INTERVENTI - 2


Giovanni Schiavo Campo - 
Mariangela Reina
I corpi pensosi del tempo


Questo intervento che proponiamo è particolare; può sembrare sconnesso, ma è tenuto insieme da un sottilissimo filo.
Abbiamo trovato di recente, quasi casualmente, delle foto “dimenticate” da una trentina d’anni di una brava fotografa “dilettante”, Mariangela Reina, di Besnate, una piccola località in provincia di Varese.
L’album privato che conteneva queste fotografie riporta a mano, quasi in ogni pagina, versi di poeti conosciuti e meno del Novecento, italiani, europei ed extraeuropei.
Questa conoscenza intima e profonda della poesia ci è sembrata una forma d’amore, coltivata privatamente e in parallelo alla passione fotografica. In una certa misura questa relazione così vicina tra immagine fotografica o artistica e poesia era del tutto simile ad una delle caratteristiche principali del Cerchio Azzurro, che sempre ha cercato di raccontare con passione la letteratura e l’arte visiva, spesso affrontando con maggiore partecipazione gli episodi minori e meno conosciuti  di questi ambiti. Perché è nostra convinzione che queste piccole storie siano quelle realmente più grandi e meritevoli di documentazione.
Parlando con Giovanni Schiavo Campo di questo nostro interesse per quelle fotografie (Giovanni è un poeta che stimiamo, qui già presentato e molto vicino idealmente a questo nostro progetto) e di come questa fotografa avesse tenuto una sorta di diario poetico-fotografico, ci è venuto in mente di ricreare quella interrelazione tra immagine e parola.
Il tema era anche il passato, la memoria, i ricordi; perché quelle fotografie, come molte altre, di quello raccontavano, e così anche i testi annotati a penna al loro fianco.
Abbiamo chiesto a Giovanni di trovare, nel suo archivio personale di scrittore, dei propri testi “dimenticati”,  in qualche misura da tempo scomparsi, che rimandassero a un passato vissuto e fatto d’intimità poetica.
Giovanni ci ha regalato questi frammenti di bellissime prose che hanno generato gli accostamenti che qui vogliamo presentare.

Cristiano Mattia Ricci


Accolta all’intimità tra le pareti di casa vi s’installava, da un’estremità all’altra, una nottata irremovibile. Sempre a una cert’ora la sua apparizione sopraggiungeva a un malincuore improvviso alla sua discesa divenuta precoce con l’avvento dell’inverno, configurando l’aspetto della sera che più apparteneva a un altro mondo. Come sovrastasse la bassa cupola d’estensione di questo mondo nottambulo, quando già a ridosso delle sue parentesi racchiuse ogni volta l’oscurità riprometteva all’indomani una giornata ventura, vi era, per così dire, un intervallo, interregno nel tempo conteso tra l’avvicendamento repentino in un conflitto assai più di ombre che di luci, dalle cinque alle sei. Imminente l’ascesa della serata al culmine, riversa alla superficie calcinata a scaglie di un cielo grigio luttuoso, filtrava a squarci dalle finestre. Allora, come in una risonante cavità piena d’aria, dove nient’altro, nessun oggetto, nessuna cosa d’una riconoscibile consistenza vi si trovasse all’interno, all’infuori di questo arcuarsi a una tensione per il momento ancora trattenuta, la casa trasfigurata come la sonorità d’un edificio allo sfacelo delle sue strutture in disuso, cornamusa d’eloquenza bensì più cupa che all’emissione di fiato, al batticuore di colpi dell’interminabile silenzio – l’accasciarsi come all’eco che si amplificava al battito di passi, all’accresciuto volume del rimbombo, là, nelle stanze: ecco la casa, ricettacolo minaccioso, traboccante insidie d’ogni sorta, assumere di punto in bianco ai suoi angoli sparsi delle sembianze distinguibili, allarmanti nella cerchia di coesione avvolgente certe figure, talvolta dotate di un’insita forza d’aggregarsi o di disperdersi all’aria, come una nebulosa calca affollata al rifluire della caligine: individualità nel loro spessore singolo intriso della presenza discreta della casa, ma altrimenti, a uno sguardo che contemplasse dal di fuori, appartenenti a una sfera integra senza lacune. Che cosa le avrebbe fatte muovere dalla loro stasi prodigata agli intrighi del silenzio? Non mi era dato venirlo a sapere. L’oscurità lasciando in difetto la vista, oltre la barriera da sé frapposta, funzionava pressoché come uno schermo al riparo del quale si era insinuato un emisfero di entità a volte temibili quanto accorgersi di un’intrusione di qualche sogno uscito allo scoperto. Tanto tenaci, nella loro presa esercitata su di me, che quasi non avrei osato attraversare dall’altra parte, all’estremità a nord della casa. Certo, dovevo pure trovarmi là qualche volta da solo. Ma non mi ci sarei mai azzardato di mia iniziativa di notte a luci spente, tanto era carica, quella dimensione, d’una sua attività e sempre fittamente conglobata alla sfera di ogni possibile influenza delle ombre giganti; dove l’oscurità, scalfita appena dalla flebile falce della poca luce radente il pavimento, ristagnava radunandosi laggiù a morbide volute. Mentre io, come volessi ridurmi a nulla, a un’entità senza peso, rimpicciolirmi di fronte alla stretta al cuore, alla morsa di quella offensiva – i miei sensi confusi, frastornati da battiti di forti palpitazioni e quasi ansante dall’andatura folle, quasi potessi levarmi al volo come un gabbiano per i corridoi e le stanze al buio: allora potevo aspettarmi anche il peggio dall’animalesca rapidità all’angolo tra l’effusione delle pareti contorte come un viluppo di serpenti: l’assalto dal buio mondo felino, scattante, senza sapere bene da quale parte, all’improvviso. Dovunque, Altrove, insieme agli altri innominabili avverbi dei recessi oscuri della tenebrosa presenza.

Distesa d’oscurità alla compiuta sfera d’orizzonte. Un’estensione, allora, dalla solidità non cedevole; all’avanscoperta delle sue disingannevoli distanze lo spazio ai nostri dintorni, ma fintanto che c’era, visibilmente, un’arcata di terraferma sospesa come all’ormeggio delle sue luci. Procedendo, da parte nostra, con una cautela d’andatura di passi fin quasi calibrati: mai troppo lontano dal centro pericolante della sua inerzia. Di là dal principio circoscritto di acque dai cui confini si ripartiva, ogni qualvolta, facendovi ritorno dal bordo alle estremità ricongiunte d’un semplice circolo, dove, terminando la cecità, a conclusione di strade condotte alla superficie d’un perimetro sommerso, le incalzava alle conseguenze estreme delle loro strettoie, si ritraevano a pelo d’acqua, le strade, sfuggendo all’indietro, come verso l’imbarco del loro luogo d’avvio. E con instancabili rincorse all’inseguimento, ci abbandonavano soli alla ricerca disperata, al seguito impervio di una notte a portata di mano di località ripromesseci – com’era sembrato -; e sospinta invece qualche passo sempre più avanti della sua mèta prossima e mai raggiunta.


