Nada Pivetta
- A quale momento della tua vita risale la
scoperta della Scultura? Perché hai deciso di fare una tua Scultura? Raccontami
i tuoi ricordi…
Al contrario di altri scultori, non posso dire di essere stata folgorata da
un’opera d’arte in particolare, o di aver sempre desiderato di fare scultura.
E’ stato un graduale avvicinamento verso le arti “figurative” che mi ha portato
a capire che la scultura è il mezzo che poteva permettermi di esprimere meglio
la mia sensibilità verso l’essenza delle cose, dell’ umanità e della natura. Ho
osservato infinite volte le svariate opere di cui venivo a conoscenza
attraverso i libri, durante le visite ai musei, l’interesse per le vite degli
artisti, così affascinanti e complesse ma allo stesso tempo semplici e
rigorose; nel frattempo ho avuto la possibilita’ di provare a modellare
disegnare dipingere… Che scoperta è stata creare una scultura! Il trasporto, la
gioia e la sorpresa di come e di cosa potevo sentire, comunicando un pensiero
una riflessione o solo una sensazione, mi ha emozionato e entusiasmato tanto da
darmi l’energia di continuare a studiare, sperimentare e cercare. Tu potresti
chiedermi allora perché non farlo con la pittura o con il video… E’ che le
caratteristiche della scultura, la presenza di una materia che impone la sua
fisicità, la tridimensionalità, la forza di gravità, gli svariati punti di
vista, sono per me una sfida, ma allo stesso tempo dialogo. Questi sono stati e
sono ancora motivo della mia scelta.
- Il panorama dell’arte attuale è molto
eterogeneo. C’è una tendenza generalizzata a privilegiare forme d’arte come la
video arte o la fotografia; salvo rare eccezioni, il lavoro degli scultori non
è facilmente presentato ai fruitori d’arte contemporanea. Si tratta, secondo
te, di un abbandono di questa tradizionale disciplina artistica a favore di
altri media, oppure di una tendenza che più che corrispondere alla realtà dei
fatti, mette in evidenza un gusto formatosi tra i curatori delle mostre, i
critici d’arte e gli artisti che in questo clima cercano di inserirsi?
Per quanto riguarda gli artisti spero che in quanto tali non si facciano
influenzare dalle tendenze create dai “mercanti d’arte”, e che l’elevato numero
di video artisti o fotografi sia dovuto al fascino suscitato dai nuovi mezzi
tecnologici, alla necessità di usare un linguaggio diretto, di essere dentro la
quotidianità, dentro il nostro paesaggio più di quanto lo può essere un pezzo
di legno o una manciata di terra. Le Gallerie di Arte Contemporanea, a parte
qualche rara eccezione, sono guidate dal consiglio di critici d’arte, e dalle
scelte di questi ultimi viene creato il mercato dell’arte e la conseguente
“cultura”. Alla scultura è da sempre riservato un piccolo spazio per un
problema culturale e di educazione alle forme d’arte e alle loro applicazioni.
La maggior parte delle persone, che non gravita intorno al mondo dell’arte,
appena si parla di scultura, pensa al Discobolo, ai monumenti equestri o ai
monumenti funebri! Effettivamente dalla fine dell' Ottocento non si è più vista
molta scultura …In ogni caso, come c’è un ritorno alla figurazione, c’è anche
un ritorno alla materia, alla forma e alla riflessione: così non c’è da
preoccuparsi.
- Quali sono gli artisti che più hanno
stimolato la tua fantasia ?
Sembra una domanda semplice, quasi di rito…ma…andando per ordine: il primo
che mi ha, come dire, “scioccato” e’ stato sicuramente Alberto Giacometti per
la sensibilità verso l’umanità e la sua affermazione di essere stato anni e
anni su un ritratto e di non essere mai riuscito a modellarlo così come lo
vedeva questo ha dell’incredibile, e poi la sua umiltà…Altri grandi scultori
dell’epoca moderna: Rodin così passionale, Brancusi l’esempio di un uomo che ha
dedicato tutto alla scultura perche’ solo dentro al suo “ambiente “ era vivo,
il grande Arturo Martini, Marino Marini…..Successivamente, ho cominciato un
processo a ritroso innamorandomi deli Egizi, dei Greci, quale sogno di
bellezza, gli Etruschi così vicini alla vita, Arnolfo di Cambio, Donatello,
Michelangelo… e i pittori: Cimabue, Giotto , Piero della Francesca, Klee ,
Rothko… La lista sarebbe molto piu’ ampia… Quale stima e condivisione verso
questi artisti.
- Il nostro sito si occupa in egual misura
di Poesia e Arti Visive; che rapporto hai con la poesia scritta? C’è qualche
autore, in particolare, che hai trovato in sintonia col tuo ”spirito“ di
scultrice ?
Leggo poesia con trasporto. Non mi ritengo una conoscitrice, data la
vastità dell’opera poetica … Trovo che la scultura sia intimamente legata alla poesia
per le possibilità di interpretazione o meglio per le diverse vibrazioni di
chiari scuri per la prima e di cadenze accenti, suoni, per la seconda. Mi
azzardo anche ad aggiungere: per i silenzi di entrambe. Leggo poesie di Cesare
Pavese, di Octavio Paz, di Pablo Neruda, di Michelangelo, di Alda Merini, di
Emily Dickinson, Leopardi…
- Ora vorrei sapere cosa c’è per Nada
nella propria scultura. Qual è l’intima visione che hai della tua arte?
Nel mio lavoro ci sono io e quello che mi circonda: dai paesaggi
metropolitani agli spazi aperti come le risaie; le colline della Toscana, le
montagne… I miei sogni; l’uomo e la donna, i loro limiti e le loro debolezze,
le tensioni del singolo, la forza dell’esistenza e la sua precarietà. I colori
che riempiono… la luce che modifica… E poi mi piacerebbe sapere cosa ci vedete
voi!
Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci
NOTA
Nada Pivetta, scultrice, è nata a Milano
nel 1970. Si è diplomata presso l'Accademia di Belle Arti di Brera ed è stata
assistente di alcuni artisti, tra cui Salvatore Fiume e Aligi Sassu.
Vive e lavora a Milano
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2000)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Stefano Reboli
Educare gli occhi
- Il tuo percorso artistico trascende lo
specifico di una sola disciplina per abbracciare diversi aspetti delle arti
visive; hai cominciato a fare arte prima della laurea in architettura, e dopo
esserti laureato hai fondato diverse associazioni inerenti il design, ora mi
sembra di capire che stai concentrando la tua attenzione sulla grafica.
La mia curiosità mi ha costretto a fare delle discipline un utilizzo
strumentale. Mi impegno in tutte le tecniche delle arti visive, con e senza
maestria, ma mai ho concesso ad una disciplina di diventare il motivo del mio
lavoro. Questo significa che pur dipingendo, scolpendo... non ho mai fatto
della pittura o della scultura...
Non riesco a ricordare quando ho iniziato a fare arte, sicuramente ne sono
consapevole dai tempi dell'università. E' stato in quel periodo che ho potuto,
criticandolo, definire il mio comportamento. Ora ho metodo e sono molto
disciplinato. Forse per questo e per motivi contingenti, sono occupato in molte
attività. Il mio sistema, che nulla ha a che fare con la creatività e
l’istituzionalità, risulta efficace là dove abbondano le possibilità di
trasformare, mischiare, rovesciare, capovolgere le cose. Subendo la necessità
di inventare, ho trovato nel design un campo giochi sempre aperto. Si tratta di
design "artistico", non di product design. Per promuovere questa
maniera di fare oggetti e arredamenti l'associazione culturale “aattak”
organizza ogni anno una mostra, “Desart”, a cui sono invitati a partecipare
tutti coloro che si impegnano in questa attività (http://www.aattak.com/).
La grafica é necessaria nella pratica e nella comprensione di tutti gli
aspetti delle arti visive, inoltre, come la fisica, é fatto che riguarda tutte
le cose. Mi ha sempre interessato ed è l'unica forma d'arte che si compra al
supermercato. Mi sono scoperto estasiato davanti ad una confezione di Manzotin
e compro le barre di cioccolato Nippon per la perfezione della loro confezione.
Ho appena iniziato un progetto (http://www.pandarei.com/)
che prevede una parte commerciale ed una di ricerca. Intendo produrre una
copiosa collezione di edizioni grafiche dai contenuti più diversi.
- Per il progetto
"2villasforsweden" hai scelto la Svezia e l’utopia di un luogo
ideale; in cosa consiste questo progetto "inconsueto" d’architettura?
Il progetto non è utopico, si fonda piuttosto sul concetto di “action
architecture”. Sinteticamente, si tratta di eliminare tutto ciò che fa dell'architettura
un continuo compromesso. L'idea è quella di riassumere il progetto in poche
idee-guida e di prendere il resto delle decisioni in corso d'opera.
In questo progetto (http://www.2villasforsweden.com/)
sarò impegnato in prima persona nella realizzazione di un capanno, unità
abitativa minima ma sufficiente, nelle foreste della Svezia centrale. La scelta
del luogo, dove non esiste la polvere, si contrappone al senso di sgomento che
mi assale quando sfoglio una rivista di architettura e scopro che il nostro
futuro abitativo é dipinto in scenari drammatici, sintetici, grigi e affollati.
Ritengo che la ricerca in architettura abbia preso una strada pericolosa e
sterile, mi auguro che torni presto a occuparsi della qualità della vita
piuttosto che dello stile.
- Osservando il tuo lavoro, si può
riconoscere il ruolo importante che attribuisci al periodo dell’infanzia;
sembra che per te questo sia uno dei momenti più alti del percorso umano...
L'infanzia é l'unico momento in cui tutti gli uomini hanno un comportamento
artistico. Questo comportamento é chiaramente inconsapevole, ma rappresenta per
me la migliore definizione dell'arte. Sperimentare, definire, ordinare tutto
ciò che ci capita con metodo originale. Inventare.
- Il lavoro fotografico inedito che
presenti per il nostro sito, descrive poeticamente il mondo delle plastiche; è
un ciclo di fotografie che molto deve al tuo immaginario di designer. Come e
perché nasce questo tuo lavoro?
Questo lavoro nasce dalla passione per le cose, deve più al mio essere
collezionista che al mio immaginario di designer. La fotografia come esperienza
astratta della realtà è una forma d'arte che mi diverte esplorare, la tecnica
consente molta espressività, la praticità dei mezzi ne fanno uno strumento
malleabile.
L'idea alla base di queste fotografie è molto semplice, addirittura banale,
e riguarda la possibilità di assegnare un valore estetico, poetico a oggetti
apparentemente anonimi consumabili e consumati. Il fine, forse questa volta
utopico, è quello di educare gli occhi ad attribuire bellezza a cose,
situazioni, che apparentemente o realmente non ne contengono.
Cerco di essere in armonia con tutto. Ma non sempre ci riesco.
- Un altro uso che fai della fotografia, è
quello di documentare i tuoi frequenti viaggi. Mi piacerebbe che ci
congedassimo con il racconto, da parte tua, di un episodio che ritieni
significativo avvenuto in uno di questi tuoi viaggi.
Non mi ritengo capace di tradurre in forma letteraria le mie esperienze di
viaggio, il mio rapporto con le parole é conflittuale. Ti posso dire quanto
ritengo significativo il fatto di viaggiare. Trovo che sia molto stimolante e
rigenerante, è una esperienza che dovrebbero provare tutti, soprattutto quelle
persone troppo preoccupate di dare un senso alle cose piuttosto che di fare
cose sensate.
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Stefano Reboli è nato a Milano nel 1973.
Ha avuto un’infanzia felice, che gli ha dato la possibilità di specializzarsi
nel gioco. Interessato nelle cose piuttosto che nelle parole, spaventa sua
madre rompendo il servizio di porcellana e rifiutandosi di imparare l’alfabeto.
Spinto dalla sua curiosità, si dedica alla sperimentazione. Attratto da tutto,
eccetto che dai libri, passa il suo tempo innamorandosi di tutto ciò che bussa
ai suoi occhi. Praticando la critica, costruisce un suo metodo. I suoi studi
finiscono nel 1998 con una laurea in Architettura. Da allora si cimenta, con o
senza successo, nell'architettura, nel design, nella grafica, nella fotografia
e nell'arte. E’ alla costante ricerca dell’invenzione.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2006)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Chiara Lampugnani
Spazio onirico
Queste nuove opere di Chiara Lampugnani spostano il suo fare artistico nei
territori dello spazio, aggiungendogli nuove valenze e mostrandoci le
peculiarità di un'offerta di simboli e di continue evocazioni. Ha del
meraviglioso la differente caratterizzazione dello spazio ogni volta che se ne
fa esperienza: sostanzialmente è una questione d'immaginari individuali che
vanno a formare nell'insieme una visione del profondo nella rappresentazione
della propria epoca e di ciò che si sente essere la propria storia d'uomini.
