscere,
la luce:
escono ora impietosi
i fratelli e le sorelle maggiori
con la bruttezza
dei passi veloci
davanti alla sala coi genitori
ed il saluto, o meno, un gesto
sporto dalle facce
in qualcosa.

IV
Fuori, le scuole
anticipano la notte
mettendo luci
reticenti e riservate
ai loro ingressi.
Ragazzi, lì davanti
si ritrovano
per risparmiarsi al buio
che sforacchia gli abiti
di pelle chiara.
Dal gruppo sgombra
il corpo sparpagliato
d’un cane che annusa
a terra, i cartoni bianchi,
spiritati, della pizza.

V
Qualcuno
ad uno scontroso piano alto
stende panni, mette
un unico sventolìo
sul nitore
di tutto il palazzo:
a guardarlo,
così poco gesticolato,
il cielo
sembra non avere altro
che la sera.

NOTA

Stefano Aldeni è nato e vive a Sesto San Giovanni. Scrive poesie dal 2002. Ha pubblicato testi su alcune riviste e antologie del settore.
Nel 2004 è uscita una prima raccolta personale dal titolo Nero Bouquet. Nel 2005 ha vinto il concorso UniVersi, organizzato con il patrocinio dell’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato una plaquette con le edizioni Pulcinoelefante.
Suoi versi sono stati letti a Radio Alzo Zero e sul canale satellitare Rai Futura TV.

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO

Fabiano Alborghetti

L'OPPOSTA RIVA

I
E dove altro credi possibile la mia presenza
se anche la mia terra è contro? Non rimane niente altro
che la cancellazione ripeteva un dirsi presenti
anche senza il luogo. Adesso conta diceva
fai la somma dei rimasti. Sottratti gli urti i lampi
i sacchi senza nome o le cataste di arti e bocche colme
di vuoto avrai la misura del rimanere, l’innominata ampiezza.

II
Alla conta venne la misura non prima
non in moltitudine ma uno ad uno
sparivano lasciando il quesito al posto, il vuoto
della certa destinazione. Con l’assenza a tavola
continuava mamma a preparare per quattro
anche dopo rimasta ultima anche ora
che le fosse disimparano il contenere.

III
Certe dozzine non andavano contate
non sapendo dove gettarne o cosa conservare:
dall’unico mucchio è indistinguibile diceva
la milizia con l’affetto, la sorpresa con la sorpresa
la manovra o la fuga. Partita patta dicevano
i credenti senza vinti e vincitori: segnato il punto
sulla carta il singolare niente spianava con l’ordine, il lezzo…

IV
L’esodo ha meno oltraggio del sepolcro
credimi, cosi l’assenza seppellisce
ma solo nella memoria: agli scomparsi corpi
non pesa il luogo vacante come a chi scava…

V
Da una riva all’altra separa solo
la paura dell’inizio una mancanza di traccia:
cosa lascio indietro
se vado diceva che memoria trovo?

VI
Dislocava tra gola e palato senza dire
portandosi con se solo e per la prima volta:
avvicinando la calma del lavoro finito
sostava all’argine della distanza
col timore di tracimare. L’odore del gasolio, del sale
davano la metrica certa dell’imbarco
dello scambio accompagnarlo all’opposta riva.

VII
C’è gente appesa perfino sui pali delle navi
lo sguardo che accusa e spunta o non crede:
dopo la voce italiana il motore spegne e qualunque suono
riassorbe fino al beccheggio, ai corpi fermi: procedure dice
le tue leggi uguali sempre. Sotto scorta fino al porto
e poi la fonda lo sbarco diritto fino al recinto a cumulare
le presenze come merce di stoccaggio. Non più di poco ripete
poi si rimpatria cosi come si arriva. Non si vede il numero
non si conta nemmeno quanta legione per nave al giorno
sperare la terra e nonostante le preghiere rimbalzare.