Sentivo, quelle notti, la fragilità di dare il loro nome a cose divenute oscillanti in mezzo a estremi plausibili sulla lama di un dubbio. Le cose assumevano aspetti che avrei potuto infondere io stesso, plasmandole; andavano guardate per forza dal lato per cui s’imponevano.

Talvolta mi guardavo attorno come mi trovassi nel centro di una bussola, io stesso non abbastanza capace di vista lungimirante o, forse, troppo ridotto nella misura delle mie dimensioni per arrivare a vederci qualcosa a distanze così grandi; con l’ago della bussola intorno che, se anche avesse incominciato a girare all’improvviso, come impazzito, non me ne sarei reso conto, stando issato nel centro preciso di quel congegno.
Stavo cercando un qualsiasi appiglio o ragione di sorta. Questo fatto ahimè così paradossale, ipotetico. Chiesi a me stesso: l’ansia che ora vivi non ha parentela con i tuoi sogni?
C’era come una materialità diffusa, un’angoscia dello spirito di volersi spogliare a tutti i costi della sua costrizione radicata.
I ricordi più recenti procedono da soli, come d’impulso, per inerzia delle nostre ossa; ma riflesso dal mondo alle loro spalle, qualcosa ancora pulsante è un essere profondo, appiattito nell’immagine più fresca del desiderio reale.
 

Quale importanza rivestiva, per me, portare a compimento i corpi pensosi del tempo suddiviso in periodi di crisi e di alternanza – i soli cicli per i quali pativo dall’essere sempre uguale a sé stesso, equidistante, della natura dei fatti che sfumano e, contemporaneamente, si realizzano dentro l’apertura a quella luce -, questo doveva essere per la prefigurazione di un progetto.

Dolorosamente intense le giornate nel primo gelido vento invernale. Fioritura altrettanto stellare può divenire qualunque luce penetrante con l’acume di quelle rispettive notti congelate.
Le cose arrivavano fin dentro l'insenatura della mia quiete e la quiete si faceva bruciante, e il sole le lasciava cadere in mezzo ami come spruzzi di riflessi che facciano da esca; e in fondo ogni cosa si lasciava trascinare dentro di me come fossi stato la sua morte definitiva: un'insenatura, una spiaggia, una risacca di alghe. Di fronte ai miei occhi si faceva spettacolo, si faceva scena di lentezza, di lontananza, d’impenetrabilità. Guardavo dentro le cose e mi sentivo rispondere: sentivo come corrispondevano e in che modo venivano a essere magnificate attraverso il vuoto guscio di conchiglia del mio stare in ascolto.


Quando gli fu richiesto di dire se da quei tempi non erano avvenuti dei cambiamenti, no, certamente non si sarebbe azzardato a rispondere con precisione in un modo o nell'altro, dicendo di sì o di no. Poiché, per nessunissima ragione al mondo avrebbe cercato di dare a qualcuno l'impressione di sapere qualcosa di anche lontanamente simile, lasciando capire quale preminenza potessero avere per lui certe ragioni insondabili e quasi del tutto celate, sullo sfondo di ciò a cui gli capitava qualche volta di fare cenno nell’esposizione del suo pensiero. L'intero corso vissuto e la sua conclusione gli sembravano presenti adesso, in quello stesso istante, come un umido grumo di tempo sferico che non può concludersi nel tempo e porsi un termine, ma deve per forza tornare su di sé e ricongiungersi con i suoi inizi. Perciò non avrebbe saputo come rispondere, poiché i cambiamenti in genere non dovevano interessarlo.

Da sé stesso non poteva rifuggire, né dal prendere per sé e per gli altri una posizione meditata, defluita dal nucleo stesso delle cose che lo stavano intaccando.
Definizione e, dopo, la scappatoia. Ma almeno per adesso là fuori, al buio, non ci sarebbe tornato. Un fischio, sembrava poco fa, e c’era anche qualcuno appostato da qualche parte, dietro la casa. Poi il vento in continuo riflusso e il rullio, in lontananza, di qualche vecchio trabiccolo su ruote. Quattro, come nel primo indizio d’Edipo. Il fracasso trafuga le ombre e le ridimensiona a oggetti alla portata di tutti; schiaffeggia gli occhi, i nasi, le orecchie che hanno appreso a mentire nell’incavo dei propri rispettivi sensi.


Nota


Giovanni Schiavo Campo è nato il 22 giugno 1960 a Milano, dove vive e lavora come collaboratore indipendente di vari periodici e critico d’arte.
Come poeta, dopo il pieghevole
 Le mandrie del sole (Monza 1988), ha esordito con L’oro e il fuoco (All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1995). Si segnalano tra gli sparsi riferimenti editi su antologie e riviste: Annuale 2, supplemento al n. 2 di FinisterreRiga (1993), Mondo giovani/mondo poesia, rassegna antologica del Comune di Milano a cura di Biagio Cepollaro e Giancarlo Majorino (1993), Anterem – Scritture di fine Novecento (Verona 1998). Singole poesie sono comparse in cataloghi di mostre e altre pubblicazioni in collaborazione con artisti: diversi volumetti stampati delle edizioni Pulcinoelefante di Osnago con interventi visivi dello stesso Casiraghi, di Paolo Schiavocampo, padre scultore di Giovanni, e di Lamberto Correggiari; una cartella di grafiche dello scultore Giancarlo Bulli (Persezioni, 1991); E il merlo?, poesia con relativa traduzione in francese accompagnata da un’acquaforte e acquatinta di Gino Gini (I libri del Merlo, Il Laboratorio, Nola 2005); laminette incise e altri esemplari unici d’artista della moglie Jelica Tipic'.
Di rilievo teorico l’interpretazione di un frammento di Eraclito (
Che cosa non nasconde l’oracolo, Manocomete 3, dicembre 1995) e, sul piano dell’elaborazione poetica, l’intervento Segnatempo: frammenti sul segno come orientamento, pubblicato negli atti del convegno Scritture e realtà – linguaggi e discipline a confronto, a cura di MilanoCosa (Milano 2000).
Frutto di una ricerca intrapresa negli ultimi anni, improntata agli esagrammi dell’I Ching, il millenario oracolo cinese, e finalizzata alla grafica del libro, è invece Ausa (2006), esperimento di autoproduzione editoriale con una ventina di testi riprodotti sia con mezzi elettronici, sia in versione realizzata con la tecnica d’ incisione su lastre di zinco (fotoincisione e acquaforte) in 30 copie, numerate e firmate, tirate a mano e rilegate dall’autore.

Mariangela Reina vive a Besnate (Varese). Per un certo periodo della sua vita si è dedicata alla fotografia, realizzando alcuni portfoli centrati soprattutto sul paesaggio rurale e lacustre del Varesotto e della Svizzera, in relazione ai temi della memoria e del ricordo.   