Dall'analisi delle opere di Chiara si possono fare alcune riflessioni di ordine
più generale che qui anticipo. Una diretta conseguenza dello sviluppo artistico,
è la ridefinizione di un più elevato immaginario collettivo. Una speranza che
mi pare dovuta (anche per la mia osservazione diretta dell'intensità di questo
sforzo del creare), è l'affermazione, nella società, del lavoro
"globale" artistico; ancor meglio, la speranza che nutro è quella di
un'affermazione del creato artistico sui macchinari di costruzione
strumentalizzata dell'immaginario collettivo, e sull'uso che prevalentemente
viene fatto della televisione come tramite di perpetuazione dell'ignoranza
collettiva e della relegazione dell'immaginario collettivo a situazioni e forme
di desiderio stabilite aprioristicamente dalle sopraffine forme del potere.
Ritornando a Chiara, è certo lo stretto collegamento che la sua opera ha con
aspetti dell'inconscio e della fantasia. E' altrettanto evidente la volontà
della creazione nel sociale, attraverso questo medium, di un fertile humus
mentale prevalentemente adibito all'ospitalità, che s'intende diffondere tra la
gente, del "luogo comune", della formazione di una presunta intelligenza
nella vittima. Questo è uno dei valori della ricchezza artistica: uno soltanto
tra i risultati della ricerca. Nella scelta che Chiara fa, nel collocare questi
suoi recenti lavori entro luoghi del nostro passato, si avverte l'attenzione al
contesto architettonico proveniente dalla sua formazione, realizzando un
fertile rimando tra la disciplina architettonica e il suo immaginario
d'artista. Possiamo parlare a questo proposito di installazioni, ma forse
questa definizione risulta riduttiva. Si può però sostenere, ed è visibile, che
Chiara utilizza il neon in questi suoi recenti lavori. Frequente è stato
l'utilizzo del neon in arte, compreso quello che viene fatto originalmente da
Chiara Lampugnani, anche rispetto ad esempi del passato recente. Una tra le
bellezze che l'arte può serbare a chi la sente, è la mancanza di ripetitività
emozionale: a proposito di neon, l'impiego che ne ha fatto Fontana è stato
esemplare e ha creato nel suo uso sperimentale un certo tipo di partecipazione
emotiva nello spettatore, molto differente, ad esempio, dal magistrale uso che
ne ha fatto Mario Merz. Altro discorso si può fare per la sacralità della luce
(neon) nell'opera di Flavin: la Chiesa Rossa di Milano viene considerata il suo
testamento e l'idea della luce colorata viene richiesta a Flavin e pattuita col
parroco della chiesa milanese.Altra sensazione ancora ci dà la partecipazione
emotiva ad uno o più lavori di Bruce Naumann o Joseph Kosuth. Tanti uomini,
tanti neon, ed uno diverso dall'altro. Chiara è passata da un lavoro artigianale
(i suoi precedenti lavori ad arazzo) ad un lavoro di sola concezione mentale,
che elabora con l'ausilio del computer e fa realizzare scrupolosamente secondo
le sue intuizioni.Queste opere vengono installate di volta in volta nei
contesti che le sono offerti, arricchendosi e definendosi progressivamente.Sono
oggetti archetipi che prendono in ogni contesto forma differente. Ora mi dice
che intende utilizzare l'ausilio di forme sonore, per accompagnare
l'installazione sospesa delle sue opere. La sensazione che provo dalla visione
del suo lavoro è di un'alienazione dell'oggetto nel contesto. A tal proposito,
la domanda che mi pongo è se gli oggetti che propone non siano in realtà gli
abitanti di questo pianeta, cioè noi che li guardiamo e ancor di più chi non
può vederli, in quanto privo della consapevolezza del valore culturale di un
popolo e di conseguenza posto in uno stato vitale di maggior alienazione. Chiara
lo fa di proposito, mette un triciclo di neon nell'aria, lo stesso triciclo che
significa per ognuno di noi l'infanzia, che è altrettanto un'immagine di
tenerezza e che ora sosta nel vuoto con una sua luce propria. C'è anche un
retaggio culturale nel suo esprimersi, quello di un modernismo diventato, nel
tempo che ci separa da quelle utopie, archetipo. Le capita di immaginare di
continuo, poi mi telefona e, quando può, fa realizzare. L'anima delle sedie che
utilizza ha soltanto la matrice delle belle sedie razionaliste, diventate nel
contesto dello spazio quasi dei fantasmi umani. Gli oggetti che propone hanno
una regola dell'accostamento, che non può essere sottovalutata: tutti hanno
forte valore simbolico, ma appartengono a epoche differenti della storia
dell'uomo. La scala ad esempio è preistorica, la sedia del Bauhaus no.Così
disposti, i suoi oggetti danno da pensare a chi li guarda, rendendo
all'osservatore la giusta destabilizzazione che dà origine ai processi del
pensiero; anche in questo l'arte fa un servizio all'intelligenza umana, al
contrario della falsa rassicurazione del continuo show televisivo. E per questo
motivo posso concludere dicendo che è presente nel lavoro di Chiara questa
funzione di spia del sistema sociale, di osservazione disincantata e diretta
del reale attraverso la forza simbolica dell'arte.
Cristiano Mattia Ricci
Testo critico pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2001)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Giancarlo Mannetta
Giancarlo Mannetta è un fotografo "nascosto" che per anni, e con
molta coerenza, ha portato avanti un suo dialogo quotidiano con le ragioni
della fotografia.
Cerca da sempre, con molta umiltà, di creare un discorso personale. Con il
passare del tempo ha iniziato a riuscirci.
La sua natura non eccentrica lo ha portato prima a percorrere un confronto
con alcune tematiche tradizionali della fotografia; un'indagine dai risultati
spesso molto efficaci che lo ha visto premiato decine di volte in concorsi
regionali e nazionali.
Dopo un lungo periodo caratterizzato da tematiche naturalistiche, è tornato
con altrettanta attenzione ad osservare la città; dedicandosi nel frattempo a
nuove forme di sperimentazione fotografica (Immagini dall'immaginario).
A mio parere, il suo percorso più recente sta spostando le ragioni della
sua ricerca verso una fotografia sempre più creativa e d'autore; verso una
nuova forma di libertà acquisita. Le fotografie dei portfolio Still Life e
Metropolis lo dimostrano.
- Come architetto hai praticato poco; come
fotografo molto e per anni quasi quotidianamente. Quando ti sei appassionato alla
fotografia?
L’interesse per la fotografia nasce all’inizio degli anni ’80 e prende
corpo progressivamente. Sino al 1990 rimane il mio secondo hobby, dopo il rock;
successivamente diviene il mio principale interesse, tanto che nel 1991 decido
di laurearmi con una tesi sulla fotografia di architettura.
- Quale storia della fotografia è la tua
storia, quali autori?
Nel 1987 mi avvicinai per la prima volta ai lavori dei fotografi più noti,
grazie alla vasta sezione di fotografia disponibile presso la biblioteca di
Sesto San Giovanni. Sin dall’inizio il mio interesse fu rivolto all’utilizzo
espressivo del colore e al paesaggio come tematica principale, meglio se
interpretato secondo canoni formali e geometrici, ai confini con l’astrattismo.
Infatti tra i primi autori ad ispirarmi c’è Franco Fontana, la cui influenza è
evidente nel mio primo lavoro, Frammenti Urbani, realizzata tra il 1990 e il
1992. Altri autori del periodo ad attirare il mio interesse sono stati Say
Maisel, Pete Turner, Harald Sund, Tennis Stock, e Al Salterwhite. Ma è
senz’altro Ernst Haas il fotografo che mi ha influenzato in modo più profondo e
duraturo: alcuni elementi del suo stile (colore forte e uso del “mosso“) sono
stati sempre presenti nelle mie immagini e lo sono ancora di più nella mia
produzione più recente.
Successivamente il mio interesse si è spostato verso la fotografia di
natura, e inevitabilmente la mia visione ha perso originalità, pur guadagnando
in rigore estetico e professionalità. All’interno di questo genere i settori
verso i quali mi sono orientato, e che mi hanno fruttato i maggiori
riconoscimenti, sono il paesaggio e la macrofotografia. In questo periodo,
autori per me fondamentali sono stati Ansel Adams (il maestro del paesaggio in
bianco e nero) e i più attuali John Shaw, Tim Fitzharris, Franz Lanting e Galen
Rowell. Da qualche anno, come sai, sono tornato ad una fotografia più creativa
senza riferirmi intenzionalmente a qualche autore in particolare, anche se le
prime influenze (Haas e Turner soprattutto) a volte saltano fuori.
- Hai scelto di guardare il mondo e
raccontarlo; in cosa trovi dei motivi d'interesse?
Qualche anno fa avrei risposto dicendo che i miei motivi di interesse vanno
ricercati nel mondo della natura; ora, pur mantenendo un interesse prevalente
per l’ambiente (naturale e urbano), sto cercando di uscire dalla logica dei
“generi” per indirizzarmi verso una ricerca globale nella quale il valore
estetico “aggiunto” dal fotografo è in grado di esaltare anche l’oggetto più
banale. In questo senso è eloquente il portfolio Still Life. Quindi i miei
interessi sono rivolti a forme e strutture interpretabili attraverso un uso
mirato della luce e del colore.
- Come nasce Still life? La sua improvvisa psichedelia mi riporta al rock. In
quale momento è stato concepito?
Nel 2003 ricevo un bando di concorso dove, oltre al tema libero, è proposto
il tema fisso Acciaio. Decido di partecipare e realizzo una vasta serie di
immagini rappresentanti delle comuni posate, riprese a distanza ravvicinata.
Come interventi creativi utilizzo lo sfuocato e il colore intenso prodotto
dalle superfici di CD e da pannelli riflessi sulle posate stesse. Pur non
vincendo il concorso rimango entusiasta del lavoro e continuo le riprese,
utilizzando altri oggetti trasparenti come boccette di profumo e lampadine, che
porteranno ai risultati più interessanti. In questo caso la struttura degli
oggetti quasi si dissolve e viene ricostruita dagli incredibili cromatismi
prodotti dalla scomposizione della luce ad opera della superficie dei CD. Un
fenomeno fisico viene utilizzato per scopi creativi. Questo lavoro è successivo
a Paesaggio Lombardo (2001-2002), che di fatto inaugura la mia nuova stagione
creativa. La sua atmosfera, che hai definito psichedelica, nasce dalla forte
attrazione che provo per i colori saturi, soprattutto se accostati secondo le
regole della complementarietà.
- Quale denominatore comune vuoi che emerga
dalla tua ricerca?
Il mio metodo di lavoro in fotografia si basa sulla scelta, tra le molte
soluzioni possibili, di quelle poche che meglio esprimono le qualità visive del
soggetto in termini di colore, struttura, forma e incidenza della luce. Come ho
già affermato, il colore intenso, lo studio del movimento e, (nella fotografia
di ambienti), la scelta di prospettive ampie, costituiscono gli elementi
principali del mio stile. Inoltre sempre di più prevale la tendenza a costruire l’immagine sin nel minimo dettaglio.
- Che importanza ha il rapporto personale
con altri fotografi, la tua partecipazione attiva all’interno di
un’associazione come il GFS*?
La frequentazione di un club fotografico è importante per le possibilità e
i contatti che vengono a crearsi, nonché per la struttura e le attrezzature
disponibili. Inoltre è il luogo ideale per lo scambio di idee e la
realizzazione di mostre ed eventi che sarebbe impossibile realizzare da soli.
Il nostro club è molto attivo, e annovera diversi autori validi, orientati
anche loro verso una fotografia di ricerca. E’ un ambiente molto stimolante, a
differenza di altri club che tendono a isolarsi e quindi a scomparire.
- Ti sei concentrato poco sulla presenza
umana; di più sugli scenari naturali (Portfolio in bianco e nero, Bretagna) e
artificiali (Metropolis). Tra gli esseri viventi, hai fotografato
principalmente insetti (Il popolo a sei zampe).
Mi accennavi però di un inedito, recente interesse per la presenza umana fotografata. Puoi parlarmene?
Mi accennavi però di un inedito, recente interesse per la presenza umana fotografata. Puoi parlarmene?
Per quanto riguarda la macrofotografia, penso che le farfalle, le mantidi e
soprattutto le libellule siano soggetti di una bellezza straordinaria: mi piace
fotografarli con le tecniche e la metodologia dei ritratti in studio, quindi
utilizzando sfondi adeguati e soprattutto luci di effetto. Per quanto riguarda
i paesaggi, la resa prospettica e la luce naturale sono fondamentali; negli
ambienti naturali, anche le atmosfere stagionali fanno la differenza tra uno
scatto documentario e una foto suggestiva. Inoltre, avendo ripreso a lavorare
sul paesaggio urbano ho deciso di inserire anche la figura umana in movimento,
associando ad essa anche un colore dominante (il rosso su tutti). Si tratta in
pratica di studi che condensano gli elementi tipici del mio modo di
fotografare.