VIII
Lunghissima l’onda ma non abbastanza
per il battello: attorno un rischio di secca
la vedetta a terra o in mare. Sbarca dicono, alzati
e cammina. Cosi il balzo l’affondo nell’acqua
l’impresa del guado, di sopravvivere l’entroterra.
Ombra ad ombra allontano oltre gli estremi
della rena e il giusto verso distanzia il fiato al passo.

IX
Puoi capire? Sono rese le ore del guado
stornate e rese solo se resti altrimenti
è un percorso daccapo, un nuovo tentativo.
Al terzo viaggio si sono dimenticati di me:
supino aspettando ho allontanato anche lo sguardo
dal corpo per non vedermi o essere visto
per non essere consegnato al debito del rimpatrio.

X
Nella differenza di viaggiatore o migrante
la diversa causale: come il primo segue le carte
il secondo una a sperare ti dico, opposto il fine.
Al termine vedi come o cosa la memoria mantiene
ma la parola già divide: più del percorso il motivo
più del transito la durata… chi del rientro aspettando
chi del ritorno negato, al luogo caro la possibilità…

XI
Raccontava del mestiere svolto a casa, degli studi
le ripetizioni e certi viaggi per concerto: è cambiata la mia vita
e le mani storte adesso nascondeva per vergogna. Suonava
ancora: le mani rotte dai plotoni lo ricordano il mestiere, diceva..

XII
Come all’officina il materassaio, la posizione
bassa era offerta una poca paga tra il baratto del nome
e il dovere restare. Prendere o lasciare mi dicevano:
a lungo andare il documento arriva. Cosi restavo
metà invisibile e più spazio che persona. Sbagliavano
il mio nome nel chiamare ma nessuno ne curava
costando poco chi o cosa mastica il lavoro:
carne pronta con la fame in bocca e la bocca inutile al parlare
e del rimpiazzo all’entrata la fila piena, la stessa condizione
questuante affollare per poco, per tutto il tempo…

XIII
Non si può non scioperare diceva assorto valutando
ma per contro che guadagno? Il diritto ha le ragioni ma la fame
conta troppo per far finta d’essere uguali: quando scade
il mio contratto tu sai dirmi cosa fare? Non opporre la ragione
allo stomaco che vale: per chi vince sempre a perdere qualcuno
ma quell’uno è troppo esiguo, non fa nozze col diritto.
Al tornio continuava poi in silenzio al grido forte di crumiro…

XIV
Ho vent’anni di scintille mi diceva ma sono un corpo
che stazione senza scampo: chiedo poco giusto il giusto
per campare ma non basta. Altro non ricordo ripeteva
per avere le parole: dammi altro che il denaro dammi un senso…

XV
Lo sguardo appeso alla madia come sondava il vuoto interno
i ripiani dare alloggio alle molliche solamente, all’odore
chiuso dentro. Non c’è niente da mangiare ripeteva
e chiudeva gli sportelli con il gesto di chi perde…

XVI
Cosi ricompone l’odore dell’aria a Gennaio
e non ricordavo diceva né questo odore né gli altri mesi.
A dirti come capire… Poi a bassa voce continuava:
l’esalazione dei dimenticati, della nafta presa a fuoco
o la cordite acuta in casa col rumore. Era tutto un contrasto
senza ordine, senza il senso. Accadeva nello stesso mese
diceva, lo so. Compiva gli anni allora molta gente
e si faceva festa. Poi più nulla e chissà chi rimane.
Ritrovare è vivere una seconda volta diceva
dare il significato del vissuto precedente con il peso dell’errore...