Leo Liberti

La bellezza in matematica



LIX, École Polytechnique, F-91128 Palaiseau, France 

22 giugno 2012

Dedicato a Pino Cuttaia, che mi ha
ispirato a scrivere della bellezza di quello che conosco attraverso la bellezza e la perfezione dei suoi piatti.


Introduzione
Ascoltando una conversazione tra matematici, può succedere di sentir dire delle frasi come "c'è una dimostrazione del tal fatto, ma non è bella", o "la prima dimostrazione ottenuta da Tizio per il tal altro risultato funziona, ma quella di Caio è meravigliosa". Si ha l'impressione che parlino di opere d'arte. Mi sono sentito rivolgere a più riprese punti interrogativi su brandelli di frasi del genere. Nell'immaginario collettivo la matematica dev'essere talmente lontana dalla bellezza che la domanda non è nemmeno formulata: mi guardano, alzano il mento, piegano gli angoli della bocca all'ingiù, raggrumano verso l'alto le cinque dita della mano destra, scuotendola leggermente lungo la verticale, e mi esprimono un muto "embè?"
Come matematico, sono in grado di apprezzare diversi aspetti estetici della matematica. La formalità del linguaggio non permette ambiguità. Esprimere concetti difficili con un linguaggio tanto preciso assomiglia talvolta a costruire un castello di carte: basta un soffio e va giù; nella mia similitudine il soffio gioca il ruolo dell'incoerenza. Si lavora per ore, giorni, settimane, mesi, anni a costruire la formalizzazione di un'idea, e poi proprio alla fine ci si accorge che una certa sfaccettatura dell'idea non è stata descritta appieno, e che tutti i modi di descriverla sarebbero incoerenti con le frasi (formali) già scritte. A differenza del castello di carte, però, una volta arrivati alla fine della costruzione, quando il matematico è pienamente convinto che la formalizzazione della sua idea sia completa, il castello cessa di essere fragile, diventando anzi solido oltre ogni materiale conosciuto. Visualizzate il processo di costruzione di un castello di carte: vi fa stare col fiato sospeso a ogni carta, trattenete anzi il respiro affinché non sia proprio l'afflato di distensione dopo un passo particolarmente difficile a mandare tutto all'aria. Alla fine, se il castello sta su, è come se lo gelaste allo zero assoluto: non crollerà mai più. Il castello di per sè può essere bello o brutto, ma il procedimento stesso vi ha preso tutta la vostra tensione, abilità e pazienza, ne avete sofferto, e vi ci siete perciò affezionati. Non è ancora bellezza, ma sicuramente amate questa vostra creazione, e magari anche qualcun altro potrà apprezzarne la stabilità, le fondamenta, o qualche passo particolarmente difficile, chiedendosi "ma come ha fatto a mettere questa carta qui?''
Ho parlato della formalizzazione di un'idea. E l'idea da dove viene? Come nell'arte, può venire dai sensi, da un sogno, o nascere da sola nel cervello a un certo momento, chissà perché. Forse diversamente dall'arte, l'idea può anche venire dal dialogo con altri matematici, o con altre persone in generale. L'idea che porta un artista a compiere la sua opera è difficile da comunicare, giacché il mezzo di comunicazione è l'opera d'arte stessa. In matematica si riesce a parlare di idee ancora "grezze", soprattutto agitando le mani e per mezzo di disegni stilizzati, ma è durante la formalizzazione che l'idea arriva al suo pieno compimento, oppure si scopre che l'idea non è valida. Il processo di formalizzazione, o di costruzione del castello di carte, è di solito individuale, dove invece il concepimento dell'idea primordiale può essere sia individuale che comunitario.
Spesso le idee matematiche che poi vengono formalizzate riguardano una lista (finita) di frasi scritte in linguaggio formale in cui ogni frase deriva logicamente dalle precedenti, e in cui la prima e l'ultima giocano ruoli importanti. La prima si chiama "ipotesi" e l'ultima "tesi". L'ipotesi è quello che è già noto, è una descrizione della situazione prima del processo logico; e l'ultima è una frase di cui si vorrebbe certificare la verità. Il fatto che le frasi abbiano un ordine, che assicura che ogni frase sia conseguenza delle precedenti, dà alla costruzione formale un aspetto dinamico. Un altro matematico potrebbe aver trovato le frasi giuste ma non l'ordine giusto, mentre colui che dimostra finalmente il teorema ha saputo mettere insieme sia le frasi che il loro ordine.
Da un'opera d'arte ci si aspetta che sia bella: classicamente, la bellezza è la funzione primaria dell'opera d'arte. In matematica, diversamente, la prima funzione di una dimostrazione è quella di non avere incoerenze (due frasi che dicano il contrario l'una dell'altra), ed è legata alla verità. La seconda è l'utilità: come si inserisce il nuovo teorema nella vasta letteratura di teoremi esistenti? Che nuove strade apre? In che applicazioni (ingegneristiche, fisiche, biologiche o altro) del mondo reale può venire utile? La bellezza è relegata al terzo posto.
Dato che tutti sembrano comprendere i valori di verità e utilità, veniamo alla bellezza. I matematici sono in grado di dire se una dimostrazione sia bella o meno, e spesso anche di dire che una dimostrazione è più bella di un'altra. Come nell'arte, una parte di questa valutazione estetica è individuale, ma ci sono dimostrazioni sulla bellezza delle quali tutti i matematici sono d'accordo. Alcuni metri di giudizio estetico particolarmente importanti sono lunghezza, chiarezza, simmetria e sorpresa. A mio giudizio personale, l'autoreferenzialità di alcune dimostrazioni è un fattore chiave per la loro bellezza.

Lunghezza
Una dimostrazione troppo lunga non riesce a essere bella, perché non si riesce a intuire l'idea che sta dietro, nascosta da troppi dettagli, pur se necessari. Per esempio, la dimostrazione dell'ultimo teorema di Fermat (datato circa 1630) ha preso ad Andrew Wiles, nel 1994, diverse centinaia di pagine. Molti dei suoi "concetti fondamentali" (le carte del castello) sono in realtà a loro volta teoremi molto complessi, a descrivere i quali ci vogliono altre centinaia di pagine. Fermat aveva scritto in margine al suo libro di avere ottenuto una dimostrazione del proprio famoso risultato, che il margine stesso era troppo piccolo per contenere. O Fermat era il re dell' "understatement", oppure aveva davvero ottenuto una dimostrazione, magari lunghetta, ma non certo di migliaia di pagine, o anche si sbagliava. Data la difficoltà di arrivare a una prima dimostrazione (trecentocinquanta anni di fatiche di una comunità scientifica), e la lunghezza della stessa, si pensa, magari con arroganza, che Fermat si sbagliasse. Aveva probabilmente trovato delle dimostrazioni per due casi particolari e aveva pensato che queste dimostrazioni potessero essere generalizzate a ogni caso. D'altro canto, se una dimostrazione è complicata, non sempre si riesce ad accorciare in maniera arbitraria. Un modo di vedere la bellezza nelle dimostrazioni troppo lunghe consiste nell'eliminare i dettagli per riuscire a vedere la struttura soggiacente. Certo, la dimostrazione senza i dettagli non è più formalmente corretta, ma almeno diventa leggibile. David Cox, in Introduction to Fermat's Last Theorem, The American Mathematical Monthly, 101(1):3-14, 1994, compie un valido tentativo in questo senso: riassume i tratti essenziali della dimostrazione di Wiles dell'ultimo teorema di Fermat, trovando un buon compromesso tra lunghezza e visione d'insieme.