- Spesso hai raccontato la città; qual è il
tuo pensiero su questo fenomeno?
Ami o critichi questa forma millenaria di convivenza, e in particolare le nostre città europee?
Nonostante la città sia da sempre soggetta a fenomeni di estremo degrado, la mia formazione come architetto, unita alla tipica curiosità del fotografo, mi permette di trovare sempre degli elementi di interesse nel paesaggio urbano. Osservando la città in un’ottica di reinterpretazione creativa piuttosto che di documentazione, e avendo sviluppato delle tecniche di elaborazione personali (La città delle fabbriche), mi è ancora possibile lavorare su questo tema dopo quindici anni senza ripetermi. Il mio interesse è rivolto alle opere più vistose, come i complessi del terziario e i centri commerciali, caratterizzati da uno stile a metà tra il postmoderno e l’Hi tech. Trovo che le città europee siano più interessanti di quelle italiane, semplicemente perché esiste il coraggio di “osare” di più e di inviare con decisione un segnale di sfida e di rinnovamento (basti pensare al quartiere della Dèfense di Parigi).
Ami o critichi questa forma millenaria di convivenza, e in particolare le nostre città europee?
Nonostante la città sia da sempre soggetta a fenomeni di estremo degrado, la mia formazione come architetto, unita alla tipica curiosità del fotografo, mi permette di trovare sempre degli elementi di interesse nel paesaggio urbano. Osservando la città in un’ottica di reinterpretazione creativa piuttosto che di documentazione, e avendo sviluppato delle tecniche di elaborazione personali (La città delle fabbriche), mi è ancora possibile lavorare su questo tema dopo quindici anni senza ripetermi. Il mio interesse è rivolto alle opere più vistose, come i complessi del terziario e i centri commerciali, caratterizzati da uno stile a metà tra il postmoderno e l’Hi tech. Trovo che le città europee siano più interessanti di quelle italiane, semplicemente perché esiste il coraggio di “osare” di più e di inviare con decisione un segnale di sfida e di rinnovamento (basti pensare al quartiere della Dèfense di Parigi).
- Recentemente avete organizzato una mostra
su Mario Giacomelli, cosa ti piace del suo lavoro?Come intendete valorizzare la
Fototeca di Sesto San Giovanni?
Mi piace soprattutto il suo lavoro sul territorio, spesso ripreso dall’alto
e spinto ad un grafismo notevole anche grazie alle tecniche di stampa.
Giacomelli è uno dei pochi veri artisti della fotografia, che ha portato avanti
il suo discorso visivo senza compromessi.
La Fototeca rappresenta un patrimonio notevole, considerando che sono
presenti molti dei più grandi fotografi italiani con stampe “vintage”, cioè
originali degli anni ’50 e ’60.
Abbiamo in programma una grande manifestazione di fotografia a cadenza
annuale (Sesto Immagine è stata la prima edizione), all’interno della quale
troverà posto il materiale della Fototeca (quest’anno oltre alla personale di
Giacomelli abbiamo curato una collettiva sugli anni ’50 in Italia).
- Cosa ricordi di Tranquillo Casiraghi**?
Quali aspetti umani? Quali fotografie in particolare?
Ricordo di aver
conosciuto Tranquillo Casiraghi in occasione del concorso fotografico sulla
montagna indetto dalla sezione del Club Alpino Italiano di Sesto. Per anni
siamo stati entrambi in giuria, e all’inizio le nostre opinioni in merito alla
valutazione delle immagini erano spesso contrastanti. Successivamente, dopo
aver visto delle mie immagini in una mostra allo Spazio Arte, mi invitò ad
esporre alla Libreria Presenza, nel 1999.
Ricordo di lui la cordialità e la profonda cultura fotografica. E’ stato il
principale artefice della creazione della Fototeca di Sesto, cominciando ad
acquisire materiale fotografico già dalla fine degli anni ’50. Sono indicativi
del suo lavoro i reportages eseguiti a Sesto e sul delta del Po negli stessi
anni.
- Che importanza ha la tecnica nel tuo
lavoro? Quale supporto può offrire, quali stimoli ti ha dato?
La conoscenza della tecnica fotografica è la condizione necessaria per
utilizzare al meglio gli elementi propri del linguaggio fotografico, quali lo
sfuocato, il “mosso”, l’uso di prospettive estreme, le esposizioni multiple, e
tutte le tecniche di post-produzione. Questo è il concetto di base sul quale
sono strutturati i corsi di fotografia che tengo presso il nostro club e varie
altre associazioni. La tecnica non è quindi fine a se stessa, ma serve ad
esprimersi creativamente. Ogni fotografia deve possedere una componente
creativa, perché in sostanza è una questione di scelte, che possono essere
viste in successione ma che tutte assieme influiscono sul risultato finale.
Uno scatto nel quale tutto o quasi è lasciato al caso, sul quale il
fotografo non esercita il necessario controllo, è un’immagine nata morta.
Purtroppo nell’ambiente fotoamatoriale questo tipo di fotografia è frequente, e
spesso si tenta anche di giustificarla. E’ una questione di capacità
progettuale, che spesso manca. Un’immagine va, nel possibile, costruita, cioè
previsualizzata, operando tutte le scelte ottimali e cercando di prevedere
l’andamento delle variabili indipendenti dalla volontà del fotografo.
NOTE
* Associazione di
fotografia fondata nel 1979 da Antonio Grassi, attuale Presidente e fotografo.
E’ un club molto attivo, che organizza mostre ed eventi. Per le attività svolte
il club ha ricevuto nel 1999 l’onorificenza di Benemerito della Fotografia
Italiana da parte della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.
** Fotografo sestese di fama internazionale; scomparso nel 2005.
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Giancarlo Mannetta nasce a Milano nel 1963. Nel 1991 si laurea in Architettura al Politecnico di Milano, con una tesi sulla fotografia d’architettura, comprendente un portfolio di proprie immagini sul tema. Un successivo sviluppo di tale lavoro dà origine alla prima personale, Frammenti Urbani, del 1992. Successivamente si dedica alla fotografia naturalistica, privilegiando il paesaggio e la macrofotografia. Attualmente si è spostato verso un ambito più sperimentale e creativo. Ha al suo attivo, oltre a numerose mostre personali e collettive, molti premi in concorsi nazionali, tra cui quelli indetti dalle riviste Oasis, Orobie e dalla Società Italiana di Scienze Naturali di Milano, oltre al trofeo FIAF Lombardia. Dal 1996 tiene regolarmente corsi di fotografia per conto di varie associazioni, tra le quali la LIPU (1998).
Giancarlo Mannetta nasce a Milano nel 1963. Nel 1991 si laurea in Architettura al Politecnico di Milano, con una tesi sulla fotografia d’architettura, comprendente un portfolio di proprie immagini sul tema. Un successivo sviluppo di tale lavoro dà origine alla prima personale, Frammenti Urbani, del 1992. Successivamente si dedica alla fotografia naturalistica, privilegiando il paesaggio e la macrofotografia. Attualmente si è spostato verso un ambito più sperimentale e creativo. Ha al suo attivo, oltre a numerose mostre personali e collettive, molti premi in concorsi nazionali, tra cui quelli indetti dalle riviste Oasis, Orobie e dalla Società Italiana di Scienze Naturali di Milano, oltre al trofeo FIAF Lombardia. Dal 1996 tiene regolarmente corsi di fotografia per conto di varie associazioni, tra le quali la LIPU (1998).
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Michela Grienti
- Innanzi tutto vorrei che tu mi tracciassi,
per sommi capi, il tuo percorso di avvicinamento all’arte, e mi definissi le
tappe fondamentali dei tuoi studi artistici.
Il disegno è stato sempre presente, un gioco serio dall’infanzia. Ricordo,
con un senso di libertà gioiosa, i grandi pupazzi bianchi che i miei ci
lasciavano tracciare sulle pareti, prima di reimbiancare; e la domenica
pomeriggio eravamo impegnati a dipingere i fondali per il nostro piccolo teatro
dei burattini, mentre la radio o il giradischi trasmetteva buona musica. Era
normale visitare mostre e musei e in casa avevamo libri d’arte di buone
edizioni: li sfogliavo e immaginavo delle storie. L’ora di educazione artistica
era sempre al termine della mattinata: dato che fatico a svegliarmi, era quella
che seguivo con maggior lucidità.
Durante l’estate del penultimo anno di liceo, un corso di pittura presso
l’Accademia di Perugia mi ha fatto capire che il gioco era diventato
indispensabile; di seguito è venuta l’iscrizione all’Accademia di Brera, i
corsi alla Scuola Internazionale di Grafica a Venezia, la collaborazione con
studi di restauro e decorazione. Contemporaneamente ho coltivato la musica ed
ora partecipo volentieri ai progetti di scrittori, musicisti e compositori.
- Per quali motivi ti sei dedicata , e ti
dedichi ancor oggi alla pittura astratta? Quali sono le motivazioni interiori
che ti spingono verso questo tipo di arte, e quali significati personali e/o
generali che in essa ravvisi?
Spesso viene definito astratto ciò che in realtà è non-figurativo: Giotto è
un astrattista formidabile e le sue figure sono nitidamente caratterizzate,
Burri è un artista non figurativo e la sua opera è un inno alla concretezza.
Credo che le categorie figurativo e non-figurativo, concreto e astratto siano
strumenti di catalogazione utili agli studiosi e alla critica. Il bisogno di
definire e schedare è un falso problema per chi deve costruire un oggetto
d’arte: può diventare una gabbia pericolosa, un vischio per il pensiero, una
forzatura intellettuale in cui sentirsi in dovere di rientrare…a rischio di
perdersi. Quando lavoro preferisco lasciarmi guidare dalla necessità: cerco di
mettere in gioco quanta più parte di me mi è possibile, e con la maggiore
intensità che mi è possibile. Con questo spirito guardo ad ogni opera d’arte,
cercando di cogliere quanto l’artista ha investito di sé: sento che è questa la
qualità che traccia il limite tra passatempo e impegno, tra mestiere e
professione, tra edonismo intellettuale ed espressione. Ogni artista deve dare
libero sfogo alla propria necessità, trovandole il mezzo e la forma
appropriati: a volte, purtroppo, il tempo di una vita non basta.
- Parlami dei tuoi approfondimenti sul
colore: Perché questo aspetto della pittura ti interessa particolarmente?
Tutto quello che mi circonda, gli oggetti che tocco, io stessa, gli altri,
sono luoghi, porzioni di spazio in cui il colore è condensato, si è raggrumato
lì almeno per un po’. Una cosa prima è rossa, poi la identifico come telefono o
altro; un viso è quell’incarnato o quelle iridi, poi riconosco la persona. E il
fenomeno continua a variare, con la luce, con la qualità dell’aria, con il mio stato
d’animo. Perché il colore è una materia senza confini, mutevole, inafferrabile:
mi illudo di aver capito, di aver agguantato qualcosa, in realtà è lui che
cattura me. In un momento cado nelle sue trappole decorative, mi lascio
ammaliano i suoi accordi, costruisco strutture carenti d’impianto, sbilancio
tutti i pesi dell’immagine: il colore mi scivola sotto gli occhi e la
composizione crolla come un castello di carte.
Tento di difendermi studiando…Mi interessa l’aspetto lirico, ma anche
quello percettivo della dinamica di profondità e di contorni, della
trasparenza: le teorie del colore, anche le più specificamente tecniche, sono
affascinanti. Il colore respira tutto un suo mondo: per quanto mi documenti, mi
sento sempre solamente sulla soglia di una nuova porta. Per fortuna, anche qui,
le mie radici sono di sostegno: i periodi in laguna, a Venezia, con l’acqua che
riflette e raddoppia l’intensità luminosa; i teleri enormi dei maestri sui
soffitti delle Scuole; le tarsie di marmo sul pavimento della Cattedrale e
sopra la testa un cielo ininterrotto di metri e metri quadri di mosaico d’oro.
La mia infanzia è stata una ubriacatura di colore, di ottima annata, della
qualità migliore.
- Tu ti dedichi anche allo studio del
canto e alla pratica corale, ed inoltre lavori all’interno di una struttura musicale
in cui ti occupi nella fattispecie di organizzazione di concerti da camera. Mi
interessa capire in che rapporto stanno per te arte visiva e musica, e queste
tue molteplici esperienze artistiche.
