ARTI - 1


Nada Pivetta

- A quale momento della tua vita risale la scoperta della Scultura? Perché hai deciso di fare una tua Scultura? Raccontami i tuoi ricordi…
Al contrario di altri scultori, non posso dire di essere stata folgorata da un’opera d’arte in particolare, o di aver sempre desiderato di fare scultura. E’ stato un graduale avvicinamento verso le arti “figurative” che mi ha portato a capire che la scultura è il mezzo che poteva permettermi di esprimere meglio la mia sensibilità verso l’essenza delle cose, dell’ umanità e della natura. Ho osservato infinite volte le svariate opere di cui venivo a conoscenza attraverso i libri, durante le visite ai musei, l’interesse per le vite degli artisti, così affascinanti e complesse ma allo stesso tempo semplici e rigorose; nel frattempo ho avuto la possibilita’ di provare a modellare disegnare dipingere… Che scoperta è stata creare una scultura! Il trasporto, la gioia e la sorpresa di come e di cosa potevo sentire, comunicando un pensiero una riflessione o solo una sensazione, mi ha emozionato e entusiasmato tanto da darmi l’energia di continuare a studiare, sperimentare e cercare. Tu potresti chiedermi allora perché non farlo con la pittura o con il video… E’ che le caratteristiche della scultura, la presenza di una materia che impone la sua fisicità, la tridimensionalità, la forza di gravità, gli svariati punti di vista, sono per me una sfida, ma allo stesso tempo dialogo. Questi sono stati e sono ancora motivo della mia scelta.


- Il panorama dell’arte attuale è molto eterogeneo. C’è una tendenza generalizzata a privilegiare forme d’arte come la video arte o la fotografia; salvo rare eccezioni, il lavoro degli scultori non è facilmente presentato ai fruitori d’arte contemporanea. Si tratta, secondo te, di un abbandono di questa tradizionale disciplina artistica a favore di altri media, oppure di una tendenza che più che corrispondere alla realtà dei fatti, mette in evidenza un gusto formatosi tra i curatori delle mostre, i critici d’arte e gli artisti che in questo clima cercano di inserirsi?
Per quanto riguarda gli artisti spero che in quanto tali non si facciano influenzare dalle tendenze create dai “mercanti d’arte”, e che l’elevato numero di video artisti o fotografi sia dovuto al fascino suscitato dai nuovi mezzi tecnologici, alla necessità di usare un linguaggio diretto, di essere dentro la quotidianità, dentro il nostro paesaggio più di quanto lo può essere un pezzo di legno o una manciata di terra. Le Gallerie di Arte Contemporanea, a parte qualche rara eccezione, sono guidate dal consiglio di critici d’arte, e dalle scelte di questi ultimi viene creato il mercato dell’arte e la conseguente “cultura”. Alla scultura è da sempre riservato un piccolo spazio per un problema culturale e di educazione alle forme d’arte e alle loro applicazioni. La maggior parte delle persone, che non gravita intorno al mondo dell’arte, appena si parla di scultura, pensa al Discobolo, ai monumenti equestri o ai monumenti funebri! Effettivamente dalla fine dell' Ottocento non si è più vista molta scultura …In ogni caso, come c’è un ritorno alla figurazione, c’è anche un ritorno alla materia, alla forma e alla riflessione: così non c’è da preoccuparsi.

- Quali sono gli artisti che più hanno stimolato la tua fantasia ?
Sembra una domanda semplice, quasi di rito…ma…andando per ordine: il primo che mi ha, come dire, “scioccato” e’ stato sicuramente Alberto Giacometti per la sensibilità verso l’umanità e la sua affermazione di essere stato anni e anni su un ritratto e di non essere mai riuscito a modellarlo così come lo vedeva questo ha dell’incredibile, e poi la sua umiltà…Altri grandi scultori dell’epoca moderna: Rodin così passionale, Brancusi l’esempio di un uomo che ha dedicato tutto alla scultura perche’ solo dentro al suo “ambiente “ era vivo, il grande Arturo Martini, Marino Marini…..Successivamente, ho cominciato un processo a ritroso innamorandomi deli Egizi, dei Greci, quale sogno di bellezza, gli Etruschi così vicini alla vita, Arnolfo di Cambio, Donatello, Michelangelo… e i pittori: Cimabue, Giotto , Piero della Francesca, Klee , Rothko… La lista sarebbe molto piu’ ampia… Quale stima e condivisione verso questi artisti.

- Il nostro sito si occupa in egual misura di Poesia e Arti Visive; che rapporto hai con la poesia scritta? C’è qualche autore, in particolare, che hai trovato in sintonia col tuo ”spirito“ di scultrice ?
Leggo poesia con trasporto. Non mi ritengo una conoscitrice, data la vastità dell’opera poetica … Trovo che la scultura sia intimamente legata alla poesia per le possibilità di interpretazione o meglio per le diverse vibrazioni di chiari scuri per la prima e di cadenze accenti, suoni, per la seconda. Mi azzardo anche ad aggiungere: per i silenzi di entrambe. Leggo poesie di Cesare Pavese, di Octavio Paz, di Pablo Neruda, di Michelangelo, di Alda Merini, di Emily Dickinson, Leopardi…


 
- Ora vorrei sapere cosa c’è per Nada nella propria scultura. Qual è l’intima visione che hai della tua arte?
Nel mio lavoro ci sono io e quello che mi circonda: dai paesaggi metropolitani agli spazi aperti come le risaie; le colline della Toscana, le montagne… I miei sogni; l’uomo e la donna, i loro limiti e le loro debolezze, le tensioni del singolo, la forza dell’esistenza e la sua precarietà. I colori che riempiono… la luce che modifica… E poi mi piacerebbe sapere cosa ci vedete voi!