Chiarezza
Una dimostrazione poco chiara non è bella perché si ha l'impressione che ci sia qualcosa che non va. Non si riesce a capire come una frase possa logicamente dipendere dalle precedenti. Di solito, tuttavia, si riesce a rendere più chiare le dimostrazioni aggiungendo delle frasi intermedie nella successione logica, oppure cambiando l'ordine delle frasi (senza ovviamente inficiare la validità della dimostrazione stessa). Faccio un esempio che riguarda i numeri. Consideriamone due classi: i numeri interi (zero, uno, due, tre e così via) e le frazioni p/q con numeratore p e denominatore q interi e positivi. Entrambe le classi sono infinite, ma le frazioni contengono gli interi (la frazione 4/2, per esempio, è uguale all'intero 2), mentre il contrario non è vero: 1/3 non è uguale ad alcun numero intero. Eppure c'è un teorema che afferma che ci sono tante frazioni quanti interi: arrangiamo tutte le frazioni in una griglia quadrata, con i numeratori che crescono in verticale e i denominatori in orizzontale, e le enumeriamo in quest'ordine: 1/1, 1/2, 2/1, 3/1, 2/2, 1/3, 2/3, 3/2 e via di seguito: c'è dunque una prima frazione, una seconda frazione, eccetera, il che vuol dire che possiamo mettere in corrispondenza le frazioni con gli interi, che dimostra il teorema. Chi conosce già questa dimostrazione la troverà senza dubbio chiara ed esauriente; per tutti gli altri c'è probabilmente bisogno di molte frasi intermedie (che trovate qui sotto).
Partiamo dall'asserto entrambe le classi sono infinite, ma le frazioni contengono gli interi, mentre il contrario non è vero. Stiamo parlando di due insiemi di numeri, gli interi e le frazioni. In generale, due insiemi possono avere diverse relazioni: possono essere uguali o diversi; e nel caso siano diversi, ci sono tre possibilità: ogni elemento di uno può essere contenuto nell'altro, o possono esserci certi elementi comuni all'uno e all'altro (ma non tutti), oppure ancora i due insiemi possono essere completamente distinti. Nel nostro caso, l'insieme degli interi è contenuto nell'insieme delle frazioni, ma non è vero il contrario (vedi Fig. 1).

Figura 1L'insieme degli interi è contenuto in quello delle frazioni, ma non viceversa. 

In generale, per dimostrare che un insieme A è contenuto in un insieme B ma non il contrario, bisogna dimostrare che ogni elemento di A è anche in B, e bisogna esibire un elemento di B che non è in A. Nel nostro caso, abbiamo glissato sul fatto che ogni intero sia anche una frazione: ma questo fatto è ovvio se si considera che ogni intero n si può scrivere anche come la frazione n/1. Abbiamo però esibito una frazione, 1/3, che certamente non è un numero intero. 
Veniamo adesso all'asserto principale: nonostante gli interi siano contenuti nelle frazioni e non viceversa, ci sono tanti interi quante frazioni. È contraddittorio soltanto in apparenza, perché negli insiemi infiniti (come i numeri interi e le frazioni) il "numero di elementi" non è definito allo stesso modo degli insiemi finiti. Per esempio, per sapere quante capre ci sono in un gregge bisogna contare le capre nel gregge. Domandare quante frazioni esistano richiede un'operazione molto diversa, dato che ogni operazione empirica di conta non finirebbe mai. Bisogna invece trovare una corrispondenza "uno-a-uno" (vedere Fig. 2) tra le frazioni e gli interi, e una corrispondenza "uno-a-uno" tra gli interi e le frazioni. 


Figura 2: Vari tipi di corrispondenze tra insiemi A, B: uno-a-uno (ogni elemento di A corrisponde a esattamente un elemento di B, a cui non corrisponde alcun altro elemento di A), molti-a-uno (ogni elemento di A corrisponde a esattamente un elemento di B, a cui possono corrispondere anche altri elementi di A), uno-a-molti (almeno un elemento di A corrisponde a più elementi di B).

La prima corrispondenza mostra che ci sono almeno tanti interi quante sono le frazioni, e la seconda mostra che ci sono almeno tante frazioni quanti sono gli interi. Insieme, le due corrispondenze mostrano che ci sono precisamentetanti interi quante frazioni. Ancora una volta, questo non significa che i due insiemi siano uguali (tant'è vero che abbiamo trovato una frazione - ovvero 1/3 - che non è un intero). Significa soltanto che, se si dovessero contare gli interi uno a uno all'infinito, si potrebbe usare la conta corrispondente sulle frazioni, ed esaurirle nello stesso tempo (infinito) necessario a esaurire gli interi.
Non ci rimane che esibire le due corrispondenze. Cominciamo dalla più semplice, quella che fa corrispondere una frazione ad ogni intero: siccome ogni intero può essere scritto come una frazione, basta associare a ogni intero la frazione corrispondente n/1. La seconda è stata già introdotta per sommi capi: si arrangiano le frazioni in una griglia quadrata come segue.


Dovrebbe essere facile vedere che che ci tutte le frazioni: presa una coppia di interi a, b e composta la frazione a/b, dovrebbe essere chiaro che si trova nella b-esima colonna dell'a-esima riga. Una griglia non è ancora un elenco, ma ormai siamo vicini alla meta: enumeriamo le frazioni della griglia usando l'ordine a "zig-zag" rappresentato qui di seguito.


Si ottiene l'elenco di frazioni cercato, il che conclude la dimostrazione. Se i dettagli vi hanno aiutato a capirla, dovreste essere in grado di apprezzarne la bellezza rispetto alla versione più breve e oscura presentata all'inizio di questa sezione.