Musica e pittura sono sempre state sorelle per me, non ricordo un periodo
in cui io non le abbia praticate entrambe. Una volta, scherzando, ho detto ad
un’amica che la pittura mi svuota l’anima e la musica me la riempie: non è
un’affermazione tanto lontana dalla realtà. Ho studiato per anni le ricerche inerenti
i rapporti tra suono e colore, un tema che già nel Rinascimento affascinava
scienziati ed artisti, una serie di stimoli che moltiplica all’infinito le
possibilità di espressione. L’intersezione dei linguaggi e delle tecniche
affina la sensibilità di chi opera, e al pubblico vengono offerte diverse
sfaccettature di uno stesso soggetto, più conferme di uno stesso messaggio: il
respiro si fa più ampio, la mente può cogliere il miracolo delle armonie.
Nel coro trovo un equilibrio alla solitudine cui la pittura mi obbliga. Mi
piace il lavoro concentrato e appartato, ma mi entusiasma il gioco di squadra:
partecipare ad un’attività collettiva mi costringe ad una sana disciplina, mi
insegna a convivere, a confrontarmi e scontrarmi, ad accettarmi ed accettare, a
difendermi ed a godere degli altri e delle differenze. In coro ho imparato che
esiste sempre un punto di incontro e lo si trova, purché si sia impegnati a
cercarlo e volerlo, tutti seriamente, con la medesima intensità: quando accade
non c’è oro che mi ripaghi altrettanto. E poi il coro è “la voce del Fato”: il
coro non si tocca.
- Poiché anch’io sono sempre stata
affascinata dalla storia e dalla cultura medioevali, vorrei che tu mi parlassi
del tuo lavoro più recente, l’installazione realizzata in settembre presso la
Certosa di Garegnano, che fa riferimento ad alcune tappe della Via Crucis e
propone una serie di figure di angeli ciascuna delle quali contrassegnata da un
simbolo del martirio. So che per realizzare questo lavoro ti sei documentata su
testi della Scolastica, ma vorrei mi parlassi più diffusamente di questa tua
ricerca.
In realtà l’installazione fa riferimento alla pratica devozionale delle
Arma Christi, istituita da Papa Gregorio Magno nel VI secolo, abolita nel Settecento e sostituita
dalla Via Crucis, nella forma in uso ancora oggi. Se ne trova documentazione
abbondante in tutta la storia dell’arte antica, dalla medioevale alla barocca:
la tipologia dell’Uomo di dolori, del Cristo in Pietà, dell’Albero dei Frutti
della Passione, della Schiera celeste degli Armati.
Si tratta di una forma di riflessione religiosa sulla Passione, mediante la
meditazione sugli oggetti-simbolo che attraversano il cammino di Cristo,
dall’episodio dell’Unzione in Betania fino alla Crocifissione e alla
Deposizione. Sono tutte cose che egli ha maneggiato e visto sin dall’infanzia,
che lo accomunano a qualsiasi essere umano, esaltando l’aspetto concreto
dell’incarnazione: oggetti che, nell’ultimo terribile tratto della sua
esistenza, gli si rivoltano contro, divenendo strumenti per un processo iniquo,
una tortura inutile e la condanna a morte. Ogni cosa chiede di ricordare il
momento in cui è stata utilizzata, tutte invitano alla riflessione che può
arricchirsi degli spunti della narrazione tratta dai testi evangelici, dalle
profezie dei brani biblici, dai salmi messianici. L’immaginazione dilata il
pensiero: la sosta della meditazione non ha più un tempo stabilito, come
davanti alle stazioni della Via Crucis.
Le Arma Christi sono il tentativo di conciliare un messaggio colto con una
forma linguistica accessibile anche alla più semplice delle menti, facendo leva
sulla sua abilità immaginativa. Acquisire la capacità di dare un senso al
dolore: è il messaggio salvifico della Croce, che rammenta alla creatura umana
il suo ruolo in disegni molto più grandi di lei. Le Arma Christi come il
Carroccio di Ariberto: qualunque sia l’esito della battaglia, cerca con lo
sguardo la Croce, per ringraziare o per trarre conforto.
Per quanto riguarda il lavoro di documentazione, oltre che al patrimonio
delle immagini, ho attinto ai testi della meditazione bizantina e ortodossa, ai
Vangeli canonici e a quelli apocrifi. E’ un patrimonio sconfinato che
continuerò a visitare, perché il mio esercito di angeli è ancora lontano
dall’essere completo: gli elenchi contano una lunga lista di oggetti
rappresentabili, l’installazione crescerà col tempo. Sarei felice di trovare
ogni anno, nella Settimana Santa, una chiesa ospite per poter esporre questa
milizia, ogni volta arricchita di nuove presenze.
- Cosa ti interessa e ti piace della
pittura contemporanea e dell’arte attuale in generale?
- Cosa pensi dello stato attuale dell’arte
in Italia e nel mondo? Vorrei che tu esprimessi la tua opinione circa la
situazione locale e globale, e mi dicessi se tutto ciò è di qualche tuo
interesse, o se preferisci portare avanti il tuo cammino senza riferimenti al
presente, magari invece al passato. Come ti rapporti a ciò che ti circonda,
artisticamente?
Con curiosità e con stupore. Viviamo in un mondo dove la comunicazione è
diventata una forma di bombardamento, dove ciò che un tempo era permesso a
pochi oggi è alla portata di molti. La produzione artistica attuale è
vastissima: si resta storditi dal caleidoscopio delle possibilità. Cerco di non
avere pregiudizi, né riguardo ai linguaggi, né riguardo alle epoche, né
riguardo ai soggetti: c’è sempre da imparare. Nel mio operare sento la
necessità del rapporto con la materia, non riesco ad escludere il senso
tattile; sento distanti da me le ultime correnti di video arte e arte digitale:
barerei se mi costringessi a questi tipi di linguaggio. Tento però di restare
aggiornata e seguirne le evoluzioni, senza smettere di incontrare e scontrarmi:
comunque in cerca di lezioni e conferme. MI allontano solo quando vedo che il
mezzo tecnico è un espediente non giustificato o si sostituisce al messaggio, o
quando un’opera è così sofisticata che mi sembra diventi un gioco per mettere
alla prova i sensi dello spettatore, stuzzicando i suoi riflessi, senza offrire
nulla alla sua anima. Il secolo scorso ha messo sul tappeto il problema del
linguaggio: una svolta straordinaria, un salto per la coscienza purché il
linguaggio, divenuto il messaggero di sé stesso, non porti l’intelletto a
prevalere in quello che per me rimane un “gioco a tre”: di istinto, di
razionalità, di lirica saldamente bilanciati nel dire. Vivo il rapporto tra
artista e pubblico come uno scambio, un dialogo silenzioso per superare i dati
contingenti, anche quelli dell’opera che è la scusa per dire altro o, meglio,
l’Altro.
Quando sento parlare di morte dell’arte, di superamento della pittura, mi
chiedo a che cosa ci si riferisca: l’uomo ha tutti i modi e i mezzi che crede
più opportuni per coltivare la propria immaginazione, seguirne i percorsi e
costruire narrazioni dei suoi rapporti col mondo. Non mi sembra giusto
applicare in modo confuso le categorie dell’anima a quelle dell’intelletto e
viceversa, spacciando le strategie del mercato e della moda per criteri
operativi di giudizio: questo ingenera solo pregiudizi. Mi sento responsabile
per le immagini che propongo: credo che gli artisti siano responsabili del
benessere dell’anima collettiva, come i medici e gli scienziati lo sono per il
corpo, i religiosi e i filosofi per lo spirito. Credo che una società civile
non possa escludere nessuna di queste tre componenti dell’uomo, mentre mi pare
che l’anima venga sempre più trascurata: i guasti sono sotto gli occhi di
tutti, però molto pochi lo notano. Se si uccidono i corpi si è accusati di
omicidio, ma se si uccidono le anime non fa nulla, perché non occupano spazio e
muoiono in silenzio, insieme alla fantasia, all’immaginazione, al gusto e alla
capacità di distinguere la qualità della vera arte. La Pop Art ci aveva messi
in guardia: la vera arte ha sempre un carattere profetico. Il nostro paese ha
la materia prima di un’eredità artistica formidabile, che tutto il mondo ci
invidia, non solo per quantità e qualità di opere, ma per esempi di
professionalità: purtroppo la nostra incoscienza è pari solo alla nostra
presunzione.
- Per concludere mi piacerebbe che questa
intervista servisse a dare un’idea della tua, diciamo così, “visione del
mondo”.
- Qual è la tua chiave di lettura del
mondo che ti circonda? L’arte ti ha fornito e ti fornisce delle risposte ad
interrogativi importanti? È per te una fonte di conoscenza e quindi ti infonde
sicurezza, o piuttosto ti crea dei dubbi e degli interrogativi in più sul senso
dell’esistenza?
Trovo il mondo che mi circonda, la realtà visibile come quella invisibile,
affascinante per l’infinita molteplicità che mi propone. Mi stupisce la varietà
delle specie e dei luoghi che i regni naturali offrono, mi sgomenta l’intreccio
saldo tra i macro e microcosmi: quando ci rifletto avverto l’energia potente
nella materia, come un magma che lega l’universo, e mi prende un senso di
vertigine Provo un timore reverenziale a volte accompagnato da una grande
felicità e, sempre comunque, la coscienza del pulviscolo e dell’instabilità di
tutto, di un movimento di trasformazione incessante. L’arte mi obbliga ad una
percezione più sottile: a leggere i dettagli del contingente sempre come
inseriti in disegni più grandi, alla costante contemporaneità di
passato-presente-futuro; mi costringe ad esaminarmi, a misurarmi, a riflettere,
a meditare: mi dà un compito ed un modo per attraversare la vita. Spesso penso agli
uomini della preistoria, ai i nostri progenitori incalzati da preoccupazioni
primarie, concrete e repentine, costretti costantemente a convivere con paure
enormi: eppure l’esigenza di rappresentare li occupava, li impegnava, li
rassicurava, dava senso alla loro esistenza. L’impronta della mano umana, sulla
parete di pietra, nel buio delle caverna, mi emoziona come il più antico fra i
capolavori. Le esigenze mutano, la cultura si affina, la tecnologia
progredisce, “cambiano le maschere”: l’impulso primo rimane, come la prima
sillaba.
Intervista curata da Laura Montingelli
NOTA
Michela Grienti è nata a Milano nel 1963.
Si è diplomata nel 1986 all’Accademia di
Belle Arti di Brera. E’ stata assistente ai corsi di litografia presso la
Scuola Internazionale di Grafica di Venezia, e ha insegnato Discipline
pittoriche nelle scuole superiori e Cromatologia nelle scuole professionali
d’arte; collabora con studi di restauro e grafica e edizioni d’arte.
Svolge la propria attività pittorica
nell’ambito della ricerca fono-cromatica, collaborando con musicisti e
compositori.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Andrea Pedrazzini
- Questa serie di tue opere recenti, qui
presentate, rappresenta un'altra faccia del tuo variegato lavoro d'artista.
Come nasce una Nebula e qual è l'intimo processo dal quale scaturiscono queste
tue silenziose opere?
Ogni singola Nebula è prima di tutto il frammento di un progetto. Il mio
lavoro artistico trova senso - prima di tutto - nell’idea stessa di progetto,
cioè nell’attitudine paradossale di costruire e tenere in piedi un’architettura
ideale impossibile, di sistematizzare le eccezioni (come facevano i
Patafisici), di catalogare e mettere in fila ciò che in realtà non può non
sfuggire ad ogni classificazione sensata. Non riuscirei mai a realizzare un
disegno od un qualsiasi intervento artistico che non facesse parte di una
“serie”, di una complicata processione di varianti e di piccoli, successivi
spostamenti di senso. L’arte è il senso ( o l’informazione visiva o…) che
–silenzioso come un animale notturno – semplicemente si sposta. Da qui va lì.
Da un sussurro passo ad un altro sussurro: lo spostamento, il ponte analogico
che si stabilisce tra partenza ed arrivo, quello è l’opera d’arte… La
collezione delle varianti è allora per me il senso profondo del fare arte;
parlo di bagliori o sussurri seguiti da altri bagliori o sussurri, che poi –
raccolti, così come si raccolgono le foglie d’autunno – si aggregano in
un’opera, una qualsiasi, una che è un pezzetto della storia interminata, foglia
tra le foglie, ma che custodisce una specie di piccola luce accesa: un inizio
di senso…l’arte è l’astuzia di Pollicino e - insieme - è la nominazione
perpetua del mondo da parte di Adamo; dentro il bosco non-narrativo e
labirintico del mondo o, meglio, camminando sul suo tappeto di foglie, ogni
tanto riconosco un ammasso, un segnale intravisto, un brano di senso che si sta
formando e, riconoscendolo, lo ricreo. Lo salvo dall’afasia o dallo strepito di
folla, perché lo inserisco in un brandello di frase, che è la “serie”, il
progetto che dà senso al tempo. La mia arte è fatta di tempo che si mostra.