XVII
Lo sbalzo sopra le teste l’intermittenza
di luce interessa per la frazione minima
per la mancanza improvvisa. Sovrappone
alla continuità ma è solo temporale rassicuro.
Il fare immutato prosegue allora nella pausa di corrente
tra l’erogare e le impronte sulle cose. Noi viviamo uguale
dico: cosi alternati tra costanza e sottrazione…

REGISTRO DEI FRAGILI (estratti)

Canto I
Un ventre schiuso usato per figliare con orgoglio mi mostrava
un pelo fitto da varcare per piacere.
E’ passato il tempo delle madri mi diceva
non rimane che il corpo a dar sollievo
per trovare il desiderio a quella vita che non riesco
e si faceva sul divano con la furia del momento.
Mi guardavano i suoi figli dal comò: le facce allegre dei ricordi di vacanza e comunione
tra i centrini e i fiori finti a cercare un certo tono…

Niente altro che il corpo dar asilo: trafugare la salvezza nell’orgasmo
nei minuti ricavati tra la spesa e la cena alla famiglia preparare.

Crocefissi nel sudore, ognuno accanto nel respiro gli arti stanchi,
le ginocchia indolenzite per le varie posizioni.
Tra le tante da provare più nessuna era intentata e senza amore,
ti ripeto, senza amore o sentimento. Solo sfogo la pretesa il diritto a nuova linfa.

Poi ognuno alla vita ritornava quella fatta per i canoni,
nel segreto dove tutto si nasconde
e tutto trova un ripostiglio, l’esatto spazio in cui ognuno si ripone e vive sano
per gli occhi del vicino, dell’ufficio e dei cristiani.

Siamo fragili ripeteva la donna, siamo esatti per il poco che crediamo
tutto il resto è una finzione. Cosa credi? D’avere scampo o redenzione
se confessi che accadi come devi?
Chi capisce o chi t’assolve chi sostiene che umano sei e resti pur perdendo?

Chi accetta il dire il vero, chi si pone nudo e crudo e senza filtri,
nudo e basta con gli sbagli e tutto il resto. Fosse data la visione, del futuro già la fine
per poi fare lungo il tratto,
quella linea già tracciata fatta esatta…

Hai dei sogni mi diceva. Sei lo stupido dei sogni che non sa che poi non serve
– a dire il vero - : la rinuncia è già nel tutto
nell’inizio, dall’inizio. Ogni volta che si sceglie la rinuncia prende piede
e la scelta va compiuta con il minimo del danno

si maneggia mi diceva, si compatta l’illusione: che il verso in cui ti trovi
sia il lato che poi scegli. Non è vero. Non è vero e non accade.
Ogni volta che si agisce ecco accedere l’inganno si patteggia e fine cose.
Accade certo di arrivare a un buon affare come fare acquisti dentro i saldi.

Il prodotto lo si prende con il minimo di spesa
ma non sempre ti ripeto: troppo spesso ciò che compri
ha il prezzo intero e per ciò che spendi e prendi
altro lasci ne rimandi…
Guarda me e si alzava dal divano: ho la vita già compiuta
un marito che mantiene e i figli vanno a scuola. Manca niente?
Indicava certi beni, tanti oggetti, i vestiti con la firma tolti in fretta e lasciati a terra a caso.
Manca niente? Le vacanze in ogni anno e la casa è già pagata.

Non lavoro e niente manca. E manca tutto se ne parlo:
manca tutto se decido che il tuo cazzo mi risolve e non è solo la febbre dell’incerto,
il farsi sangue e ribollire. Dopo te ne accade un altro e dopo l’altro cerco un altro
e nessuno mi risolve

ti ripeto. La carenza non si spiega. E poi te e fissava un punto incerto:
cosa cerchi. E perché mi scopi ancora? Sei felice sei sposato
hai la casa, stesse cose a confrontare
come me e forse meglio.

Siamo uguali e non fare che ti neghi. Siamo uguali e non credenti
siamo fragili diceva siamo fragili e piangeva.
Non ci basta la certezza
non mi basta rinunciare e la ragione che si trova in quella scelta.

Tutto è scelta e ribellione, ci neghiamo la natura
ma non siamo noi animali?
Sedeva al bordo con le mani tra le gambe e abbassava anche la voce.

Sai che l’uomo mi diceva è tra i pochi che lo sguardo nello sguardo
riesce bene a sostenere senza che la sfida accada o guerra?
Ne leggevo l’altro ieri.