Simmetria
La simmetria è stata spesso considerata un canone di bellezza nell'arte. Questo vale anche per la matematica. Non parlo delle dimostrazioni sulla simmetria (in quanto concetto matematico), bensì della simmetria nelle dimostrazioni. Può esserci una simmetria interna alla dimostrazione, per esempio quando lo stesso principio viene invocato più volte in contesti diversi; oppure esterna alla dimostrazione, nel senso che tutta una serie di teoremi apparentemente diversi hanno una dimostrazione che è essenzialmente la stessa.
Quest'ultimo è il caso di un teorema di teoria dei gruppi (una branca dell'algebra) chiamato in inglese "the kernel and image theorem". In italiano, letteralmente, sarebbe il teorema "del nocciolo e dell'immagine", ma non ho mai sentito chiamarlo così. Questo teorema si ripresenta apparentemente molto diverso in algebra lineare, in teoria dei moduli e in altri contesti algebrici. Tutte le incarnazioni di questo teorema, tuttavia, possono essere viste come conseguenze del teorema nell'ambito della teoria dei gruppi, e il motivo di fondo è che tutte le entità algebriche a cui si applica il teorema sono generalizzazioni dei gruppi.
Vediamo il teorema del nocciolo e dell'immagine nella sua versione più basilare: prendete una mezza pesca e immaginate una procedura che, dalla mezza pesca, ottiene una fotografia della mezza pesca servita pronta da mangiare. Questa procedura cambia una pesca in una fotografia, ma essenzialmente mantiene il concetto che il nostro cervello si forma di una pesca. Procedure che trasformano gruppi in altri gruppi mantenendone tuttavia un aspetto strutturale essenziale vengono chiamate "omomorfismi". Il teorema del nocciolo e dell'immagine dice che se snocciolate la mezza pesca di partenza, ottenete qualcosa di veramente simile alla fotografia.



Figura 3Il teorema del nocciolo e dell'immagine

In altre parole, l'omomorfismo in questione trasforma il nocciolo nella sua assenza in fotografia, che è quindi concettualmente equivalente alla pesca snocciolata. Ammetto che il linguaggio delle pesche non sottolinea la profondità del teorema (né la bellezza). Nondimeno, colpisce la generalità: c'è un solo concetto di pesca, ma ci sono infiniti gruppi e infiniti omomorfismi tra di essi. Eppure il teorema è sempre valido: il gruppo di partenza, privo del suo nocciolo, ha la stessa struttura della sua immagine.
Nell'algebra lineare, questo stesso teorema si chiama "rank and nullity", ovvero "del rango e della nullità". Un comune mattone rosso per costruzioni ha rango zero. Se ne fate una fila, quella fila (non importa quale sia la lunghezza) ha rango uno. Se poi usate diverse file, fianco a fianco, per pavimentare una superficie (non importa di che forma), quello strato di mattoni ha rango due. E infine, se mettete tanti strati uno sull'altro, il blocco che ottenete ha rango tre. Per semplicità, supponiamo che lo strato sia un quadrato e che il blocco sia un cubo: un meraviglioso e utile cubo di mattoni, per costruire il quale avete impiagato tempo e fatica.
Ora immaginate un bulldozer che arriva a tutta velocità, cercando di fare tabula rasa del vostro prezioso cubo di mattoni, che stavate rimirando da lontano, compiacendovi del suo rango in ogni prospettiva. Correte per cercare di salvare la costruzione, tendando di arrivare ai comandi del bulldozer e farlo virare all'ultimo secondo: siete proprio a un pelo dal bulldozer lanciato in velocità, ma non ce la fate: quello vi scarta e continua. Come conseguenza dello scarto, anziché colpire il cubo proprio in mezzo, lo colpisce un po' di lato, e tira giù tutto tranne un muro (uno strato verticale): del vostro cubo di rango tre, rimane un quadrato, che, lo abbiamo già visto, ha rango due: un'unità di rango è finita nel nulla. Il bulldozer, nella sua prima passata sul vostro cubo, è una "trasformazione lineare" di rango due e nullità uno.
Ma quello mica si arrende! Gira, riprende la mira per centrare il fragile muricciolo proprio sul davanti, e voi, ormai depressi, piangete rassegnati al peggio (vedi Fig. 4). Il bulldozer rade al suolo il vostro muro senza problemi, naturalmente. Solo che la fila di mattoni più in basso era rimasta un po' compressa nella terra per via del peso degli strati sovrastanti, e riesce a rimanere intatta. Il vostro cubo è ridiventato una fila di mattoni, che, come abbiamo detto sopra, ha rango uno: due unità di rango sono finite nel nulla. Il bulldozer, nelle sue due passate sul vostro cubo, è una trasformazione lineare di rango uno e nullità due.


Figura 4Il teorema del rango e della nullità

Il bulldozer, soddisfatto, se ne va facendovi le pernacchie. Lo sberleffo vi fa passare istantaneamente la depressione, vi incazzate oltre ogni misura, e per sfogarvi distruggete la vostra ormai inutile fila di mattoni, gettandoli qua e là e invocando il nome di Dio decisamente invano. Rimangono i mattoni sparsi, che hanno rango zero. Le due passate di bulldozer seguite dalla vostra rabbia sono una trasformazione lineare di rango zero e nullità tre.
Nella storiella del bulldozer c'è qualcosa che non cambia mai, e cioè la somma del rango e della nullità, che, se ci fate caso, è sempre uguale a tre; e, sempre continuando a farci caso, vivete in uno spazio tridimensionale! Il teorema dice proprio questo: nelle trasformazioni lineari, la somma di rango e nullità è uguale al numero di dimensioni dello spazio circostante.
Vediamo adesso la simmetria tra rango/nullità e nocciolo/immagine. Il nocciolo va in nulla nell'immagine: tradotto nel linguaggio dei gruppi, l'immagine più il nocciolo danno un tratto essenziale dell'intera pesca. Adesso prendiamo uno specchio deformante di tipo molto speciale, che riflette il nocciolo nella nullità (in effetti il nocciolo va in nulla) e l'immagine nel rango (in effetti dopo ogni passata di bulldozer l'immagine del cubo cambia di rango). Questo specchio fornisce una corrispondenza tra i due teoremi. Se cerchiamo di ignorare il linguaggio diverso con cui sono espressi, ci resta la struttura, che è identica, ma riflessa nello specchio (vedi Fig. 5).


Figura 5: Simmetria strutturale tra le dimostrazioni di nocciolo e immagine e di rango e nullità  

Potremmo continuare il discorso con altre strutture algebriche: otterremmo un caleidoscopio di specchi che riflette teoremi leggermente diversi ma essenzialmente identici in un gioco di simmetrie colorate che neanche Escher.