Ogni Nebula (che in concreto è un intervento, talvolta sviluppato in tempi
diversi, a colori acrilici su carta stampata ) nasce da questa sorta di
riconoscimento, di incontro (casuale) dello sguardo con un frammento di senso
involontario, nascosto o implicito. Eppure, se è vero che la serie spiega il
dopo con il prima ( e più ancora con il durante ), se è vero che ogni tassello
riceve significato dall’insieme immaginato, è anche vero che il riconoscimento
avviene per spalancamento d’occhi e sobbalzo di pensiero, per via cioè di
meraviglia: ogni singola Nebula tende al meraviglioso. La meraviglia da Nebule
è però da intendersi nella sua forma primigenia, come stupore atterrito di
fronte a ciò che vive senza di me, di fronte all’irriducibilità radicale di
un’altra presenza nel mondo che mi guarda.Dunque l’artista è un raccoglitore,
un collezionista di sguardi e le Nebule sono i frammenti di una sua collezione,
una collezione senza capo né coda ma anche intrisa di emozione fino alla
cianosi da ritenzione d’aria…Gli altri miei progetti, in particolare il De
Bestiarum Naturis ( 999 tavole a china di animali fantastici) e i Disegni del
Penultimo (disegni a grafite su carta), seguono una logica simile. Il DBN poi,
iniziato nel 2000 ed arrivato a circa un terzo del suo percorso, esplora in
profondità non solo i meccanismi che, a partire dalla tarda antichità, hanno
presieduto all’ideazione-variazione degli animali fantastici, ma ancor più
esplora l’idea stessa di “serie” che cresce sulle varianti, cercando di verificare
visivamente l’insufficienza del primo che diventa senso forte dell’ultimo, il
feedback dell’ultimo che rinomina il primo. Insomma, nelle mie opere, in un
certo modo, c’è più pensiero che visibile… Anche i Disegni del Penultimo sono
una serie ma in modo differente: si tratta di un’esplorazione libera, senza uso
di mappe mentali o mete da raggiungere, della analogia; guardo cosa succede,
insomma, dentro una serie lunga e complessa di disegni consecutivi, dove un
disegno genera l’altro ( da qui l’idea di Penultimo, cioè di quasi-fine ) e
dove l’insieme – forse – genererà un senso per leggere l’intera opera.
Ma i Disegni del Penultimo sono principalmente un libro. Per costruire una
serie sbilenca, procedendo a tentoni, ho spesso bisogno di una cornice più
forte, altrimenti volerei via al primo alito di vento o alla prima nostalgia di
pigrizia. Il libro è l’oggetto/cornice che mi rassicura, perché permette ogni
viaggio (autentico) ed ogni ritorno (Illusorio). Adoro fare libri, libri
d’artista… libri che siano avventure tra loro diversissime, usando i pennini,
gli acrilici, il computer, mescolando qualsiasi tecnica con qualsiasi materiale
o cercando il rigore di un’astrazione concettuale, di una singola frase
perfetta... Tutto mi appartiene ed io appartengo a tutto. Ma questa
appartenenza al tutto è una scelta profonda e necessaria; non c’entra con una
superficialità eclettica o con una attitudine “piccolo-barocca”: piuttosto
nasce dalla ricerca rigorosa, dal bisogno di dare un senso profondo a ciò che
faccio. Un senso che viaggi sotto lo stile e sotto le tecniche. Credo poi che
questo senso sotterraneo nasca un bisogno etico o di eticità anche nell’arte e
nella comunicazione…
- Una delle caratteristiche che ti
appartiene, è l'amore e la pratica della poesia; questo luogo virtuale
nasceproprio dal desiderio nostro di avvicinare quanto più possibile queste due
discipline artistiche. Quale interazione si crea nel tuo lavoro tra questi due
diversi e infiniti riferimenti? Infiniti?
Sì, infiniti… ma solo nel senso che la ripetizione seriale delle varianti,
che sostanzia la mia arte. come nella musica minimale non tende a creare una
fine del processo ma anzi tende a sviluppare il processo creativo, ad
ingigantirlo, variandolo all’infinito. Insomma io non credo in una poesia che
tenda o ricerchi l’infinito, in nessun senso. Lo trova solo come necessaria
moltiplicazione di variazioni. Credo, anzi, che le peggiori truffe (e non solo
in arte) si basino proprio sulla grande seduzione dell’infinito, del destino
eccezionale o del misterioso, del capolavoro inarrivabile o dell’ispirazione
oltreumana. Mi sono lontanissimi coloro che si sentono messaggeri di queste
idee e che sono invasati dall’arte… Io invece penso all’arte come ad un
problema meraviglioso ma doloroso, una difficoltà che ho con me stesso e con il
mondo… Odio l’arte innocuamente “spirituale”, così come odio la poesia
innamorata di se stessa, narcisista; non concepisco l’idea che si possa fare
arte senza portarsi dietro, e dentro, un’idea profondamente tragica della vita.
Parlo di attitudini, ovviamente, e non di stili o tecniche… L’artista per me è
prima di tutto un intellettuale consapevole e non un invasato o un prescelto.
Non è un sacerdote della bellezzaconsolatrice ma un sop-portatore di dolore,
che lo elabora anche attraverso la bellezza.In questo senso, soprattutto
nell’ultimo periodo, mi sento di applicare la scrittura a dei progetti
artistici complessi, magari all’interno delle opere delle Buioproduzioni o
nella redazione di un libro o altro… Le Nebule sono in realtà degli scrigni per
parole, veicolate da bagliori e colori… Il rapporto tra visivo e verbale è per
me, che vengo anche dal mondo dell’illustrazione, estremamente stimolante e
fertile. Riuscire a produrre oggetti visivi creativi capaci di contenere o di
conservare dei testi verbali altrettanto creativiè un obbiettivo costante della
mia arte, forse ne è il nucleo più caldo: disegno o produco oggetti per
conservare delle parole, delle frasi che altrove non avrebbero senso…i miei
disegni e le installazioni delle Buioproduzioni sono delle macchine visive che
permettono la sopravvivenza di parole… Certo, talvolta un testo poetico nasce
dopo che l’opera visiva ha già preso forma, arriva cioè “in ritardo”; ma anche
così il testo trova un senso forte, perché diventa una sorta di seconda chiave
di lettura dell’opera, un metatesto sbilenco che allarga la percezione generale
dell’opera. Integrata nel visivo, la parola trova una potenza diversa… è come
tracciare un sentiero che, per quanto incerto e bifido, si inoltri in un
tappeto di foglie …e può anche succedere che la poesia, nata all’interno del
progetto per un’opera, prenda una strada diversa e si stacchi dalla sua
destinazione, perché riesce a creare senso da sola…
- Nel 1997 hai fondato con Umberto Parenti
il progetto Buioproduzioni (http://www.buioproduzioni.com/); vuoi raccontarci
da cosa nasce questa vostra collaborazione e più nello specifico di alcuni
aspetti che ritieni importanti del vostro lavoro?
La collaborazione con Umberto nelle Buioproduzioni è una avventura
straordinaria, anche se spesso problematica e difficile. Un’avventura autentica
e profonda, che ci porta a progettare e realizzare opere che nessuno di noi
due, separatamente, avrebbe mai immaginato. Gli aspetti importanti del nostro
lavoro sono le singole opere, non più di una quindicina finora, perché le opere
delle Buioproduzioni portano con sé un tasso così decisivo di teoria,
progettazione e pensiero che ognuna diventa un mondo a parte, con una sua
storia individuale. Diventa, per noi, il monumento di un determinato luogo
mentale della nostra collaborazione. Realizzare un’installazione è per noi
un’operazione così emotiva, intensa e rara che ogni volta sentiamo il bisogno
soffertodi ricominciare in qualche modo da zero, di ripensare tutto e di
eliminare, per quanto possibile, ogni inerzia creativa. Anche se Umberto ed io
ci diciamo spessissimo che possiamo e dobbiamo lavorare anche con qualsiasi
altro materiale, ci ritroviamo sempre a lavorare principalmente con il legno,
che è un materiale vivo, caldo, pieno di affetti e storie e che si può lavorare
sia con grande precisione sia in modo più grossolano e brutale; è un materiale
magnifico. Su di esso la luce scivola dolcemente e si raccoglie in pozze quasi
umide di chiarori o crea bagliori in fuga dal buio, schiaffi di visibile e
labirinti d’improvvise intuizioni… Come vedi, le nostre installazioni sono dei
luoghi dove la luce, timida o sfacciata che sia, si inoltra all’interno, rivela
un nucleo caldo che produce senso e affezione e dove lo spettatore, seguendo la
luce nei suoi diversi rivoli, scopre lentamente “di cosa è fatta” l’opera, qual
è il bandolo della matassa; scopre la luce che, attraverso le forme che rivela
e nel modo in cui le rivela, diventa pensiero emozionato…
- Qual è la tua opinione sull'arte di
oggi? Quali artisti del passato recente hai più amato?
Siamo in un’epoca molto stimolante, straordinariamente ricca di arte ma
anche straordinariamente povera di ruolo per l’arte; sembra che l’arte, che
ovviamente non serve a nulla, abbia per questo perso da lungo tempoogni ruolo
sociale che non sia il mercato e l’intrattenimento; l’arte cioè non viene vista
come un momento ( anche collettivo ) di lettura creativa del mondo e di
apertura di nuovi spazi possibili, ma viene usata cinicamente per fare soldi o
superficialmente per di-vertire la gente dal problema del senso… Dunque mi
piacciono gli artisti più profondi e riflessivi, capaci di giocare lentamente
con l’arte, con la stessa serietà con la quale giocano i bambini… gli artisti
capaci di farsi carico del problema del senso, senza delegarlo ad altri
(critici o pubblico che siano): Burri e Chen Zen, tanto per cominciare ma anche
alcune esperienze dell’arte concettuale, Baruchello e la poesia visiva, ma
considero di un passato recente anche le Wunderkammern secentesche, gli
incisori del XVIII secolo che, per primi, hanno spezzato la finestra ottica
moltiplicando gli spazi interni al disegno ecc. I riferimenti e gli amati,
magari per una sola opera, sono tanti: la mia tradizione visiva è piuttosto
complessa e si mescola con autori letterari, con i poeti e le persone che ho
conosciuto ed amato… non c’è differenza, sono un unico flusso creativo di
memoria…
- Tornando alla poesia: ti chiedo di
introdurci brevemente alla lettura di questo tuo bello e
"strampalato" poemetto.
Grazie. E’ un testo nato per fare da colonna sonora ad un’opera delle
Buioproduzioni, Il rifugio del bianco, opera che però non è stata ancora
realizzata; quasi subito, dopo le prime strofe così cantilenanti, il testo ha
cominciato a vivere di vita propria, staccandosi dal progetto dell’installazione
e diventando una sorta di lucido delirio profetico, di slancio verboso
apocalittico e di ebbra esaltazione da catastrofe… dentro questo delirio, però,
si attuano dei processi per cui ogni tanto le parole si combinano in frasi
sensate, in ondate ricorsive di parole attaccate al vero che, se anche
sprofondano subito in una sorta di magma dislessico, rimangono come echi
sotterranei e vengono riprese, variate, commentate fino ad arrivare
all’inciampo finale che, nella testarda e drammatica ripetuta, si ferma senza
fermarsi, si ferma perché ha toccato l’infinita afasia del mondo…
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Andrea Pedrazzini vive e lavora a Milano. Suoi disegni sono stati pubblicati, a partire dal 1987, dal Sole 24 Ore, Alfabeta, La Gola, Slow, La Stampa, L'Unità, L'Atelier du Roman, L'Autre Journal, The Wall Street Journal, Chicago Tribune, Linea d'Ombra e molti altri. E' stato illustratore e redattore della rivista di poesia contemporanea Baldus. Ha partecipato a varie esposizioni collettive e rassegne d'arte contemporanea. Nel 2000, insieme ad Umberto Parenti, ha fondato le Buioproduzioni, atelier di arte contemporanea.
Intervista pubblicata su www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Antonio Sammartano
- Quali sono le tematiche che proponi con
la tua pittura? Di quali elementi della realtà che vivi si nutre il tuo
immaginario?
Non è facile per me presentare, attraverso una spiegazione razionale, le
scelte di un itinerario di lavoro che si è sviluppato nel tempo e che non offre
la linearità di un progetto narrativo precostituito e preordinato. Una
riflessione sulle cose fatte, sulle diverse esperienze maturate, mi rivela, più
che un percorso pianificato, un insieme di tappe. Queste tappe, quasi delle
isole, costituiscono un metaforico arcipelago di situazioni che pur nella loro
specificità, coesistono e dialogano grazie ad una serie di comunanze e
corrispondenze di carattere contenutistico e formale.
- Opere recenti come Fluido magico,
Ipnotica o Mercuriale, da te realizzate nel corso di quest'anno; ma anche tuoi
lavori meno recenti, offrono allo spettatore con molta chiarezza un' idea
artistica che molto ha a che fare con un concetto di purezza e d'assoluto.