Siamo gli unici animali che lo sguardo per linguaggio sanno usare e ne fanno complemento.

Siamo gli unici che controllano lo sguardo e sanno bene come fare:
sia parola che l’inganno e nessuno poi ne vede differenze.

Ci fidiamo e per questo estingueremo. Ci fidiamo per bisogno…

Canto IX
Sognava il volo e un altro corpo e non diceva quanto sfogo
in palestra ricercato, quanto sforzo per trovare quella forma da velina
cui sapeva appartenere. Ognuno crede all’esempio che si trova
ripeteva: mi sta bene quel colore?

Domandava: sono snellita? Molto prima di sposare
ero diversa ma il parto lei capisce il parto ti rovina.

Dallo step
lo sguardo attorno
rivolgeva per trovare la conferma
per trovare un solo sguardo che posasse su quel culo faticato,
fatto magro sulla linea della dieta
che diceva la tivù.

Poi a casa altra dieta, cose bio per nutrire
più che il corpo quell’idea:
il meccanismo era diverso prima di sposare
altro il corpo fatto meglio per l’età. Niente intralci o imperfezioni.

Non contava neanche gli occhi che fermavano un suo sguardo,
ripassare tra le forme sode e ferme che scopriva poco a poco
e di cui andava fiera:
ogni abito era perfetto e scopriva l’ombelico
ribassava una spallina
o le gambe accavallava senza pena e smagliature.
Guarda ora che disastro:
non più donna di un qualunque corpo sfatto
che vedeva giù al mercato.
Non è questo il mio destino ripeteva per convincersi al sudore,
meritavo altro destino che un marito sempre assente ed un figlio che risucchia
ogni stilla e paragone.

Continuava sullo step il moto fermo
aggrappando gli occhi chiusi nel pensare
che all’uscita un incontro d’improvviso….

Le varianti immaginava, senza figlio e sposalizio
senza niente
che il volto di un qualcuno farsi avanti per offrire la rivalsa

dare un senso alla fatica, ritornare in superficie
coi polmoni doloranti.

Canto XVII
Ha vinto la provincia vedi il gran vuoto che ai bordi resta
e vive la superba massa informe d’invisibili e giardini,
case singole nascoste in cui niente e mai accade:
resta tutto camuffato dietro il verde delle siepi
dietro auto rinnovate alla stagione.
Cosa appare veramente
cosa cogli di quel mondo strutturato
tra quei viali e il campanile, tra le ditte far fortuna
con un nome per insegna, con un nome delle parti che non stona
e la gente riconosce ed elenca per i vizi,
per gli abiti sfoggiati al passeggio
per la macchina più grande o il rinnovo delle mura, del mobilio, delle feste
a celebrare con lo sfarzo che s’impone e la sposa il battesimo alla villa

vedi, giusto il transito negli occhi della gente del vicino
che ripeta cosa ha visto, quanto ha speso…
Ha vinto la provincia ti ripeto,
col silenzio ed il fragore, l’esplosione all’improvviso di quel fatto

che nessuno poi credeva: era tanto buono e caro e lo dicevano i vicini
quella gente del paese…
chi sapeva veramente chi poteva immaginare?

Chi compete con quel fatto mi ripeto
non le pagine a Milano, non i fatti quotidiani
non gli stupri non le fughe, non le banche rapinate
non la crisi di un governo e nemmeno il negoziante preso in fallo per la truffa.