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

NOTA

Nada Pivetta, scultrice, è nata a Milano nel 1970. Si è diplomata presso l'Accademia di Belle Arti di Brera ed è stata assistente di alcuni artisti, tra cui Salvatore Fiume e Aligi Sassu.
Vive e lavora a Milano

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2000)
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Stefano Reboli
Educare gli occhi


- Il tuo percorso artistico trascende lo specifico di una sola disciplina per abbracciare diversi aspetti delle arti visive; hai cominciato a fare arte prima della laurea in architettura, e dopo esserti laureato hai fondato diverse associazioni inerenti il design, ora mi sembra di capire che stai concentrando la tua attenzione sulla grafica.
La mia curiosità mi ha costretto a fare delle discipline un utilizzo strumentale. Mi impegno in tutte le tecniche delle arti visive, con e senza maestria, ma mai ho concesso ad una disciplina di diventare il motivo del mio lavoro. Questo significa che pur dipingendo, scolpendo... non ho mai fatto della pittura o della scultura...
Non riesco a ricordare quando ho iniziato a fare arte, sicuramente ne sono consapevole dai tempi dell'università. E' stato in quel periodo che ho potuto, criticandolo, definire il mio comportamento. Ora ho metodo e sono molto disciplinato. Forse per questo e per motivi contingenti, sono occupato in molte attività. Il mio sistema, che nulla ha a che fare con la creatività e l’istituzionalità, risulta efficace là dove abbondano le possibilità di trasformare, mischiare, rovesciare, capovolgere le cose. Subendo la necessità di inventare, ho trovato nel design un campo giochi sempre aperto. Si tratta di design "artistico", non di product design. Per promuovere questa maniera di fare oggetti e arredamenti l'associazione culturale “aattak” organizza ogni anno una mostra, “Desart”, a cui sono invitati a partecipare tutti coloro che si impegnano in questa attività (http://www.aattak.com/).
La grafica é necessaria nella pratica e nella comprensione di tutti gli aspetti delle arti visive, inoltre, come la fisica, é fatto che riguarda tutte le cose. Mi ha sempre interessato ed è l'unica forma d'arte che si compra al supermercato. Mi sono scoperto estasiato davanti ad una confezione di Manzotin e compro le barre di cioccolato Nippon per la perfezione della loro confezione. Ho appena iniziato un progetto (http://www.pandarei.com/) che prevede una parte commerciale ed una di ricerca. Intendo produrre una copiosa collezione di edizioni grafiche dai contenuti più diversi.




- Per il progetto "2villasforsweden" hai scelto la Svezia e l’utopia di un luogo ideale; in cosa consiste questo progetto "inconsueto" d’architettura?
Il progetto non è utopico, si fonda piuttosto sul concetto di “action architecture”. Sinteticamente, si tratta di eliminare tutto ciò che fa dell'architettura un continuo compromesso. L'idea è quella di riassumere il progetto in poche idee-guida e di prendere il resto delle decisioni in corso d'opera.
In questo progetto (http://www.2villasforsweden.com/) sarò impegnato in prima persona nella realizzazione di un capanno, unità abitativa minima ma sufficiente, nelle foreste della Svezia centrale. La scelta del luogo, dove non esiste la polvere, si contrappone al senso di sgomento che mi assale quando sfoglio una rivista di architettura e scopro che il nostro futuro abitativo é dipinto in scenari drammatici, sintetici, grigi e affollati.
Ritengo che la ricerca in architettura abbia preso una strada pericolosa e sterile, mi auguro che torni presto a occuparsi della qualità della vita piuttosto che dello stile.


- Osservando il tuo lavoro, si può riconoscere il ruolo importante che attribuisci al periodo dell’infanzia; sembra che per te questo sia uno dei momenti più alti del percorso umano...
L'infanzia é l'unico momento in cui tutti gli uomini hanno un comportamento artistico. Questo comportamento é chiaramente inconsapevole, ma rappresenta per me la migliore definizione dell'arte. Sperimentare, definire, ordinare tutto ciò che ci capita con metodo originale. Inventare.
- Il lavoro fotografico inedito che presenti per il nostro sito, descrive poeticamente il mondo delle plastiche; è un ciclo di fotografie che molto deve al tuo immaginario di designer. Come e perché nasce questo tuo lavoro?
Questo lavoro nasce dalla passione per le cose, deve più al mio essere collezionista che al mio immaginario di designer. La fotografia come esperienza astratta della realtà è una forma d'arte che mi diverte esplorare, la tecnica consente molta espressività, la praticità dei mezzi ne fanno uno strumento malleabile.
L'idea alla base di queste fotografie è molto semplice, addirittura banale, e riguarda la possibilità di assegnare un valore estetico, poetico a oggetti apparentemente anonimi consumabili e consumati. Il fine, forse questa volta utopico, è quello di educare gli occhi ad attribuire bellezza a cose, situazioni, che apparentemente o realmente non ne contengono.
Cerco di essere in armonia con tutto. Ma non sempre ci riesco.


- Un altro uso che fai della fotografia, è quello di documentare i tuoi frequenti viaggi. Mi piacerebbe che ci congedassimo con il racconto, da parte tua, di un episodio che ritieni significativo avvenuto in uno di questi tuoi viaggi.
Non mi ritengo capace di tradurre in forma letteraria le mie esperienze di viaggio, il mio rapporto con le parole é conflittuale. Ti posso dire quanto ritengo significativo il fatto di viaggiare. Trovo che sia molto stimolante e rigenerante, è una esperienza che dovrebbero provare tutti, soprattutto quelle persone troppo preoccupate di dare un senso alle cose piuttosto che di fare cose sensate.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

NOTA



Stefano Reboli è nato a Milano nel 1973. Ha avuto un’infanzia felice, che gli ha dato la possibilità di specializzarsi nel gioco. Interessato nelle cose piuttosto che nelle parole, spaventa sua madre rompendo il servizio di porcellana e rifiutandosi di imparare l’alfabeto. Spinto dalla sua curiosità, si dedica alla sperimentazione. Attratto da tutto, eccetto che dai libri, passa il suo tempo innamorandosi di tutto ciò che bussa ai suoi occhi. Praticando la critica, costruisce un suo metodo. I suoi studi finiscono nel 1998 con una laurea in Architettura. Da allora si cimenta, con o senza successo, nell'architettura, nel design, nella grafica, nella fotografia e nell'arte. E’ alla costante ricerca dell’invenzione.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2006)
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Chiara Lampugnani
Spazio onirico