Artisticamente parlando, viene spontaneo rapportare il tuo lavoro alla storia
recente e ininterrotta dell'arte astratta. Come ti rapporti rispetto a quella
tradizione del moderno; avverti un'appartenenza del tuo lavoro a quegli ideali
e ne senti ancora l'attualità?
Artisti come Rothko o Pollock mi hanno trasmesso sicuramente degli input
importanti.Qualche anno fa trovandomi per la prima volta davanti ad una grande
opera di Rothko, non vedevo una tela con della pittura sopra, ma ai miei occhi
si apriva uno squarcio su un´altra dimensione, dove sotto una calma apparente si
intuiva una grande energia trasversale in continua evoluzione.Non mi piace la
pittura, mi piace ciò che attraverso essa si può raggiungere. L´arte è alchimia
tra materia, respiro, luce, ricerca di qualcosa di più prezioso che non la
forma o la decorazione. Nel novecento l´astrazione ha sviluppato dei grandi
interrogativi che hanno spinto oltre l´apparire alla ricerca dell´essere. Credo
che il suo linguaggio abbia dato risposte più congeniali ai bisogni di quel
periodo e di quella società. Oggi nell´epoca dei "reality show", il
suo messaggio ha una responsabilità in più, ma non deve essere un´esercizio di
stile, che la banalizza in una forma di arredamento domestico.
- Nel 1999 hai realizzato un'installazione
di cui riportiamo le immagini sul sito, aprendoti come ti è consueto a media
differenti dalla più tradizionale pittura. Mi piacerebbe che ci raccontassi
come è nato questo tuo lavoro e più precisamente in cosa è consistito.
L´installazione (costruita in un grande capannone industriale) era composta
da due elementi circolari. Un elemento di legno (che oscillava lentamente) era
appeso alla parete, l´altro formato di terra e pigmenti era sistemato sul
pavimento. Col passare del tempo i visitatori hanno distrutto il cerchio di
terra (alcuni in maniera consapevole altri inconsapevolmente). Alla fine la
terra è stata ricompattata in piccole sfere e all´interno di esse sono state
introdotte delle piccole radio che trasmettevano in lingua araba. In questo
lavoro ho ricondotto una parte della mia energia alla memoria storica del
mediterraneo alla sua percezione, attualmente distorta e sfumata, ma che
continua a illuminare il nostro pensiero.
- Stai contribuendo alla fondazione della
collezione d´arte religiosa contemporanea denominata DIART per la diocesi di
Trapani in qualità di curatore del progetto. Vuoi spiegarci a questo proposito
di cosa si tratta e cosa diventerà il progetto DIART?
La Collezione d´arte Religiosa Contemporanea della Diocesi di Trapani è
nata concretamente nel 2001 da un´idea di Don Liborio Palmeri , direttore del
seminario vescovile di Trapani e studioso d´arte contemporanea. In questi due
anni abbiamo acquisito circa 130 opere di artisti italiani e stranieri. Si
tratta nella maggior parte di giovani artisti che usano diversi medium, si va
dalla pittura alla fotografia all´installazione alla scultura e al video. Abbiamo
notato che il rapporto tra l´artista e il tema religioso è oggi molto
controverso, ma sicuramente più "sincero" di alcuni anni fa.
Inaugureremo la DIART ad aprile e credo che sarà una sorpresa per tutti.
- Una fotografia come Ultravision mostra
chiaramente l´affinità e la coerenza tra le tue opere pittoriche e quelle
fotografiche, il rimando è immediato. Quando decidi di passare da un media ad
un altro e perché?
Sono molto istintivo e quindi non programmo il "passaggio".
Raccolgo materiale fotografico per anni, poi improvvisamente cerco di definirlo
distorcendone il senso reale attraverso le elaborazioni con i vari programmi di
grafica. Anche con la pittura avviene la stessa cosa, inizio le opere e dopo
sei -sette mesi (ma a volte anche anni) intervengo definitivamente.
- La tua formazione è duplice; hai
iniziato con un corso di studi in architettura e concluso con un diploma in
pittura presso l´Accademia di Brera di Milano. Hai collaborato recentemente con
lo studio d´architettura dell´architetto trapanese Mancuso; cosa c´è nel tuo
lavoro d´artista di questo contatto che continui ad avere con l´architettura?
Gli studi d'Architettura mi hanno sicuramente aiutato molto a capire il valore
di un progetto e a percepire l'essenza dello spazio in cui agire. Nella
radiografia dei miei lavori, dalla pittura alla foto all´installazione c´è
sempre l´indagine spaziale e il continuo misurarmi con esso. Attualmente
continuo a lavorare con diversi studi di architettura della mia citta´ e uno
studio di design a Baltimora. Con l´architetto Mancuso abbiamo terminato da
poco l´idea progettuale del piano del colore della città di Marsala,
un´esperienza significativa e molto stimolante che speriamo abbia un seguito
nell´attuazione del progetto. In particolare io mi sono occupato di analizzare
i colori naturali attraverso la raccolta di campioni (pietre, sabbia,
piante...) e di estrapolare i colori utilizzabili per la realizzazione dei
prospetti di tutti gli edifici della città e del suo territorio.
- Raccontaci i tuoi progetti d´arte
futuri, oppure a che cosa di recente stai lavorando.
Il progetto della DIART è molto impegnativo e lavoro molto in questo senso,
mentre continuo a collaborare attivamente con la Galleria d´arte contemporanea
di Trapani Quadreria del lotto di cui sono stato direttore artistico negli anni
passati. C´è un altro progetto a cui tengo molto, Studio Blu, open space per
giovani artisti italiani e stranieri. Mi piacerebbe moltissimo che Trapani
diventasse una città attiva nell´arte contemporanea, attraverso mostre,
incontri, dibattiti, anche se purtroppo con rammarico devo constatare che
l´amministrazione comunale attualmente non percepisce questa mancanza. Credo
che si possa sopperire a questo con l´energia e la voglia di fare, ed è per
questo che ho deciso di vivere nella mia città e dare il mio contributo.
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Antonio Sammartano è nato a Erice nel 1967.
Ha frequentato la Facoltà di Architettura
di Firenze e l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 1995 ha tenuto la
sua prima personale alla galleria Morone di Milano, e nel 1996 ha rappresentato
l’Italia a Germinations 9, Biennale europea dei giovani artisti.
Da allora è presente in numerose collettive in Italia e all'estero.
Da allora è presente in numerose collettive in Italia e all'estero.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2004)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Michael Oberlik
- LA PITTURA, perché...
Intravedo, nella forza espressiva della
tua pittura, delle affinità con quei movimenti artistici di ripresa della
disciplina pittorica attuati verso la seconda metà degli anni Settanta in area
tedesca dai Neue Wilden. Pur se di natura prevalentemente astratta, i tuoi
dipinti mi sembrano infatti poco affini alle matrici dell'informale storico e
più vicini, per sensibilità e gusto, a pittori come A.R. Penck, Markus Lüpertz,
Karl Heinz Hödicke, Antonius Höckelmann, Jörg Immendorff. Ti riconosci nelle
istanze di ripresa della pittura di quegli anni? Ritieni che possa essere
ancora utile ribadire, oggi, l'importanza della pittura nell'arte
contemporanea?
Dal 1976 al 1980, periodo in cui muovevo i miei primi passi d'artista, sono
rimasto impressionato oltre che dagli artisti da Lei citati anche e soprattutto
dal pittore Emil Schuhmacher e dall'artista austriaco Markus Prachensky. Nel
1980 i miei quadri erano più "spontanei" più "ariosi", colore
puro su carta bianca. Poi negli anni '90 il fondo trattato è diventato una mia
esigenza e sono nati i primi "segni significanti", una ricerca che mi
impegna ancora. Per quanto riguarda la seconda domanda, io penso che la pittura
non sarà mai poco importante e nell'epoca dei nuovi media l'importanza della
pittura crescerà! Vede, la pittura nasce nella testa, transita per il cuore e
viene trasferita dalla mano non certo da un computer o da una videocamera e le
peculiarità dell'artista sono quasi una firma.
- RACCONTARE...
Le nuove opere che presenti in questa
mostra, Raccontare, fanno parte di un ciclo concettualmente strutturato come
un'opera letteraria; più precisamente, è come se si trattasse di un unico
grande libro. Che rapporto hai con le altre arti, e cosa intendi raccontare con
questo tuo "grande libro visivo"?
Per me tutte le arti sono importanti, da giovane ho fatto parte di una band
rock, suonavo il piano e la chitarra inoltre scrivevo moltissimo, suonavo e
scrivevo perchè volevo "raccontare". Anche il contenuto di un quadro
racconta qualcosa, chi li osserva deve appropriarsi del contenuto,
interpretando come crede "i segni significanti". Fare ciò vuol dire
leggere qualcosa che parla di me, ma che può aiutare il lettore a
"leggersi".
- AUSTRIA E ITALIA
Tu abiti in Austria, a Linz, ma sei spesso
in Italia, dove hai diversi contatti con il mondo dell'arte. Quale è lo
"stato di salute" dell'arte contemporanea in Austria, e quali
differenze riscontri tra gli operatori del settore nei due paesi?
Secondo me la situazione in Austria è meno "aperta". E' molto
difficile entrare nelle gallerie d'arte, dove espongono sempre i soliti artisti
che fanno parte di un determinato circuito, in Italia mi sembra che la
situazione sia migliore grazie forse ad una sensibilità tutta vostra, anche se
il mercato dell'arte è in crisi ovunque.
- ARTE CONTEMPORANEA INTERNAZIONALE
Ti senti attratto dalle più recenti
evoluzioni dell'arte contemporanea internazionale?
Quali sono gli artisti, le culture, i movimenti che più ti interessano?
Quali sono gli artisti, le culture, i movimenti che più ti interessano?
In generale mi interessano tutte le belle arti, ma soprattutto le
innovazioni nel settore della pittura; l'arte "computerizzata" o la
video art per me sono un po' difficili.Inoltre mi interessano molto queste
relazioni dell'arte con i movimenti sociali, politici, per esempio il lavoro
delle Sorelle HohenbUüchler in Austria.
- EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO ARTISTICO ED
INNOVAZIONE
Ritieni che l'innovazione debba essere
considerata una delle priorità nel lavoro di un artista? Quali secondo te,
devono essere le priorità comunicative di una ricerca artistica e cosa
l'artista "dovrebbe" principalmente raccontare?
Innovazione e sviluppo dovrebbero far parte di ogni artista. Ciclicamente
ogni artista dovrebbe raccontare se stesso le sue mutazioni i suoi cambiamenti,
facendone ricerca, perché la vita di ognuno cambia e tutto può cambiare anche
il modo di dipingere. La mia priorità comunicativa comunque è sempre e solo
cercare di rendere la gente più sensibile, più attenta, più riflessiva, più
aperta a nuove idee a tutto ciò che succede. In questo senso, il mio lavoro ha
un aspetto sociale e politico.
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Michael Oberlik nasce a Linz nel 1956.
Maggiorenne, realizza performances in
gallerie austriache d'avanguardia ed espone le sue prime opere visive, disegni
e dipinti, presso il Tanzstudio Gangl di Linz. Lo stesso anno, si iscrive alla
Paedagogische Akademie des Bundes, dove i suoi docenti sono i Professori Georg
e Wolfgang Stifter e Helmuth Engler.
Durante gli anni di studio, partecipa di
frequente ad esposizioni di gruppo in Oberösterreich. Dal 1979 inizia ad
insegnare materie artistiche e pedagogiche presso vari Istituti austriaci. Al
contempo, intensifica la sua attività artistica ed espositiva in gallerie
private e contesti pubblici. Dal 2000 si fanno sempre più frequenti i suoi
viaggi e soggiorni in Italia e Spagna. Più recenti le sue collaborazioni
artistiche trasversali con il fotografo e amico Heimo Penn e con il poeta Ernst
Schmid.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Stefania Romano
- Spesso i titoli delle tue fotografie, si
rendono complici ed alimentano l'enigma sempre presente in ogni tua opera che
viene quasi esplicitato in fotografie come L'umano duello. A cosa è riferito
questo titolo, Mantafi, dell'intera raccolta che qui presentiamo? Come scegli i
titoli delle tue opere? Ti è mai accaduto di partire da una parola, un nome, ed
intuirne solo successivamente la forma, l'immagine?
"Mantafi" è il nome che davo ai fantasmi quando ero piccola. Questi ultimi
credo vivano sempre dentro ognuno di noi. Titolo ed immagine nascono
generalmente insieme, e sono strettamente correlati al contenuto della
fotografia scattata.