Qui si supera ripeto ogni caso ed infrazione, qui si vince per la mole
per l’orrore tra le mura nella casa che si crede sana e pura,
qui si offre il pasto ai cani che si possano cibare
indicando con il dito e ripetere nel tempo, in quel poco tempo speso,
quale orrore si consuma ed in provincia
ed è questo che stupisce, in provincia accade il fatto ed ognuno è testimone
prima e dopo ognuno ha visto ma nessuno nel durante,
mai nessuno che sospetti che a tal punto un qualcosa va fermato.
Ecco questo è il punto fermo, la mancanza di presenza, la mancanza punto e basta.
Occorre questo ti ripeto per trovare la misura
per trovare quel confine che riporti alla morale
per il dito che si punta per poi dire non va fatto
per vedere le notizie il proprio luogo reso eterno per frazioni e sgomento.
Non importa quali fatti ti recidano il torpore,
non importa come infrange la notizia nella vita:
quando accade ecco ognuno alzare il capo, ecco ognuno farsi esempio e comportare,
ecco ognuno inorridire e rinnegare anche tre volte e senza gallo o canto all’alba.

E’ successo l’omicidio e questo scuote le famiglie,
la coscienza più cristiana, è successo e si aborre
è successo e si condanna, si condanna tutti i fatti ed ognuno è testimone
ed ognuno ha il tassello che riordina l’insieme. Occorre questo ti ripeto.

Lo dicevano in paese che qualcosa non andava:
sai qualcosa di diverso mi chiedevano
come accade che la madre uccida il figlio, cosa dice la tivù?

NOTA


Fabiano Alborghetti è nato a Milano nel 1970; vive a Paradiso (Lugano).
Tra le raccolte poetiche segnaliamo
Verso Buda (LietoColle Libri, 2004) e L'opposta riva (LietoColle Libri, 2006). Altri testi sono presenti nell’Agenda Poetica 2005 Il Segreto delle Fragole (LietoColle Libri, 2005), nelle antologie Il Fiore (Chiesina Uzzanese, 2005), Verba Agrestia (Le Formiche, 2005), Parliamo dei fiori (Zanetto Editore, 2006), Il presente della poesia italiana (LietoColle Libri, 2006) e nel volume Poesia verso i bit (LietoColle Libri
, 2005).
Testi editi, inediti, recensioni, interviste appaiono inoltre su svariate riviste. Collabora con la redazione di
LietoColle Editore e con le riviste Le Voci della Luna, Tellus, La Gru
.
Per il teatro è stato assistente alla produzione per lo spettacolo
Fosco Le Roi di Ana Maria Ghisalberti e Daniele Manini (Teatro della Memoria, Milano, giugno 2002), ed è autore del testo breve Santo Spaccia (Teatro Out-Off, Milano, giugno 2003). E’ stato inserito nella rassegna Città in Condominio a cura di Giampaolo Spinato e Renata Molinari, ed è stato co-autore con Daniele Manini e Roberto Barbini dello spettacolo Parole stanze, e con Monica Patrizia Allievi dello spettacolo La notte dei desideri, tratto da una novella di Michael Ende.E’ nel consiglio direttivo dell’associazione milanese Milanocosa (
http://www.milanocosa.it/).

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2006)
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Il Pervirgilium Veneris


Il Pervigilium Veneris è un poemetto anonimo di novantatré settenari trocaici contenuto nell’Antologia Latina (silloge del V-VI secolo, redatta in Africa durante il regno dei Vandali). L’attribuzione è incerta, così come la datazione (tra il II e il IV secolo).
L’amore, nella sua duplice dimensione corporale e spirituale, è al centro dell’opera, che fu apprezzata, tra gli altri, da Walter Pater e da T.S. Eliot, che ne immetterà un emistichio nel finale de La Terra Desolata: "Quando fiam uti chelidon?" ("Quando diventerò una rondine?"). Qui lo si propone nella versione libera di Luigi Picchi, un amico che vive e insegna a Como.

Sergio Lagrotteria

ASPETTANDO VENERE

Domani ami chi non amò mai.
Anche chi già amò ancora ami.

Ecco di nuovo la primavera coi suoi canti (in primavera è nato il mondo, in primavera nasce l’amore, si sposano gli uccelli e la foresta spande alle feconde piogge le sue chiome).
Domani la Signora degli amori fra ombre d’alberi intreccerà verdi rifugi con giovani rami di mirto.
Domani comanda Venere (fiera la vedrai nella maestà del trono).