Queste nuove opere di Chiara Lampugnani spostano il suo fare artistico nei territori dello spazio, aggiungendogli nuove valenze e mostrandoci le peculiarità di un'offerta di simboli e di continue evocazioni. Ha del meraviglioso la differente caratterizzazione dello spazio ogni volta che se ne fa esperienza: sostanzialmente è una questione d'immaginari individuali che vanno a formare nell'insieme una visione del profondo nella rappresentazione della propria epoca e di ciò che si sente essere la propria storia d'uomini. Dall'analisi delle opere di Chiara si possono fare alcune riflessioni di ordine più generale che qui anticipo. Una diretta conseguenza dello sviluppo artistico, è la ridefinizione di un più elevato immaginario collettivo. Una speranza che mi pare dovuta (anche per la mia osservazione diretta dell'intensità di questo sforzo del creare), è l'affermazione, nella società, del lavoro "globale" artistico; ancor meglio, la speranza che nutro è quella di un'affermazione del creato artistico sui macchinari di costruzione strumentalizzata dell'immaginario collettivo, e sull'uso che prevalentemente viene fatto della televisione come tramite di perpetuazione dell'ignoranza collettiva e della relegazione dell'immaginario collettivo a situazioni e forme di desiderio stabilite aprioristicamente dalle sopraffine forme del potere. Ritornando a Chiara, è certo lo stretto collegamento che la sua opera ha con aspetti dell'inconscio e della fantasia. E' altrettanto evidente la volontà della creazione nel sociale, attraverso questo medium, di un fertile humus mentale prevalentemente adibito all'ospitalità, che s'intende diffondere tra la gente, del "luogo comune", della formazione di una presunta intelligenza nella vittima. Questo è uno dei valori della ricchezza artistica: uno soltanto tra i risultati della ricerca. Nella scelta che Chiara fa, nel collocare questi suoi recenti lavori entro luoghi del nostro passato, si avverte l'attenzione al contesto architettonico proveniente dalla sua formazione, realizzando un fertile rimando tra la disciplina architettonica e il suo immaginario d'artista. Possiamo parlare a questo proposito di installazioni, ma forse questa definizione risulta riduttiva. Si può però sostenere, ed è visibile, che Chiara utilizza il neon in questi suoi recenti lavori. Frequente è stato l'utilizzo del neon in arte, compreso quello che viene fatto originalmente da Chiara Lampugnani, anche rispetto ad esempi del passato recente. Una tra le bellezze che l'arte può serbare a chi la sente, è la mancanza di ripetitività emozionale: a proposito di neon, l'impiego che ne ha fatto Fontana è stato esemplare e ha creato nel suo uso sperimentale un certo tipo di partecipazione emotiva nello spettatore, molto differente, ad esempio, dal magistrale uso che ne ha fatto Mario Merz. Altro discorso si può fare per la sacralità della luce (neon) nell'opera di Flavin: la Chiesa Rossa di Milano viene considerata il suo testamento e l'idea della luce colorata viene richiesta a Flavin e pattuita col parroco della chiesa milanese.Altra sensazione ancora ci dà la partecipazione emotiva ad uno o più lavori di Bruce Naumann o Joseph Kosuth. Tanti uomini, tanti neon, ed uno diverso dall'altro. Chiara è passata da un lavoro artigianale (i suoi precedenti lavori ad arazzo) ad un lavoro di sola concezione mentale, che elabora con l'ausilio del computer e fa realizzare scrupolosamente secondo le sue intuizioni.Queste opere vengono installate di volta in volta nei contesti che le sono offerti, arricchendosi e definendosi progressivamente.Sono oggetti archetipi che prendono in ogni contesto forma differente. Ora mi dice che intende utilizzare l'ausilio di forme sonore, per accompagnare l'installazione sospesa delle sue opere. La sensazione che provo dalla visione del suo lavoro è di un'alienazione dell'oggetto nel contesto. A tal proposito, la domanda che mi pongo è se gli oggetti che propone non siano in realtà gli abitanti di questo pianeta, cioè noi che li guardiamo e ancor di più chi non può vederli, in quanto privo della consapevolezza del valore culturale di un popolo e di conseguenza posto in uno stato vitale di maggior alienazione. Chiara lo fa di proposito, mette un triciclo di neon nell'aria, lo stesso triciclo che significa per ognuno di noi l'infanzia, che è altrettanto un'immagine di tenerezza e che ora sosta nel vuoto con una sua luce propria. C'è anche un retaggio culturale nel suo esprimersi, quello di un modernismo diventato, nel tempo che ci separa da quelle utopie, archetipo. Le capita di immaginare di continuo, poi mi telefona e, quando può, fa realizzare. L'anima delle sedie che utilizza ha soltanto la matrice delle belle sedie razionaliste, diventate nel contesto dello spazio quasi dei fantasmi umani. Gli oggetti che propone hanno una regola dell'accostamento, che non può essere sottovalutata: tutti hanno forte valore simbolico, ma appartengono a epoche differenti della storia dell'uomo. La scala ad esempio è preistorica, la sedia del Bauhaus no.Così disposti, i suoi oggetti danno da pensare a chi li guarda, rendendo all'osservatore la giusta destabilizzazione che dà origine ai processi del pensiero; anche in questo l'arte fa un servizio all'intelligenza umana, al contrario della falsa rassicurazione del continuo show televisivo. E per questo motivo posso concludere dicendo che è presente nel lavoro di Chiara questa funzione di spia del sistema sociale, di osservazione disincantata e diretta del reale attraverso la forza simbolica dell'arte.

Cristiano Mattia Ricci


Testo critico pubblicato su www. cerchioazzurro.com (2001)
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Giancarlo Mannetta


Giancarlo Mannetta è un fotografo "nascosto" che per anni, e con molta coerenza, ha portato avanti un suo dialogo quotidiano con le ragioni della fotografia.
Cerca da sempre, con molta umiltà, di creare un discorso personale. Con il passare del tempo ha iniziato a riuscirci.
La sua natura non eccentrica lo ha portato prima a percorrere un confronto con alcune tematiche tradizionali della fotografia; un'indagine dai risultati spesso molto efficaci che lo ha visto premiato decine di volte in concorsi regionali e nazionali.
Dopo un lungo periodo caratterizzato da tematiche naturalistiche, è tornato con altrettanta attenzione ad osservare la città; dedicandosi nel frattempo a nuove forme di sperimentazione fotografica (Immagini dall'immaginario).
A mio parere, il suo percorso più recente sta spostando le ragioni della sua ricerca verso una fotografia sempre più creativa e d'autore; verso una nuova forma di libertà acquisita. Le fotografie dei portfolio Still Life e Metropolis lo dimostrano.

- Come architetto hai praticato poco; come fotografo molto e per anni quasi quotidianamente. Quando ti sei appassionato alla fotografia?
L’interesse per la fotografia nasce all’inizio degli anni ’80 e prende corpo progressivamente. Sino al 1990 rimane il mio secondo hobby, dopo il rock; successivamente diviene il mio principale interesse, tanto che nel 1991 decido di laurearmi con una tesi sulla fotografia di architettura.