Sorpresa
Una dimostrazione sorprende quando va inizialmente in una direzione diversa rispetto a quella che ci si aspetterebbe; dopodiché, improvvisamente, il risultato appare come se fosse stato tirato fuori dal cappello del mago. L'emozione che prova il matematico in questi casi è spesso intensa; direi anzi che il fattore sorpresa è il più importante nella determinazione della bellezza di una dimostrazione. Oltre gli interi e i razionali, esistono anche i numeri reali, che si rappresentano per mezzo della virgola: la parte intera sta prima della virgola, e ci possono essere finite o infinite cifre nella parte frazionaria dopo la virgola. I numeri reali includono sia gli interi che i razionali. Cantor dimostrò che, a differenza degli interi e dei razionali, non può esistere alcun elenco completo di tutti i numeri reali. Per semplicità, dimostreremo il teorema per tutti i numeri reali tra zero e uno. Facciamo l'ipotesi che un tale elenco esista, e cercheremo di arrivare a dimostrare che non è completo.
Chiamiamo ρ1 il primo elemento dell'elenco; potrebbe essere, che so, 0.193124152, oppure 0.33333… Non è importante quale sia esattamente: dato che vogliamo dimostrare che un tale elenco non esiste, dobbiamo assumere che, quasiasi sia l'elenco dato, esso non sarà completo. Dire "qualsiasi elenco" equivale ad assumerne l'esistenza senza precisarne i contenuti: se riusciamo a fare ragionamenti logici su una tale astratta entità, qualsiasi conclusione logica ne tireremo soddisferà ogni elenco possibile. Chiamiamo ρ2 il secondo elemento dell'elenco, ρ3 il terzo, eccetera. Come ρ1, questi sono numeri reali, ma non ha importanza specificare quali siano esattamente, anzi: è proprio il fatto che restino non specificati che serve ai nostri scopi. Adesso, per mostrare che questo elenco è incompleto, costruiamo un numero reale σ fatto in modo tale che non può essere nell'elenco. Definiamo σ come segue: la parte intera è zero, e la i-esima cifra decimale è la i-esima cifra decimale di ρi più uno. Giusto per fare un esempio, se il nostro elenco è 


allora σ sarà definito come 0.291.... Infatti, la prima cifra decimale di ρ1 è 1, e la prima cifra di σ è 1+1=2; la seconda cifra di ρ2 è 8, e la seconda cifra di σ è 8+1=9; la terza cifra di ρ3 è 0, e la terza cifra di σ è 0+1=1. E così via.
Si nota subito che σ è diverso da ognuno dei numeri che appaiono nell'elenco: nessuna cifra sulla diagonale (in grassetto nell'esempio sopra) è uguale a una cifra di σ, dato che nessun numero, sommato a 1, dà se stesso. Si conclude quindi che σ non è nell'elenco, e che pertanto nessun elenco di numeri reali può contenerli tutti.
Questa dimostrazione sorprende per il risultato: dopo aver mostrato che interi e razionali hanno lo stesso numero (infinito) di elementi anche se i razionali contengono gli interi ma non viceversa, ci si sarebbe potuto aspettare che lo stesso risultato sarebbe stato valido rispetto a razionali e reali, ma questo non è vero. Sorprende anche per la concisione, la chiarezza, e per l'uso inaspettato e creativo delle cifre sulla diagonale. Sorprende infine per aver estratto dal cappello del mago un nuovo numero reale (cioè σ); un numero che, per sua stessa definizione, non appartiene all'elenco, inizialmente supposto completo.

Autoreferenzialità
L'ultimo elemento di bellezza che vorrei citare è l'autoreferenzialità. Ha affascinato molti matematici e ne ha fatto impazzire più d'uno. Ha permesso di arrivare a risultati assolutamente sorprendenti, il più famoso dei quali è sicuramente il teorema di incompletezza di Gödel. Questo teorema risponde a uno dei quesiti di Hilbert: partendo da un sistema di assiomi per i numeri interi, si può ottenere una dimostrazione meccanica per ogni frase vera?
Per cercare di rendere le cose più chiare, immaginiamo un mondo popolato di frasi. Regola importante: nessuna frase ha una lunghezza infinita. Altra regola importante: ogni frase può essere vera o falsa, mai indecisa; inoltre nessuna frase ha un significato implicito o sottotoni emotivi -- ogni frase dice precisamente la cosa che la descrive, e nient'altro. Le frasi si aggirano nel loro mondo, vivono esprimendo sè stesse, e si riproducono, da sole o in coppia, secondo riti fraseo-sessuali chiamati regole logiche. Eccone uno di tipo ermafrodita: la frase "c'è una mela" genera la frase "non è vero che non ci sono mele": la prima frase è vera se e solo se è vera la seconda. Un altro: "ogni volta che esco piove" genera "non c'è una volta che esco che ci sia il sole". Ecco una regola logica eterosessuale: le due frasi "ogni volta che esco piove" e "sto uscendo" genera la frase "piove". In ogni caso, le regole logiche generano frasi vere se e solo se le frasi generatrici sono vere. Alcune frasi sono autoreferenziali: per esempio "io sono una frase" e "non è vero che sono una mela". Un dio uno e bino chiamato Zermelo-Fraenkel dotò il mondo di un certo numero (infinito) di frasi vere per definizione, dette "assiomi". Il sogno di Hilbert era di indurre gli assiomi a generare ogni frase vera attraverso i loro riti sessuo-logici; in altre parole, di riuscire a stabilire che ogni frase vera fosse dimostrabile (cioè generata) a partire dagli assiomi. Gödel distrusse quel sogno, riuscendo a dimostrare che esistono frasi vere ma non dimostrabili. La magica frase costruita da Gödel è autoreferenziale, e dice "io non sono dimostrabile".
La parte della dimostrazione di Gödel che riguarda l'esistenza di questa frase nel mondo delle frasi è molto tecnica. L'idea di base è quella di mostrare che esiste un elenco infinito ma esaustivo di tutte le frasi di quel mondo -- sia quelle generate dagli assiomi (cioè quelle dimostrabili), sia quelle non generabili dagli assiomi. Come per le frazioni, questo elenco è costruito mettendo in corrispondenza uno-a-uno le frasi con gli interi. La corrispondenza di Gödel, però, è talmente geniale che il numero intero corrispondente a una frase può essere interpretato in modo da avere il significato della frase stessa. Manipolando alcuni interi si riesce a costruire un altro intero il cui significato è per l'appunto "io non sono dimostrabile".
Veniamo alla parte più "accessibile" (virgolette ironiche), cioè quella che costruisce una frase vera e indimostrabile. La strategia di Gödel è la seguente: si dimostra che "io non sono dimostrabile" non è dimostrabile, e poi che nemmeno la negazione di "io non sono dimostrabile" è dimostrabile. Siccome nella logica classica una frase o è vera o è falsa, e negare una frase inverte il suo valore di verità, sicuramente una frase tra "io non sono dimostrabile" e la sua negazione è vera. Dato che sono entrambe indimostrabili, ecco che abbiamo costruito una frase vera e indimostrabile (anche se non sappiamo quale sia tra le due).
Per dimostrare che "io non sono dimostrabile" non è dimostrabile facciamo l'ipotesi che lo sia e deriviamo una contraddizione. In effetti questa è apparente: se la frase "io non sono dimostrabile" fosse dimostrabile, sarebbe una contraddizione in termini, dato che la frase dice di se stessa di non essere dimostrabile.
Per la negazione c'è da fare un passo supplementare. Giusto per fissare le idee, dobbiamo dimostrare che "non è vero che io non sono dimostrabile" non è dimostrabile. Come prima, assumiamo che lo sia e cerchiamo di arrivare a una contraddizione (vedi Fig. 6).