Allora in gorgo di spuma e celeste sangue, tra azzurre schiere di bipedi cavalli il mare generò Venere tutta grondante di feconde piogge.

Lei colora la stagione d’intense gemme.
Lei gli stami inebriati dal Favonio spinge ai petali.
Lei sparge lucente rugiada (vedi come luccicano queste lacrime della Notte, per il loro peso oscillando sul lembo).
Rossi petali hanno tradito ogni pudore e la rugiada, polline di stelle, scioglie dei virginali stami l’umido peplo.
Lei vuole che le rose si sposino, le rose gemme e fiamme di sole, nate dal suo sangue coi baci d’Amore.
E la rosa domani non si vergognerà di cedere della sua veste scarlatta il fiore segreto.

Proprio Lei ha inviato Ninfe nel bosco di mirto.
Con le fanciulle va il ragazzo (però se Amore è armato non c’è da stare tranquilli).
Allora andate pure, amiche ninfe: Amore è disarmato e nudo, (questi gli ordini),
ma all’erta lo stesso: proprio quando è inerme è più pericoloso.

A te, Artemide, vergine regina, Venere manda alcune sue ragazze, degne di te.
Ti chiede d’arrenderti per questa volta, di sospendere le cacce, (basta sangue!).
Te lo chiederebbe la dea stessa se solo potesse piegare il tuo pudore.
Lei ci terrebbe tanto tu ci fossi alla festa (se fosse consentito ad una vergine).
Così per tre notti vedresti i cori esultanti attraversare le radure fra corone di fiori e festoni di mirti.
Non mancheranno Cerere, Bacco, né il dio della poesia.
Si canterà tutta la notte.
Regni Venere nei boschi e tu Artemide, lascia fare.

Venere detterà legge a Ibla, attorno al suo seggio di fiori le Grazie.
Ibla dischiudi tutti i tuoi fiori, quelli d’un anno intero!
Ibla vestiti dei fiori sulle pendici dell’Etna!
Qui verranno tutte le belle ragazze della pianura e dei monti, ninfe di boschi, foreste e sorgenti.
La madre del bimbo alato ha voluto che fossero tutte presenti (ma Amore dovrà fare il bravo).

Domani i fiori saranno avvolti da ombre fresche, domani sarà come quando per la prima volta l’Etere si sposò a generare la stagione con nubi di primavera.
Così la pioggia scese nel grembo della sposa per fondersi al grande corpo e nutrire ogni frutto.
Lei procreatrice con segrete forze, con soffio irresistibile alla mente e al sangue, governa per cielo, terre e mare e un libero corso dischiuse al liquido seme e ordinò all’universo di conoscere le vie della vita.

Lei ha condotto le stirpi troiane nel Lazio.
Lei ha dato in sposa a suo figlio la fanciulla di Laurento e subito dopo a Marte una casta vestale.
Lei ha provocato le nozze tra i discendenti di Romolo e le Sabine per generare i Ramnensi, i Quiriti e dopo la madre di Romolo Cesare.

Feconda i campi il piacere, i campi respirano Venere.
Amore stesso si dice sia nato dalla terra.
Mentre il suolo lo partoriva, Lei lo accoglieva in grembo e poi lo allevò con morbidi baci di fiori.

Ecco che già sotto le ginestre si sdraiano i tori certi delle nozze.
Sotto le ombre ecco pecore con i loro maschi.
La dea ordinò canti alati e già si sentono cigni rauchi e l’usignolo che nell’ombra del pioppo ti sembra intonare il suo amore e non un lamento per la sorella rondine.
Lei canta e io no.
Quando avrò la mia primavera?
Quando diventerò come rondine e uscirò da questo silenzio di morte?
Il silenzio ha spento il mio canto.
Apollo non mi guarda più.
Così fu tradita dal silenzio la città di Amicle.

Traduzione libera di Luigi Picchi

Contributo pubblicato su www.cerchioazzurro.com (2005)
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