- Quale storia della fotografia è la tua storia, quali autori?
Nel 1987 mi avvicinai per la prima volta ai lavori dei fotografi più noti, grazie alla vasta sezione di fotografia disponibile presso la biblioteca di Sesto San Giovanni. Sin dall’inizio il mio interesse fu rivolto all’utilizzo espressivo del colore e al paesaggio come tematica principale, meglio se interpretato secondo canoni formali e geometrici, ai confini con l’astrattismo. Infatti tra i primi autori ad ispirarmi c’è Franco Fontana, la cui influenza è evidente nel mio primo lavoro, Frammenti Urbani, realizzata tra il 1990 e il 1992. Altri autori del periodo ad attirare il mio interesse sono stati Say Maisel, Pete Turner, Harald Sund, Tennis Stock, e Al Salterwhite. Ma è senz’altro Ernst Haas il fotografo che mi ha influenzato in modo più profondo e duraturo: alcuni elementi del suo stile (colore forte e uso del “mosso“) sono stati sempre presenti nelle mie immagini e lo sono ancora di più nella mia produzione più recente.
Successivamente il mio interesse si è spostato verso la fotografia di natura, e inevitabilmente la mia visione ha perso originalità, pur guadagnando in rigore estetico e professionalità. All’interno di questo genere i settori verso i quali mi sono orientato, e che mi hanno fruttato i maggiori riconoscimenti, sono il paesaggio e la macrofotografia. In questo periodo, autori per me fondamentali sono stati Ansel Adams (il maestro del paesaggio in bianco e nero) e i più attuali John Shaw, Tim Fitzharris, Franz Lanting e Galen Rowell. Da qualche anno, come sai, sono tornato ad una fotografia più creativa senza riferirmi intenzionalmente a qualche autore in particolare, anche se le prime influenze (Haas e Turner soprattutto) a volte saltano fuori.



- Hai scelto di guardare il mondo e raccontarlo; in cosa trovi dei motivi d'interesse?
Qualche anno fa avrei risposto dicendo che i miei motivi di interesse vanno ricercati nel mondo della natura; ora, pur mantenendo un interesse prevalente per l’ambiente (naturale e urbano), sto cercando di uscire dalla logica dei “generi” per indirizzarmi verso una ricerca globale nella quale il valore estetico “aggiunto” dal fotografo è in grado di esaltare anche l’oggetto più banale. In questo senso è eloquente il portfolio Still Life. Quindi i miei interessi sono rivolti a forme e strutture interpretabili attraverso un uso mirato della luce e del colore.




- Come nasce Still life? La sua improvvisa psichedelia mi riporta al rock. In quale momento è stato concepito?
Nel 2003 ricevo un bando di concorso dove, oltre al tema libero, è proposto il tema fisso Acciaio. Decido di partecipare e realizzo una vasta serie di immagini rappresentanti delle comuni posate, riprese a distanza ravvicinata. Come interventi creativi utilizzo lo sfuocato e il colore intenso prodotto dalle superfici di CD e da pannelli riflessi sulle posate stesse. Pur non vincendo il concorso rimango entusiasta del lavoro e continuo le riprese, utilizzando altri oggetti trasparenti come boccette di profumo e lampadine, che porteranno ai risultati più interessanti. In questo caso la struttura degli oggetti quasi si dissolve e viene ricostruita dagli incredibili cromatismi prodotti dalla scomposizione della luce ad opera della superficie dei CD. Un fenomeno fisico viene utilizzato per scopi creativi. Questo lavoro è successivo a Paesaggio Lombardo (2001-2002), che di fatto inaugura la mia nuova stagione creativa. La sua atmosfera, che hai definito psichedelica, nasce dalla forte attrazione che provo per i colori saturi, soprattutto se accostati secondo le regole della complementarietà.



- Quale denominatore comune vuoi che emerga dalla tua ricerca?
Il mio metodo di lavoro in fotografia si basa sulla scelta, tra le molte soluzioni possibili, di quelle poche che meglio esprimono le qualità visive del soggetto in termini di colore, struttura, forma e incidenza della luce. Come ho già affermato, il colore intenso, lo studio del movimento e, (nella fotografia di ambienti), la scelta di prospettive ampie, costituiscono gli elementi principali del mio stile. Inoltre sempre di più prevale la tendenza a costruire  l’immagine sin nel minimo dettaglio.
- Che importanza ha il rapporto personale con altri fotografi, la tua partecipazione attiva all’interno di un’associazione come il GFS*?
La frequentazione di un club fotografico è importante per le possibilità e i contatti che vengono a crearsi, nonché per la struttura e le attrezzature disponibili. Inoltre è il luogo ideale per lo scambio di idee e la realizzazione di mostre ed eventi che sarebbe impossibile realizzare da soli. Il nostro club è molto attivo, e annovera diversi autori validi, orientati anche loro verso una fotografia di ricerca. E’ un ambiente molto stimolante, a differenza di altri club che tendono a isolarsi e quindi a scomparire.



- Ti sei concentrato poco sulla presenza umana; di più sugli scenari naturali (Portfolio in bianco e nero, Bretagna) e artificiali (Metropolis). Tra gli esseri viventi, hai fotografato principalmente insetti (Il popolo a sei zampe).
Mi accennavi però di un inedito, recente interesse per la presenza umana fotografata. Puoi parlarmene?
Per quanto riguarda la macrofotografia, penso che le farfalle, le mantidi e soprattutto le libellule siano soggetti di una bellezza straordinaria: mi piace fotografarli con le tecniche e la metodologia dei ritratti in studio, quindi utilizzando sfondi adeguati e soprattutto luci di effetto. Per quanto riguarda i paesaggi, la resa prospettica e la luce naturale sono fondamentali; negli ambienti naturali, anche le atmosfere stagionali fanno la differenza tra uno scatto documentario e una foto suggestiva. Inoltre, avendo ripreso a lavorare sul paesaggio urbano ho deciso di inserire anche la figura umana in movimento, associando ad essa anche un colore dominante (il rosso su tutti). Si tratta in pratica di studi che condensano gli elementi tipici del mio modo di fotografare.



- Spesso hai raccontato la città; qual è il tuo pensiero su questo fenomeno?
Ami o critichi questa forma millenaria di convivenza, e in particolare le nostre città europee?