Figura 6: Giocare con la frase autoreferenziale di Gödel.

Il pronome "io" può essere rimpiazzato dalla frase intera, ottenendo la frase equivalente "non è vero che io non sono dimostrabile non sia dimostrabile". Siccome il primo e il terzo "non" nella frase sono sullo stesso livello (il secondo è dentro una frase subordinata), la doppia negazione può essere sostituita con una asserzione: otteniamo dunque la frase equivalente "è vero che io non sono dimostrabile sia dimostrabile". Inoltre possiamo sbarazzarci di "è vero che", dato che non cambia il valore di verità della frase che segue; abbiamo infine "io non sono dimostrabile è dimostrabile". Vediamo un po': siamo partiti dall'assunto che la negazione di "io non sono dimostrabile" fosse dimostrabile, e siamo arrivati, con le regole logiche, alla frase "io non sono dimostrabile è dimostrabile". Questo vuol dire che gli assiomi garantiscono che sia una certa frase sia la sua negazione siano entrambe dimostrabili. Questo si riassume dicendo che gli assiomi sono incoerenti. Ma si sa anche che gli assiomi di Zermelo-Fraenkel sono invece assolutamente coerenti, e quindi non resta che concludere che la nostra ipotesi di partenza (che la negazione della frase di Gödel sia dimostrabile) fosse falsa.
Vale la pena fermarsi un momento e considerare l'operazione appena compiuta. Da "la negazione della frase di Gödel è dimostrabile" abbiamo derivato, seguendo regole logico-sintattiche assolutamente inoppugnabili, che "la frase di Gödel è dimostrabile". Questo è possibile grazie all'autoreferenzialità, usata da Gödel in modo geniale. Una persona normale, quando pensa all'autoreferenzialità (ma le persone normali ci pensano?), concepisce "io sono", "io faccio", e altre frasi affermative. Con la frase affermativa non si arriva da nessuna parte: "io sono dimostrabile" diventa "è vero che la frase io sono dimostrabile sia dimostrabile". E poi ci si ferma lí, non c'è più niente da dire. Invece, a pensare all'autoreferenzialità negativa ("io non sono", "io non faccio") si ottiengono derivazioni logiche molto più interessanti, come abbiamo visto.
Personalmente, trovo questa dimostrazioni tra le più belle che conosco. A volerla scrivere tutta si perderebbe forse di vista la struttura logica, che invece è chiara e concisa. La definizione autoreferenziale della frase di Gödel sembra estratta dal cappello del mago; a leggerne i dettagli usando i numeri interi, apparirebbe chiaro l'utilizzo di un metodo ``diagonale'' (come per la dimostrazione sulla non enumerabilità dei numeri reali). C'è un'evidente simmetria tra le ipotesi che la frase sia dimostrabile oppure che lo sia la sua negazione; questa simmetria nasconde tuttavia una sorpresa asimmetrica: di solito, quando si considera una frase, si tende a chiedersi cosa succede nei due casi possibili in cui la frase sia vera oppure falsa. Nel teorema di Gödel questo non succede: ci si chiede invece cosa accade se la frase sia dimostrabile o se lo sia il suo contrario.
Il teorema di Gödel mette in luce la fondamentale ma spesso ignorata differenza tra verità e dimostrabilità: la prima nozione riguarda il significato di una frase, mentre la seconda riguarda la trasformazione sintattica delle frasi seguendo regole meccaniche di logica. Il tassello che completa la mia discussione è che la dimostrazione certifica la verità: una dimostrazione corretta di una frase a partire dagli assiomi fa sì che la frase sia vera se lo sono anche gli assiomi di partenza. E così la sintassi, che persino un computer può capire e manipolare, diventa semantica, per capire la quale è più indicato un essere umano. Ecco perché il sogno di Hilbert era così importante, ed ecco perché il teorema di incompletezza di Gödel è una rivoluzione nella matematica moderna.

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Nicola Vitale


Replica di Nicola Vitale alla critica di Camillo Langone L’arte ostaggio degli opposti estremismi, uscita su Libero del 25 gennaio, a proposito del suo libro Figura Solare - Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere (Marietti, 2011).