- Bianca è una fotografia con rimandi al Simbolismo pittorico, o al
Preraffaelitismo inglese; nel tuo lavoro, come in quello di Alessandro Di
Giugno, si può osservare una profonda cultura visiva ricca di intuizioni
artistiche con rimandi non solo ad un immaginario visivo contemporaneo, spesso,
ad episodi dell'arte del nostro passato. Nella tua opera, in particolare, trovo
diversi elementi dell'arte e del teatro contemporaneo; di questa cultura visiva
più classica, con riferimenti particolari alla pittura, ma anche un forte
elemento di "spaesamento" che mi pare provenire da una particolare
affinità delle tue opere con l'arte e la fotografia surrealista dei primi
decenni del Novecento. Mi sbaglio se ritengo, avendo solamente osservato il tuo
lavoro senza ancora conoscerti, che tu sia un'artista in particolar modo,
"onnivora"?
Mi piace guardare al passato come al presente. Sono convinta che le
informazioni siano necessarie. Spesso mi rammarico di non avere abbastanza
tempo per conoscere di più. Dico spesso che sarebbe bello poter ingoiare un
libro per saperne subito il contenuto, senza dover spendere giorni per leggerlo
tutto.
- Molte volte sei tu, anche semplicemente
camuffata, la protagonista delle tue opere, con insoliti e fantasiosi
autoritratti. Il tuo corpo e il tuo volto, in alcuni casi privo di lineamenti
come nella bella Simona, in altri casi imbottigliato come nell'
"autoritratto" del 2003, compare e scompare tra le tue fotografie e
quelle di Alessandro. Ciò che mi colpisce è la libertà con la quale ti sai
re-interpretare, è la fantasia sempre differente con cui ti rappresenti o vieni
rappresentata. L'autoritratto è un altro di quei fenomeni da sempre ricorrenti
nell'arte, e forse una tra le ragioni stesse dell'espressione artistica.
Senz'altro tra i riferimenti di un artista che come te utilizza la fotografia,
ci sono gli autoritratti di Cindy Sherman che comunemente viene considerata tra
i caposcuola della fotografia d'arte contemporanea. Vuoi descriverci
l'importanza dell'autoritratto nella tua ricerca e quali sono gli autoritratti
di fotografi moderni o contemporanei che più hai apprezzato?
Semplicemente ci sono delle immagini dove non riesco ad immaginare nessuno
che posi oltre che me, vuoi perché mi toccano troppo da vicino, vuoi per via
delle mie "dimensioni fisiche"...
- Torniamo alle tue fotografie; in Sposi di zucchero,
L'umano duello o Effe, del 2004, cambi registro. Mi sembrano opere molto più
vicine all'estetica dell'arte attuale e meno della fotografia in senso stretto.
Trovo particolarmente riuscite, della prima la sua leggerezza orientale e come
già ti ho scritto, della seconda l'enigma dichiarato di matrice surrealista. Le
associazioni d'idee possibili generate dalle tue opere nel fruitore, anche
emotivamente, tra episodi del passato e del presente dell'arte, del cinema, del
teatro o della letteratura, possono essere moltissime, ed ora che ti scrivo ho
in mente Lewis Carroll, tra l'altro anche fotografo. Mi interessa però
comprendere come una tua opera "nasce", per quanto tempo viene
elaborata nella tua mente e perché avverti la necessità di generarla.
...Come nasce... Alle volte
sono pensieri, altre frammenti di un sogno o rivisitazioni di cose accadute.
L'elaborazione nella mia mente è veloce, la realizzazione un po' meno. Nella
maggior parte dei casi, costruisco io i costumi o gli accessori che servono, e
per questo ci vuole un po' più di tempo. Perché avverto di generarla... è
così... un'esigenza.
- E' bello sapere che tra due artisti di
valore e buona autonomia espressiva, come te e Alessandro Di Giugno, entrambi
fotografi, ci sia poi un sodalizio oltre che artistico, di natura sentimentale.
Quale tipo di interazione si viene a creare tra la tua e la sua ricerca?
Collaborate reciprocamente alla realizzazione delle vostre fotografie?
Capita che ci alterniamo ad essere l'uno l'assistente dell'altro. Non credo
ci sia interazione fra le nostre ricerche, sicuramente c'è tra di noi.
Discutiamo spesso cercando di entrare l'uno nella testa dell'altro.
- Quale ruolo ha l'elaborazione digitale
nella realizzazione finale di una tua fotografia? Puoi raccontarci come
tecnicamente realizzi una tua serie fotografica?
Nessun ruolo! Lavoro solo con mezzi tradizionali. Non ho mai utilizzato il
digitale. Costruisco le scene e poi fotografo con una macchina analogica di
medio formato.
Intervista curata da Cristiano Mattia
Ricci
NOTA
Stefania Romano è nata a Palermo, dove vive e lavora, nel 1975.
Nel febbraio 2004 ha tenuto una mostra personale presso la Quadreria del Lotto di Trapani. Nell'ottobre 2004 ha partecipato alla collettiva Senza freni, presso la galleria d'arte contemporanea Antonio Colombo di Milano.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2004)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Stefania Ranghieri
- Tutti i tuoi recenti lavori hanno in
comune la presenza di una fessura di diversa forma e dimensione; immagino che
questa sia uno dei punti cardine della tua opera...
Dopo tanti anni ho sentito la necessità di dare al lavoro una valenza più
oggettuale, per interscambiare il significato simbolico ed estetico. Il senso
del lavoro continua a riempirsi di implicazioni filosofico etiche che devono
assolutamente connubiarsi con quelle estetiche, ed una superficie
bidimensionale non è più sufficiente a contenere tutto questo.
Diventa importante dare al lavoro una “architettura” sia pur minimale, che
le permetta di essere una presenza, tale da poter contenere il più possibile
quell’energia intrinseca, rivelatrice di significati simbolici attraverso un
linguaggio estetico. Il lavoro assume una forma-volume semplicemente squadrata
o rettangolare che si aggetta dal pavimento o dal muro per porsi in transito
tra astratto e naturale, attraverso l’uso di pigmenti che rendono le superfici
quasi tattili.
La simbologia del colore è quasi infinita e va dal carattere cosmico a
quello spirituale, dal luministico naturale all’estetico astratto, reiterando
sempre la costante dell’energia rivelatrice.
Tutti i miei lavori si presentano come dei monoliti più o meno grandi:
semplici parallelepipedi pregni di pigmento con piccole aperture o fessure,
queste rappresentano un possibile collegamento o passaggio per l’osservatore
nell’opera, compressa in una forma piena e precisa, che non può esplodere ma
può far trapassare quell’energia accesa in un tragitto tra la vita e la morte,
verso la quarta dimensione. L’idea è quella di rendere il mio lavoro come una
sorta di icona, ma che attraverso i tagli, le fessure, cioè attraverso la
fente, dal francese: fessura disegnata per il passaggio di un qualche cosa, ci
sia la possibilità di andare on the other side, come una sorta di stargate. Il
pensiero e la vista possono orizzontalmente oltrepassare lo spazio e il tempo,
accompagnati dal colore capace anch’esso di contenere la luce e di coinvolgere
i sensi. In questo modo, dallo spazio-tempo in senso infinito è inevitabile
ricollegarsi all’idea
(o alla domanda) del principio primo, la cellula, quindi l’idea di creare
un’equazione tra perfezione di una forma astratta e perfezione alta del
formarsi di una forma di vita.
- Un tuo lavoro, della serie The other
side from inside(h), rappresenta dei soldati in una fossa circolare e intorno a
loro un vuoto molto più grande; mi fa pensare ad una metafora sulla guerra: gli
uomini paiono imprigionati in un piccolo cerchio senza possibilità d’uscita…
Riguardo a questo gruppo di lavori, a dire il vero sono partita da una
motivazione un po’ diversa e che si accomuna anche all’altra serie Origini discese/the other side from inside.
L’idea che li accomuna è quella di essere dei contenitori di un pensiero che ha
a che fare con un principio etico, per me molto importante, cioè il principio
di uguaglianza. Tutte le cellule prime che si riproducono per formare gli
embrioni di una qualsiasi forma vivente, “sono uguali” per le prime settimane,
poi ognuna di loro si modifica e prende le caratteristiche di quella
determinata specie.
Questo principio accompagna la mia visione del mondo da anni, e ho sempre
visto una grossa incongruenza tra ciò che la filosofia ha sempre dimostrato in
anticipo di secoli, se non di più, rispetto alla dimostrazione scientifica che
forse solo negli ultimi cento anni detiene il potere assoluto sulle nostre
“domande prime“ anche rispetto a quelle di carattere esistenziale.
Già la filosofia greca, con Socrate o Plutarco, si era occupata del
principio di uguaglianza e poi man mano nei secoli successivi, personaggi di
rilievo si sono occupati di questa tematica che sposta completamente la visione
del mondo dal pensiero “egocentrico” a quello “eliocentrico”; solo per citarne
alcuni: Tommaso D’Aquino, Giordano Bruno, artisti come Leonardo Da Vinci e
ancora Kant... Non è stato nemmeno sufficiente il trattato sull’origine della
specie di Darwin, perché ancora oggi le diversità sono intese solo in scala
gerarchica e all’apice ovviamente ci sono gli umani. Ma parlare di questa
tematica attraverso il linguaggio artistico non è semplice anzi direi che è
un’impresa davvero ardua, quindi sono voluta partire dal pensiero del principio
primo “uguale per tutti”, dimostrato dalla scienza (in particolare
dall’embriologia) in quanto le forme delle cellule sono simili perché
contenitori di prime forme di vita, che poi saranno diverse forme di specie e
questo dovrebbe portare ad una riflessione.
- Quali sono gli aspetti della nostra
contemporaneità che più ami?
E’ una domanda giovane, carica di slanci verso il futuro e devo ammettere
che da molto tempo continuavo a guardare e considerare solo gli aspetti
negativi...
Il mio primo pensiero è rivolto all’idea di “libertà”, al fatto che la
decostruzione di schemi produttivi e analitici degli ultimi decenni, fino
all’annullamento degli stili, ha permesso un cambiamento radicale dell’idea
creativa, che oggi si muove in senso trasversale toccando tutto ciò che è
soprattutto parte della nostra società (non tanto rispetto al nostro sapere) ed
è aperta a utilizzare qualsiasi strumento. Non ci sono più recinti, tutto è
sconfinabile e si sente un clima di libertà totale del fare, visto che l’arte è
dappertutto, come disse Baudelaire, e si può parlare di lei attraverso tutto,
con tutto. Forse l’aspetto più rilevante è questa idea di pluralità delle forme
artistiche e le linee del loro destino, in questa contemporaneità, porta
inevitabilmente ad una differenziazione del loro ruolo, della loro funzione ma
soprattutto del “senso estetico”.
Direi che anche le molteplicità dei canali di diffusione del prodotto e del
pensiero artistico, ultimo dei quali anche internet, è un altro aspetto
interessante di questa contemporaneità e per usare una metafora su come vedo il
presente oggi: siamo particelle che orbitano nell’universo, non c’è gravità e
questo permette di stare in un movimento continuo, tutto si mescola e poi si
ridivide per poi rimescolarsi ancora per tenere un punto di vista sempre nuovo,
sempre diverso; ma riconosco che alcuni aspetti, a mio avviso pindarici,
interni al mondo dell’arte di oggi mi sfuggono.
- Che cosa pensi dell’arte contemporanea?
Quali artisti trovi più interessanti?
Devo ammettere che mi lascia perplessa questa logica della produzione di
valori e/o plusvalore, perché penso che più ci sono valori estetici sul mercato
meno ci sono possibilità di giudizio preciso rispetto al significato. Ogni
volta che visito gallerie, musei, o fiere d’arte il più delle volte mi ritrovo
poi in una sorta di stordimento per la quantità di prodotti offerti ma, per lo
più, sono immagini che non lasciano tracce di memoria, non vedo che tipo di
conseguenze estetiche possano lasciare se non quelle di aumentare ciò che c’è
già. Percepisco una specie di indifferenza formale all’utilità ed al valore,
alla circolazione delle cose senza riserve. La contemporaneità è invasa di
percorsi di tutte le vie della produzione e della sovrapproduzione virtuale: di
oggetti, di segni, di messaggi, di ideologie, di piacere, di “cose!”; riconosco
che è difficile orientarsi perché si rischia di passare da un’idea critica ad
una non idea, cioè ad un caos vuoto, tutto è concesso tutto ha valore ma
abbiamo bisogno di sapere e/o capire anche cosa non lo ha. Non mi dispiace il
fatto che l’arte transiti ovunque nella realtà, e sul momento può rassicurare
perché sembra essersi ridefinita in un ruolo ben preciso, ma nello stesso tempo
mi preoccupa perché se adesso è così, come sarà possibile fare a meno della
magia delle forme, dei colori e dell’immaginazione?