Nonostante la città sia da sempre soggetta a fenomeni di estremo degrado, la mia formazione come architetto, unita alla tipica curiosità del fotografo, mi permette di trovare sempre degli elementi di interesse nel paesaggio urbano. Osservando la città in un’ottica di reinterpretazione creativa piuttosto che di documentazione, e avendo sviluppato delle tecniche di elaborazione personali (La città delle fabbriche), mi è ancora possibile lavorare su questo tema dopo quindici anni senza ripetermi. Il mio interesse è rivolto alle opere più vistose, come i complessi del terziario e i centri commerciali, caratterizzati da uno stile a metà tra il postmoderno e l’Hi tech. Trovo che le città europee siano più interessanti di quelle italiane, semplicemente perché esiste il coraggio di “osare” di più e di inviare con decisione un segnale di sfida e di rinnovamento (basti pensare al quartiere della Dèfense di Parigi).
- Recentemente avete organizzato una mostra su Mario Giacomelli, cosa ti piace del suo lavoro?Come intendete valorizzare la Fototeca di Sesto San Giovanni?
Mi piace soprattutto il suo lavoro sul territorio, spesso ripreso dall’alto e spinto ad un grafismo notevole anche grazie alle tecniche di stampa. Giacomelli è uno dei pochi veri artisti della fotografia, che ha portato avanti il suo discorso visivo senza compromessi.
La Fototeca rappresenta un patrimonio notevole, considerando che sono presenti molti dei più grandi fotografi italiani con stampe “vintage”, cioè originali degli anni ’50 e ’60.
Abbiamo in programma una grande manifestazione di fotografia a cadenza annuale (Sesto Immagine è stata la prima edizione), all’interno della quale troverà posto il materiale della Fototeca (quest’anno oltre alla personale di Giacomelli abbiamo curato una collettiva sugli anni ’50 in Italia).
- Cosa ricordi di Tranquillo Casiraghi**? Quali aspetti umani? Quali fotografie in particolare?
Ricordo di aver conosciuto Tranquillo Casiraghi in occasione del concorso fotografico sulla montagna indetto dalla sezione del Club Alpino Italiano di Sesto. Per anni siamo stati entrambi in giuria, e all’inizio le nostre opinioni in merito alla valutazione delle immagini erano spesso contrastanti. Successivamente, dopo aver visto delle mie immagini in una mostra allo Spazio Arte, mi invitò ad esporre alla Libreria Presenza, nel 1999.
Ricordo di lui la cordialità e la profonda cultura fotografica. E’ stato il principale artefice della creazione della Fototeca di Sesto, cominciando ad acquisire materiale fotografico già dalla fine degli anni ’50. Sono indicativi del suo lavoro i reportages eseguiti a Sesto e sul delta del Po negli stessi anni.
- Che importanza ha la tecnica nel tuo lavoro? Quale supporto può offrire, quali stimoli ti ha dato?
La conoscenza della tecnica fotografica è la condizione necessaria per utilizzare al meglio gli elementi propri del linguaggio fotografico, quali lo sfuocato, il “mosso”, l’uso di prospettive estreme, le esposizioni multiple, e tutte le tecniche di post-produzione. Questo è il concetto di base sul quale sono strutturati i corsi di fotografia che tengo presso il nostro club e varie altre associazioni. La tecnica non è quindi fine a se stessa, ma serve ad esprimersi creativamente. Ogni fotografia deve possedere una componente creativa, perché in sostanza è una questione di scelte, che possono essere viste in successione ma che tutte assieme influiscono sul risultato finale.
Uno scatto nel quale tutto o quasi è lasciato al caso, sul quale il fotografo non esercita il necessario controllo, è un’immagine nata morta. Purtroppo nell’ambiente fotoamatoriale questo tipo di fotografia è frequente, e spesso si tenta anche di giustificarla. E’ una questione di capacità progettuale, che spesso manca. Un’immagine va, nel possibile, costruita, cioè previsualizzata, operando tutte le scelte ottimali e cercando di prevedere l’andamento delle variabili indipendenti dalla volontà del fotografo.

NOTE
* Associazione di fotografia fondata nel 1979 da Antonio Grassi, attuale Presidente e fotografo. E’ un club molto attivo, che organizza mostre ed eventi. Per le attività svolte il club ha ricevuto nel 1999 l’onorificenza di Benemerito della Fotografia Italiana da parte della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

** Fotografo sestese di fama internazionale; scomparso nel 2005.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

NOTA

Giancarlo Mannetta nasce a Milano nel 1963. Nel 1991 si laurea in Architettura al Politecnico di Milano, con una tesi sulla fotografia d’architettura, comprendente un portfolio di proprie immagini sul tema. Un successivo sviluppo di tale lavoro dà origine alla prima personale, Frammenti Urbani, del 1992. Successivamente si dedica alla fotografia naturalistica, privilegiando il paesaggio e la macrofotografia. Attualmente si è spostato verso un ambito più sperimentale e creativo. Ha al suo attivo, oltre a numerose mostre personali e collettive, molti premi in concorsi nazionali, tra cui quelli indetti dalle riviste Oasis, Orobie e dalla Società Italiana di Scienze Naturali di Milano, oltre al trofeo FIAF Lombardia. Dal 1996 tiene regolarmente corsi di fotografia per conto di varie associazioni, tra le quali la LIPU (1998).

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2007)
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Michela Grienti


- Innanzi tutto vorrei che tu mi tracciassi, per sommi capi, il tuo percorso di avvicinamento all’arte, e mi definissi le tappe fondamentali dei tuoi studi artistici.
Il disegno è stato sempre presente, un gioco serio dall’infanzia. Ricordo, con un senso di libertà gioiosa, i grandi pupazzi bianchi che i miei ci lasciavano tracciare sulle pareti, prima di reimbiancare; e la domenica pomeriggio eravamo impegnati a dipingere i fondali per il nostro piccolo teatro dei burattini, mentre la radio o il giradischi trasmetteva buona musica. Era normale visitare mostre e musei e in casa avevamo libri d’arte di buone edizioni: li sfogliavo e immaginavo delle storie. L’ora di educazione artistica era sempre al termine della mattinata: dato che fatico a svegliarmi, era quella che seguivo con maggior lucidità.
Durante l’estate del penultimo anno di liceo, un corso di pittura presso l’Accademia di Perugia mi ha fatto capire che il gioco era diventato indispensabile; di seguito è venuta l’iscrizione all’Accademia di Brera, i corsi alla Scuola Internazionale di Grafica a Venezia, la collaborazione con studi di restauro e decorazione. Contemporaneamente ho coltivato la musica ed ora partecipo volentieri ai progetti di scrittori, musicisti e compositori.