Langone contrappone il mio libro Figura Solare, a quello di Mauro Covacich: L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, rilevando come il sottoscritto rifiuterebbe tutta l’arte presente e buona parte di quella passata, mentre Covacich accetterebbe supinamente tutto ciò che il sistema vigente dell’arte contemporanea propone, “opposti estremismi” tra cui, secondo Langone, si dividerebbe l’Italia. Per altro accomuna i due libri in cui vede in entrambi una “antipatia per la realtà”, nella visione di Covacich “gettandola nelle fogne”, in quella del sottoscritto “osteggiandola e colorandola in modo innaturale”. Tralasciando il paragone con Covacich, il cui libro non ho letto, per quanto riguarda il mio Figura Solare, mi sembra che queste contestazioni di Langone siano frutto di equivoci imbarazzanti, fraintendimenti e una buona dose di forzature arbitrarie, a cominciare dalle lamentele per come secondo lui avrei scritto, cioè in “tono saggistico talmente intellettuale da risultare respingente”. Mi riesce difficile a questo punto fargli capire che il mio libro non è scritto in “tono saggistico”, ma «è» un saggio, pubblicato nella collana Saggi d’arte della Marietti. La saggistica esiste, e (con buona pace di Langone) è per fortuna florida, mi dispiace che lui abbia stabilito il livello di difficoltà – e sembra anche di profondità – con cui un libro sull’arte debba essere necessariamente scritto, ponendo il suo personale livello come norma. Diversamente, cambiando ottica e desiderando elevarsi, avrebbe potuto apprezzare un testo che, come scrive Cristina Palmieri nella sua recensione su Milano Arte Expo, è “scritto con un linguaggio preciso, puntuale, … lontano dalla difficoltà di lettura che caratterizza spesso certi accademici”. Ma la questione incomincia a farsi imbarazzante entrando nel merito, per cui sembra che Langone abbia letto un libro completamente diverso da quello che in realtà io ho scritto, il cui aspetto più rilevante – che non è riuscito a cogliere o di cui non glien’è importato molto – è l’affrontare il tema dell’arte contemporanea considerando l’attuale crisi della cultura occidentale, che viene percepita – non solo dal sottoscritto – come momento di passaggio epocale. Questo tema tuttavia ha suscitato il ludibrio del nostro critico che mi accusa di “voler battezzare una nuova era nella storia dell’umanità” gettando nella parodia quello che Vattimo, in Fine della modernità chiama “l’avvento di un’epoca dell’essere” e che costituisce la traccia di rinnovamento radicale non solo dell’arte, linea guida di almeno il 50% del mondo culturale di oggi, tra cui la filosofia esistenzialista, la fenomenologia, le psicologie del profondo, l’ecologia, le medicine alternative, ecc. fino ai mille aspetti dello spiritualismo. Comprendo la posizione di Langone che si dice “innamorato della realtà” che – al di là di tale ingenuità filosofica ed esistenziale – vuole vivere senza farsi troppi problemi. Ma chi vive nel mondo dell’arte incomincia a rendersi conto che ci troviamo sospesi su un terribile vuoto di senso, dove sembra sempre più difficile trovare un valore comune, riflesso d’altro canto di una situazione diffusa dove insieme all’arte, la politica, l’economia, l’istruzione, la cultura, ecc. stanno andando alla deriva, per cui alla possibilità di un confronto costruttivo, si sostituisce la violenza dell’arbitrio. Tutto ciò non sembra sfiorare Langone, che accusa dicendo che a me “sembra non andare bene niente”, là dove ho voluto invece fare un’analisi dell’intera storia dell’arte e dell’estetica alla luce delle problematiche più gravi della nostra epoca, che si ripetono ciclicamente nei periodi di decadenza, per cui tutto diventa possibile senza discernimento, nullificando e ridicolizzando proprio quella “realtà” che il nostro critico percepisce invece come terreno ben solido e che sbandiera come fondamento. E’ strano d’altro canto che Langone, occupandosi tra l’altro di arte, non sia mai incappato in testi che parlano di una diffusa idea di “morte dell’arte” a partire da Hegel e Adorno, fino ai libri più recenti di Danto, Vattimo, Belting (solo per nominarne alcuni tra i più conosciuti) un dibattito che pervade la nostra cultura da decenni nella difficoltà a riconoscere una possibilità di uscita dall’impasse contemporanea. Proprio nell’ottica di superamento di questa impasse ho rilevato quanto di importante mi sembra sia emerso dagli artisti da me indicati: Salvo, Ontani, Knap, Kunc, Angermann, Fridjonsson e Bonechi, che Langone sembra da una parte apprezzare (Fridjonsson è bravissimo, secondo lui), ma che per esigenze di copione deve osteggiare, per altro con motivazioni alquanto deboli come: “oasi di irrealismo, di quadri eterei e sospesi, metafisici, magici, astrusi dal mondo presente”, insomma una descrizione che si potrebbe adattare perfettamente ai quadri di de Chirico, Dalì, Max Ernst, Magritte, Bosch, e molti altri maestri, ma che secondo il suo credo “realista” assumerebbe connotazione negativa, senza ricordarsi che la funzione dell’arte di riprodurre la realtà è stata assunta da centocinquant’anni dalla fotografia. Oltre a ciò non riesce a vedere gli artisti da me proposti come portatori di quella svolta epocale che il mio libro promette perché “ormai sessantenni”, mentre le “nuove leve non sono pervenute”. Ma non menziona il fatto che io veda quel nuovo inizio come un modo radicalmente rinnovato di concepire e fare arte, sorto lungo il Novecento addirittura da Edward Hopper e Balthus, artisti per lo più fraintesi dalla critica moderna, di cui solo ora ci si sta rendendo conto collettivamente della reale importanza. Dunque non si tratta della “scoperta” dell’ultima ora, come piacerebbe al nostro critico, ma di un cambio di paradigma, (dove cinquant’anni non sono nulla) e dove più che “scoprire” nuovi artisti, è indispensabile cambiare ottica con cui guardare l’arte. Un cambiamento che Langone non vuole neanche prendere in considerazione essendo “innamorato della realtà”, cioè vuole “tornare a parlare di bellezza”, come scrive, come se ciò fosse un’evidenza spontanea, e non come è effettivamente oggi qualcosa di assolutamente soggettivo, privo di alcun valore comune. Se dunque l’arte di oggi è “ostaggio degli opposti estremismi”, – come recita il titolo del suo articolo – per cui diventa impossibile “liberarsi dai pregiudizi”, lo è non secondo i contrapposti criteri attribuiti ai due libri che stronca gratuitamente, ma si tratta sempre della solita contrapposizione stereotipata tra classico-romantico, realismo-astrattismo, ordine-trasgressione, destra-sinistra, dunque da una parte la sperimentazione e provocazione a oltranza, che ha ormai perso di senso – come troviamo in certi aspetti dell’arte contemporanea – e dall’altra l’accademismo, il manierismo, il realismo (che Langone ama tanto) banalizzazione di tutti i problemi estetici nell’equazione: bello=reale, reale=bello, che squalifica il 90% dell’arte di tutti i tempi, dal Neolitico ai giorni nostri, passando per tutta l’arte orientale, quella egizia, mesopotamica, africana, quella delle civiltà sudamericane, fino ad arrivare all’arte bizantina, romanica e gotica, quindi falcidiando tutta l’arte moderna e contemporanea.
Il mio libro, Figura Solare, è invece un’apertura creativa all’insegna della conciliazione degli opposti, abbandonando la visione filosofica, linguistica e storicistica dell’arte, ma anche le facili illusioni – tra cui il realismo di Langone –, per ritrovare, come accade sempre all’inizio di ogni ciclo epocale, l’esperienza estetica originaria, quello splendore unificante dell’immagine che nel medioevo è chiamata Claritas, in cui si esprime quel tessuto di rapporti vivi che costituisce l’aspetto sacro dell’immagine e il fondamento di un senso umano del mondo. Tutte questioni che hanno già molte premesse in diversi aspetti della cultura del Novecento e che mi è sembrato abbiano trovato una nuova sintesi concreta negli artisti da me considerati, sintesi che pone interessanti possibilità di sviluppo anche al di là dell’arte. Ma di tutto ciò, cioè della parte essenziale del mio libro, Langone non ha fatto alcuna menzione, passando sopra tutto per fare di un lungo e complesso discorso di approfondimento questioni di lana caprina. Spero davvero che trovi il tempo per scrivere lui, come ci dice in fondo al suo articolo, un libro finalmente equilibrato sull’arte contemporanea, sono sicuro che con la sensibilità, profondità e cultura dimostrate, potrà fare qualcosa di illuminante per tutti noi in quel dibattito sull’arte che oggi è necessario come l’aria che respiriamo.

Nicola Vitale

NOTA

Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano nel 1956. Come poeta ha pubblicato sull’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1987 e 2005), è presente nell’antologia a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi Poeti italiani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004), e ha pubblicato le raccolte La città interna, Primo Quaderno Italiano Poesia contemporanea (Guerini e Associati, 1991), Progresso nelle nostre voci (Mondadori, 1998), La forma innocente (La collana, Stampa, 2001), Condominio delle sorprese (Mondadori, 2008).
Come artista visivo ha esposto in mostre personali e collettive, in spazi pubblici e gallerie private, in Italia, Svizzera, Islanda e Stati Uniti. Hanno scritto del suo lavoro Pierre Restany, Rossana Bossaglia ed Elena Pontiggia.