Personalmente sento ancora necessario pensare che l’arte sia e debba
mantenersi come simulacro , con la potenza dell’illusione, dell’invenzione e
dell’emozione estetica, drammatica o gioiosa, lirica o concreta che sia: che
nella sua potenza, nella sua capacità di indagare il reale e di opporre al
reale un’altra scena, ci sia il suo vero senso cioè il vero senso del fare, in
cui tutte le cose si muovono per una regola del gioco superiore; e tanto più la
regola sarà precisa e rigorosa, tanto più ci sarà emozione e piacere. Riguardo
agli artisti contemporanei che trovo più stimolanti, vorrei ironicamente fare
una distinzione: sono contemporanei solo coloro che sono in vita? oppure lo sono
coloro il cui lavoro è ancora fortemente contemporaneo? come dicevo sopra,
nell’immensa offerta di prodotti artistici mi rendo conto che l’attenzione
”prima “ è rivolta a tutto ciò che ha affinità (formali e di contenuto) al mio
lavoro ma questo posso ritrovarlo anche in un’immagine fotografica come in un
dettaglio pittorico; per quanto mi riguarda, i due artisti che amo di più in
assoluto sono Anish Kapoor e Luis Barragan (ingegnere e architetto). Anche se
possono sembrare molto diversi tra loro, penso che il loro lavoro sia
fortemente carico di “pensiero puro” (in quanto astratto) cioè capace di
contenere immaginazione poetica e trasformare lo spazio circostante in un luogo
sublime; come si fa a non emozionarsi di fronte ad un lungo muro rosa che si staglia
tra il cielo e l’acqua di una piscina (Scuderia San Cristoball - Messico) o ad
una immensa campana rosa-lilla che avvolge lo spazio alto al di sopra di tanti
osservatori con lo sguardo all’insù completamente avvolti! (Londra 2001). Ma mi
ritrovo ad avere lo stesso impatto emotivo quando vedo un’opera di Spalletti o
di Joe.Mc.Cracchen, per il loro rigore formale nella purezza cromatica e poi
Erbert Hamach perché riesce a trasmettere un senso di piacevole “sapore” con i
suoi parallelepipedi di resina colorata perché evocano un qualche cosa che ha a
che fare con il piacere del cibo: cioè il gusto. Inoltre, il temperamento e la
forza di una donna artista come Luoise Bourgeois che dimostra ogni volta, con
il suo disinvolto pensiero creativo, quanto siano irrilevanti i dati
anagrafici!
Ma rispetto alla nuova figurazione emersa in questi ultimi anni in Italia
di giovani pittori, mi colpisce particolarmente il lavoro di Guadamacchi per
queste sue visioni aereo-planimetriche delle megalopoli del mondo così monotone
nel loro grigiore. Così come il lavoro, tra i tanti artisti fotografi, di Armin
Linke sempre un po’ inquietante e drammatico come quell’immagine di Mahn Kumbh
Mela, Pontoon bridge - over Gange river del 2001. Ecco forse questo è un
documento che riesce ad equivalere “all’idea immaginata drammatica e poetica “
per il suo incredibile essere realtà vera. Credo sia qui quella linea sottile
che attraversa in senso trasversale, come dicevo sopra, toccando tutto ciò che
è parte della nostra società.
- Mi hai accennato, in altro contesto,
all'importanza della musica nella tua vita; me ne potresti parlare?
Il mio rapporto con la musica è principalmente di carattere emotivo. Non
posso dire di avere un’ampia conoscenza dell’universo Musica, perché anche qui,
come per le arti visive, si tratta di un mondo vastissimo che produce una
immensa molteplicità di prodotti musicali. Devo dire che ho scoperto i
musicisti (artisti) che mi piacciono di più, vagando da una radio all’altra nel
cuore della notte fin da quando ero adolescente; ovviamente con il tempo le
scelte si sono affinate portandomi a prediligere principalmente la musica
strumentale a matrice jazz come i brani di Chat Baker, John Coltrane e Miles
Davis, artisti che considero ancora molto contemporanei, ma anche pezzi dove il
jazz si mescola al funk, al rhythm & blues e poi la jungle music dei
Saint Germain e buona parte della produzione acid jazz di questi ultimi anni;
mi rendo conto che sto nominando la musica che prediligo attraverso dei
“generi” e forse anche agli artisti musicisti contemporanei non piace essere
inquadrati così ma non posso fare altrimenti. Per quanto mi riguarda penso che
la musica prettamente strumentale sia l’equivalente dell’arte astratta, non ci
sono le parole che rimandano inevitabilmente alle immagini descrittive, ma c’è
un suono unico puro e assoluto capace di addentrasi nelle profondità sensibili
ed emotive. Penso anche che nel jazz sia contenuta molto bene quell’idea di
libertà creativa, come per le arti visive, capace di sollecitare profonde vibrazioni
tali da liberarti del tuo peso in gravità e perdere il senso del tempo e dello
spazio così come può fare una forma o un colore. Direi che anche la musica “è
ed ha un colore”, malinconico come la tromba di Chat Baker, profonda e notturna
come quella di Dj Krush (jazzista sperimentale giapponese), ma tentare di
trovare una corrispondenza con i colori della pittura mi sembra una forzatura
che rischia di banalizzare tutto. Nella musica ci sono altri colori, so di
molti artisti che cercano di lavorare facendo questa operazione, uno dei primi
è stato Kandinski mentre oggi può essere il lavoro di un artista americano che
vive in Italia che si chiama Caponnetto; ma per me è diverso e così quando sono
in studio a lavorare il suono di una tromba di un pianoforte o di un basso
diventa vibrazione ed energia che sicuramente andrà ad arricchire quella
tensione emotiva necessaria per lavorare e poter produrre, il più possibile, un
buon lavoro di qualità.
Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci
NOTA
Stefania Ranghieri è nata a Gallarate (Va)
nel 1963, e si è diplomata in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di
Brera. Vive e lavora tra Milano e Sesto San Giovanni, e dal 1996 insegna
Discipline pittoriche presso la Civica Scuola d’Arte Faruffini di questa città.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2001)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO
Luca Trevisan
- Quali sono le tematiche che proponi con
la tua pittura? Di quali elementi della realtà che vivi si nutre il tuo
immaginario?
Non è facile per me presentare, attraverso una spiegazione razionale, le
scelte di un itinerario di lavoro che si è sviluppato nel tempo e che non offre
la linearità di un progetto narrativo precostituito e preordinato. Una
riflessione sulle cose fatte, sulle diverse esperienze maturate, mi rivela, più
che un percorso pianificato, un insieme di tappe. Queste tappe, quasi delle
isole, costituiscono un metaforico arcipelago di situazioni che pur nella loro
specificità, coesistono e dialogano grazie ad una serie di comunanze e
corrispondenze di carattere contenutistico e formale.
I soggetti indagati sono quelli classici:il paesaggio (soprattutto quello
urbano) e la figura nella pittura più descrittiva; l’indagine sulla forma
(forme primarie, primitive, simboliche) la sua costruzione e organizzazione
nella figurazione non oggettiva, nei lavori più legati all’ambito astratto.
La fotografia, la pittura, l’installazione, l’immagine digitale,
l’incisione sono invece i mezzi, gli strumenti che di volta in volta hanno
vestito i diversi progetti (le isole) realizzati in questi anni.
Poi alcuni elementi che costituiscono le costanti, i fattori identitari del
lavoro: la realtà, come dato primario, concreto, come “punto genesi” presente
in modo trasversale anche nei lavori meno figurativi; fonte continua di
stimoli, impressioni, suggerimenti. La memoria, ulteriore serbatoio
introspettivo da cui attingere stupori, ansie,gioie e inquietudini. Le
suggestioni del reale e virtuale vivere quotidiano, percepito spesso con il
carico di disagio, alienazione e nevrosi che lo contraddistingue. Il gusto per
la contaminazione, sia dei mezzi espressivi che dei significati; il piacere per
la sperimentazione.
Infine la comunicazione, prodotto filtrato di una sensibilità, dove un
senso di estraneamento, quasi di disagio ne condiziona la forma; comunicazione
neutra, indiretta,volutamente non esplicita.
- Ti senti vicino alla ricerca di qualche
artista contemporaneo?
La vicinanza con la ricerca di un artista è qualcosa di molto particolare,
di profondo, implica una condivisione che coinvolge le motivazioni, i percorsi,
i prodotti.
Per quanto mi riguarda parlerei invece di sintonie verso alcuni autori, sintonie
che scaturiscono in presenza di una corrispondenza tra me, fruitore di un’opera
e l’opera stessa.
In questo caso l’incontro assume il significato di un arricchimento: può
rappresentare lo stimolo, il punto di partenza per un nuovo itinerario di ricerca,
può essere elemento importante per una maggiore comprensione e consapevolezza
di un percorso già avviato, può divenire motore di nuove energie.
Molti sono gli artisti che hanno fornito questo contributo. Penso alle
atmosfere di Kiefer, alle invenzioni di Schnabel, alla vitalità e forza di
Baselitz, alle suggestioni di Kapoor, al cromatismo di Lupertz, alla fresca
immediatezza di Disler. Ed ancora Sironi, Scipione, Licini, Bacon, Munch,
Bonnard… tutti hanno lasciato una traccia, sono stati importanti per la mia
crescita, hanno contato per la mia formazione culturale.
Questo processo continua ancora adesso, quando visito una pinacoteca,
all’inaugurazione della mostra di un amico, sfogliando un catalogo o una
rivista d’arte, in occasione dell’ultima biennale, oppure durante la visione di
un film o di un video.
- Credi che il compito principale
dell’artista sia quello di “creare qualcosa di nuovo”come recita il più
conosciuto dei luoghi comuni dell’Arte?
Penso che il “nuovo” sia sicuramente un elemento importane per ogni artista
.Bisogna però forse soffermarsi un attimo sul significato che ciascuno di noi
attribuisce a questa parola e alla relazione che essa ha con il mondo
dell’arte. Personalmente ritengo che il nuovo possa essere uno degli obiettivi
prioritari di un percorso di carattere espressivo, ma non il punto di partenza
o il fulcro intorno al quale far ruotare l’intero processo.
Trovo che da un punto di vista metodologico e concettuale sia pericoloso e
scorretto partire con la convinzione che innanzitutto ciò che mi accingo a
realizzare debba rappresentare una novità.
L’esperienza maturata in questi anni mi insegna che il principale
riferimento per chi si impegna in ambito creativo debba essere piuttosto una
costante riflessione,quasi una preoccupazione intorno alla qualità e alla
coerenza del proprio operare.
E’ attraverso una dinamica di questo tipo, se condotta in modo efficace,che
si ha la possibilità di conseguire quei risultati di rinnovamento necessari al
raggiungimento di una proposta autonoma e originale.
Nuovo come punto di arrivo quindi, come frutto consequenziale, quasi
naturale di un valido percorso di lavoro e di ricerca.
- Parlami della tua collaborazione al
progetto Spazi Residui.
Più che un progetto, Spazi Residui è il nome di un gruppo
formato da tre artisti, Maurizio L’Altrella, Marco Cadioli e il sottoscritto.
Siamo tutti e tre di Sesto San Giovanni, anche se Marco attualmente abita a
Milano; ci conosciamo da anni, abbiamo partecipato assieme a mostre collettive,
ognuno con propri lavori e queste frequentazioni comuni, insieme all’amicizia e
alla scoperta di interessi e affinità condivise ci hanno portato alla decisione
di formare un gruppo con l’intento di impegnarci in progetti studiati e
realizzati a più mani.
Come gruppo siamo intervenuti alla rassegna Sesto.com, presso il MAGE OMC
nel giugno 2001 con una installazione di sei grandi vasche in ferro (100 x 180
x 10 cm.) posizionate a terra e accompagnate da cinque fotografie a colori (100
x 150 cm.).
Nell’aprile del 2002 abbiamo esposto al Centro Culturale Valmaggi, sempre a
Sesto con tre vasche a parete. Il tema di questi primi due interventi è stato
la fabbrica, la fabbrica dimessa con tutte le suggestioni e gli stimoli che un
simbolo come questo è in grado di offrire. Luogo rappresentativo su cui ci si è
concentrati, da cui abbiamo tratto materiali, immagini e ispirazione è il
magazzino ricambi Breda con il vicino Carroponte, situati dietro viale Sarca,
dove si prevede sorgerà il Museo del Lavoro di Sesto San Giovanni.
Attualmente stiamo lavorando ad altri due progetti che si dovrebbero
concretizzare entro la fine dell’anno presso degli spazi ancora da definire a
Milano.
Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci
NOTA
Luca Trevisan è nato a Udine nel 1962.
Ha frequentato per tre anni l’Accademia di
Belle Arti di Brera (corso di pittura), e attualmente segue il laboratorio
d’incisione presso la Civica Scuola d’Arte Faruffini a Sesto San Giovanni, città dove vive e lavora.
Espone con continuità dal 1983.
Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2001)
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