- Per quali motivi ti sei dedicata , e ti dedichi ancor oggi alla pittura astratta? Quali sono le motivazioni interiori che ti spingono verso questo tipo di arte, e quali significati personali e/o generali che in essa ravvisi?
Spesso viene definito astratto ciò che in realtà è non-figurativo: Giotto è un astrattista formidabile e le sue figure sono nitidamente caratterizzate, Burri è un artista non figurativo e la sua opera è un inno alla concretezza. Credo che le categorie figurativo e non-figurativo, concreto e astratto siano strumenti di catalogazione utili agli studiosi e alla critica. Il bisogno di definire e schedare è un falso problema per chi deve costruire un oggetto d’arte: può diventare una gabbia pericolosa, un vischio per il pensiero, una forzatura intellettuale in cui sentirsi in dovere di rientrare…a rischio di perdersi. Quando lavoro preferisco lasciarmi guidare dalla necessità: cerco di mettere in gioco quanta più parte di me mi è possibile, e con la maggiore intensità che mi è possibile. Con questo spirito guardo ad ogni opera d’arte, cercando di cogliere quanto l’artista ha investito di sé: sento che è questa la qualità che traccia il limite tra passatempo e impegno, tra mestiere e professione, tra edonismo intellettuale ed espressione. Ogni artista deve dare libero sfogo alla propria necessità, trovandole il mezzo e la forma appropriati: a volte, purtroppo, il tempo di una vita non basta.



- Parlami dei tuoi approfondimenti sul colore: Perché questo aspetto della pittura ti interessa particolarmente?
Tutto quello che mi circonda, gli oggetti che tocco, io stessa, gli altri, sono luoghi, porzioni di spazio in cui il colore è condensato, si è raggrumato lì almeno per un po’. Una cosa prima è rossa, poi la identifico come telefono o altro; un viso è quell’incarnato o quelle iridi, poi riconosco la persona. E il fenomeno continua a variare, con la luce, con la qualità dell’aria, con il mio stato d’animo. Perché il colore è una materia senza confini, mutevole, inafferrabile: mi illudo di aver capito, di aver agguantato qualcosa, in realtà è lui che cattura me. In un momento cado nelle sue trappole decorative, mi lascio ammaliano i suoi accordi, costruisco strutture carenti d’impianto, sbilancio tutti i pesi dell’immagine: il colore mi scivola sotto gli occhi e la composizione crolla come un castello di carte.
Tento di difendermi studiando…Mi interessa l’aspetto lirico, ma anche quello percettivo della dinamica di profondità e di contorni, della trasparenza: le teorie del colore, anche le più specificamente tecniche, sono affascinanti. Il colore respira tutto un suo mondo: per quanto mi documenti, mi sento sempre solamente sulla soglia di una nuova porta. Per fortuna, anche qui, le mie radici sono di sostegno: i periodi in laguna, a Venezia, con l’acqua che riflette e raddoppia l’intensità luminosa; i teleri enormi dei maestri sui soffitti delle Scuole; le tarsie di marmo sul pavimento della Cattedrale e sopra la testa un cielo ininterrotto di metri e metri quadri di mosaico d’oro. La mia infanzia è stata una ubriacatura di colore, di ottima annata, della qualità migliore.



- Tu ti dedichi anche allo studio del canto e alla pratica corale, ed inoltre lavori all’interno di una struttura musicale in cui ti occupi nella fattispecie di organizzazione di concerti da camera. Mi interessa capire in che rapporto stanno per te arte visiva e musica, e queste tue molteplici esperienze artistiche.
Musica e pittura sono sempre state sorelle per me, non ricordo un periodo in cui io non le abbia praticate entrambe. Una volta, scherzando, ho detto ad un’amica che la pittura mi svuota l’anima e la musica me la riempie: non è un’affermazione tanto lontana dalla realtà. Ho studiato per anni le ricerche inerenti i rapporti tra suono e colore, un tema che già nel Rinascimento affascinava scienziati ed artisti, una serie di stimoli che moltiplica all’infinito le possibilità di espressione. L’intersezione dei linguaggi e delle tecniche affina la sensibilità di chi opera, e al pubblico vengono offerte diverse sfaccettature di uno stesso soggetto, più conferme di uno stesso messaggio: il respiro si fa più ampio, la mente può cogliere il miracolo delle armonie.
Nel coro trovo un equilibrio alla solitudine cui la pittura mi obbliga. Mi piace il lavoro concentrato e appartato, ma mi entusiasma il gioco di squadra: partecipare ad un’attività collettiva mi costringe ad una sana disciplina, mi insegna a convivere, a confrontarmi e scontrarmi, ad accettarmi ed accettare, a difendermi ed a godere degli altri e delle differenze. In coro ho imparato che esiste sempre un punto di incontro e lo si trova, purché si sia impegnati a cercarlo e volerlo, tutti seriamente, con la medesima intensità: quando accade non c’è oro che mi ripaghi altrettanto. E poi il coro è “la voce del Fato”: il coro non si tocca.



- Poiché anch’io sono sempre stata affascinata dalla storia e dalla cultura medioevali, vorrei che tu mi parlassi del tuo lavoro più recente, l’installazione realizzata in settembre presso la Certosa di Garegnano, che fa riferimento ad alcune tappe della Via Crucis e propone una serie di figure di angeli ciascuna delle quali contrassegnata da un simbolo del martirio. So che per realizzare questo lavoro ti sei documentata su testi della Scolastica, ma vorrei mi parlassi più diffusamente di questa tua ricerca.
In realtà l’installazione fa riferimento alla pratica devozionale delle Arma Christi, istituita da Papa Gregorio Magno nel VI secolo, abolita nel Settecento e sostituita dalla Via Crucis, nella forma in uso ancora oggi. Se ne trova documentazione abbondante in tutta la storia dell’arte antica, dalla medioevale alla barocca: la tipologia dell’Uomo di dolori, del Cristo in Pietà, dell’Albero dei Frutti della Passione, della Schiera celeste degli Armati.
Si tratta di una forma di riflessione religiosa sulla Passione, mediante la meditazione sugli oggetti-simbolo che attraversano il cammino di Cristo, dall’episodio dell’Unzione in Betania fino alla Crocifissione e alla Deposizione. Sono tutte cose che egli ha maneggiato e visto sin dall’infanzia, che lo accomunano a qualsiasi essere umano, esaltando l’aspetto concreto dell’incarnazione: oggetti che, nell’ultimo terribile tratto della sua esistenza, gli si rivoltano contro, divenendo strumenti per un processo iniquo, una tortura inutile e la condanna a morte. Ogni cosa chiede di ricordare il momento in cui è stata utilizzata, tutte invitano alla riflessione che può arricchirsi degli spunti della narrazione tratta dai testi evangelici, dalle profezie dei brani biblici, dai salmi messianici. L’immaginazione dilata il pensiero: la sosta della meditazione non ha più un tempo stabilito, come davanti alle stazioni della Via Crucis.
Le Arma Christi sono il tentativo di conciliare un messaggio colto con una forma linguistica accessibile anche alla più semplice delle menti, facendo leva sulla sua abilità immaginativa. Acquisire la capacità di dare un senso al dolore: è il messaggio salvifico della Croce, che rammenta alla creatura umana il suo ruolo in disegni molto più grandi di lei. Le Arma Christi come il Carroccio di Ariberto: qualunque sia l’esito della battaglia, cerca con lo sguardo la Croce, per ringraziare o per trarre conforto.
Per quanto riguarda il lavoro di documentazione, oltre che al patrimonio delle immagini, ho attinto ai testi della meditazione bizantina e ortodossa, ai Vangeli canonici e a quelli apocrifi. E’ un patrimonio sconfinato che continuerò a visitare, perché il mio esercito di angeli è ancora lontano dall’essere completo: gli elenchi contano una lunga lista di oggetti rappresentabili, l’installazione crescerà col tempo. Sarei felice di trovare ogni anno, nella Settimana Santa, una chiesa ospite per poter esporre questa milizia, ogni volta arricchita di nuove presenze.
- Cosa ti interessa e ti piace della pittura contemporanea e dell’arte attuale in generale?
- Cosa pensi dello stato attuale dell’arte in Italia e nel mondo? Vorrei che tu esprimessi la tua opinione circa la situazione locale e globale, e mi dicessi se tutto ciò è di qualche tuo interesse, o se preferisci portare avanti il tuo cammino senza riferimenti al presente, magari invece al passato. Come ti rapporti a ciò che ti circonda, artisticamente?
Con curiosità e con stupore. Viviamo in un mondo dove la comunicazione è diventata una forma di bombardamento, dove ciò che un tempo era permesso a pochi oggi è alla portata di molti. La produzione artistica attuale è vastissima: si resta storditi dal caleidoscopio delle possibilità. Cerco di non avere pregiudizi, né riguardo ai linguaggi, né riguardo alle epoche, né riguardo ai soggetti: c’è sempre da imparare. Nel mio operare sento la necessità del rapporto con la materia, non riesco ad escludere il senso tattile; sento distanti da me le ultime correnti di video arte e arte digitale: barerei se mi costringessi a questi tipi di linguaggio. Tento però di restare aggiornata e seguirne le evoluzioni, senza smettere di incontrare e scontrarmi: comunque in cerca di lezioni e conferme. MI allontano solo quando vedo che il mezzo tecnico è un espediente non giustificato o si sostituisce al messaggio, o quando un’opera è così sofisticata che mi sembra diventi un gioco per mettere alla prova i sensi dello spettatore, stuzzicando i suoi riflessi, senza offrire nulla alla sua anima. Il secolo scorso ha messo sul tappeto il problema del linguaggio: una svolta straordinaria, un salto per la coscienza purché il linguaggio, divenuto il messaggero di sé stesso, non porti l’intelletto a prevalere in quello che per me rimane un “gioco a tre”: di istinto, di razionalità, di lirica saldamente bilanciati nel dire. Vivo il rapporto tra artista e pubblico come uno scambio, un dialogo silenzioso per superare i dati contingenti, anche quelli dell’opera che è la scusa per dire altro o, meglio, l’Altro.
Quando sento parlare di morte dell’arte, di superamento della pittura, mi chiedo a che cosa ci si riferisca: l’uomo ha tutti i modi e i mezzi che crede più opportuni per coltivare la propria immaginazione, seguirne i percorsi e costruire narrazioni dei suoi rapporti col mondo. Non mi sembra giusto applicare in modo confuso le categorie dell’anima a quelle dell’intelletto e viceversa, spacciando le strategie del mercato e della moda per criteri operativi di giudizio: questo ingenera solo pregiudizi. Mi sento responsabile per le immagini che propongo: credo che gli artisti siano responsabili del benessere dell’anima collettiva, come i medici e gli scienziati lo sono per il corpo, i religiosi e i filosofi per lo spirito. Credo che una società civile non possa escludere nessuna di queste tre componenti dell’uomo, mentre mi pare che l’anima venga sempre più trascurata: i guasti sono sotto gli occhi di tutti, però molto pochi lo notano. Se si uccidono i corpi si è accusati di omicidio, ma se si uccidono le anime non fa nulla, perché non occupano spazio e muoiono in silenzio, insieme alla fantasia, all’immaginazione, al gusto e alla capacità di distinguere la qualità della vera arte. La Pop Art ci aveva messi in guardia: la vera arte ha sempre un carattere profetico. Il nostro paese ha la materia prima di un’eredità artistica formidabile, che tutto il mondo ci invidia, non solo per quantità e qualità di opere, ma per esempi di professionalità: purtroppo la nostra incoscienza è pari solo alla nostra presunzione.
- Per concludere mi piacerebbe che questa intervista servisse a dare un’idea della tua, diciamo così, “visione del mondo”.
- Qual è la tua chiave di lettura del mondo che ti circonda? L’arte ti ha fornito e ti fornisce delle risposte ad interrogativi importanti? È per te una fonte di conoscenza e quindi ti infonde sicurezza, o piuttosto ti crea dei dubbi e degli interrogativi in più sul senso dell’esistenza?
Trovo il mondo che mi circonda, la realtà visibile come quella invisibile, affascinante per l’infinita molteplicità che mi propone. Mi stupisce la varietà delle specie e dei luoghi che i regni naturali offrono, mi sgomenta l’intreccio saldo tra i macro e microcosmi: quando ci rifletto avverto l’energia potente nella materia, come un magma che lega l’universo, e mi prende un senso di vertigine Provo un timore reverenziale a volte accompagnato da una grande felicità e, sempre comunque, la coscienza del pulviscolo e dell’instabilità di tutto, di un movimento di trasformazione incessante. L’arte mi obbliga ad una percezione più sottile: a leggere i dettagli del contingente sempre come inseriti in disegni più grandi, alla costante contemporaneità di passato-presente-futuro; mi costringe ad esaminarmi, a misurarmi, a riflettere, a meditare: mi dà un compito ed un modo per attraversare la vita. Spesso penso agli uomini della preistoria, ai i nostri progenitori incalzati da preoccupazioni primarie, concrete e repentine, costretti costantemente a convivere con paure enormi: eppure l’esigenza di rappresentare li occupava, li impegnava, li rassicurava, dava senso alla loro esistenza. L’impronta della mano umana, sulla parete di pietra, nel buio delle caverna, mi emoziona come il più antico fra i capolavori. Le esigenze mutano, la cultura si affina, la tecnologia progredisce, “cambiano le maschere”: l’impulso primo rimane, come la prima sillaba.



Intervista curata da Laura Montingelli




NOTA


Michela Grienti è nata a Milano nel 1963.
Si è diplomata nel 1986 all’Accademia di Belle Arti di Brera. E’ stata assistente ai corsi di litografia presso la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia, e ha insegnato Discipline pittoriche nelle scuole superiori e Cromatologia nelle scuole professionali d’arte; collabora con studi di restauro e grafica e edizioni d’arte.
Svolge la propria attività pittorica nell’ambito della ricerca fono-cromatica, collaborando con musicisti e compositori.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2007)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO


Andrea Pedrazzini


- Questa serie di tue opere recenti, qui presentate, rappresenta un'altra faccia del tuo variegato lavoro d'artista. Come nasce una Nebula e qual è l'intimo processo dal quale scaturiscono queste tue silenziose opere?

Ogni singola Nebula è prima di tutto il frammento di un progetto. Il mio lavoro artistico trova senso - prima di tutto - nell’idea stessa di progetto, cioè nell’attitudine paradossale di costruire e tenere in piedi un’architettura ideale impossibile, di sistematizzare le eccezioni (come facevano i Patafisici), di catalogare e mettere in fila ciò che in realtà non può non sfuggire ad ogni classificazione sensata. Non riuscirei mai a realizzare un disegno od un qualsiasi intervento artistico che non facesse parte di una “serie”, di una complicata processione di varianti e di piccoli, successivi spostamenti di senso. L’arte è il senso ( o l’informazione visiva o…) che –silenzioso come un animale notturno – semplicemente si sposta. Da qui va lì. Da un sussurro passo ad un altro sussurro: lo spostamento, il ponte analogico che si stabilisce tra partenza ed arrivo, quello è l’opera d’arte… La collezione delle varianti è allora per me il senso profondo del fare arte; parlo di bagliori o sussurri seguiti da altri bagliori o sussurri, che poi – raccolti, così come si raccolgono le foglie d’autunno – si aggregano in un’opera, una qualsiasi, una che è un pezzetto della storia interminata, foglia tra le foglie, ma che custodisce una specie di piccola luce accesa: un inizio di senso…l’arte è l’astuzia di Pollicino e - insieme - è la nominazione perpetua del mondo da parte di Adamo; dentro il bosco non-narrativo e labirintico del mondo o, meglio, camminando sul suo tappeto di foglie, ogni tanto riconosco un ammasso, un segnale intravisto, un brano di senso che si sta formando e, riconoscendolo, lo ricreo. Lo salvo dall’afasia o dallo strepito di folla, perché lo inserisco in un brandello di frase, che è la “serie”, il progetto che dà senso al tempo. La mia arte è fatta di tempo che si mostra. Ogni Nebula (che in concreto è un intervento, talvolta sviluppato in tempi diversi, a colori acrilici su carta stampata ) nasce da questa sorta di riconoscimento, di incontro (casuale) dello sguardo con un frammento di senso involontario, nascosto o implicito. Eppure, se è vero che la serie spiega il dopo con il prima ( e più ancora con il durante ), se è vero che ogni tassello riceve significato dall’insieme immaginato, è anche vero che il riconoscimento avviene per spalancamento d’occhi e sobbalzo di pensiero, per via cioè di meraviglia: ogni singola Nebula tende al meraviglioso. La meraviglia da Nebule è però da intendersi nella sua forma primigenia, come stupore atterrito di fronte a ciò che vive senza di me, di fronte all’irriducibilità radicale di un’altra presenza nel mondo che mi guarda.Dunque l’artista è un raccoglitore, un collezionista di sguardi e le Nebule sono i frammenti di una sua collezione, una collezione senza capo né coda ma anche intrisa di emozione fino alla cianosi da ritenzione d’aria…Gli altri miei progetti, in particolare il De Bestiarum Naturis ( 999 tavole a china di animali fantastici) e i Disegni del Penultimo (disegni a grafite su carta), seguono una logica simile. Il DBN poi, iniziato nel 2000 ed arrivato a circa un terzo del suo percorso, esplora in profondità non solo i meccanismi che, a partire dalla tarda antichità, hanno presieduto all’ideazione-variazione degli animali fantastici, ma ancor più esplora l’idea stessa di “serie” che cresce sulle varianti, cercando di verificare visivamente l’insufficienza del primo che diventa senso forte dell’ultimo, il feedback dell’ultimo che rinomina il primo. Insomma, nelle mie opere, in un certo modo, c’è più pensiero che visibile… Anche i Disegni del Penultimo sono una serie ma in modo differente: si tratta di un’esplorazione libera, senza uso di mappe mentali o mete da raggiungere, della analogia; guardo cosa succede, insomma, dentro una serie lunga e complessa di disegni consecutivi, dove un disegno genera l’altro ( da qui l’idea di Penultimo, cioè di quasi-fine ) e dove l’insieme – forse – genererà un senso per leggere l’intera opera.
Ma i Disegni del Penultimo sono principalmente un libro. Per costruire una serie sbilenca, procedendo a tentoni, ho spesso bisogno di una cornice più forte, altrimenti volerei via al primo alito di vento o alla prima nostalgia di pigrizia. Il libro è l’oggetto/cornice che mi rassicura, perché permette ogni viaggio (autentico) ed ogni ritorno (Illusorio). Adoro fare libri, libri d’artista… libri che siano avventure tra loro diversissime, usando i pennini, gli acrilici, il computer, mescolando qualsiasi tecnica con qualsiasi materiale o cercando il rigore di un’astrazione concettuale, di una singola frase perfetta... Tutto mi appartiene ed io appartengo a tutto. Ma questa appartenenza al tutto è una scelta profonda e necessaria; non c’entra con una superficialità eclettica o con una attitudine “piccolo-barocca”: piuttosto nasce dalla ricerca rigorosa, dal bisogno di dare un senso profondo a ciò che faccio. Un senso che viaggi sotto lo stile e sotto le tecniche. Credo poi che questo senso sotterraneo nasca un bisogno etico o di eticità anche nell’arte e nella comunicazione…

- Una delle caratteristiche che ti appartiene, è l'amore e la pratica della poesia; questo luogo virtuale nasceproprio dal desiderio nostro di avvicinare quanto più possibile queste due discipline artistiche. Quale interazione si crea nel tuo lavoro tra questi due diversi e infiniti riferimenti? Infiniti?
Sì, infiniti… ma solo nel senso che la ripetizione seriale delle varianti, che sostanzia la mia arte. come nella musica minimale non tende a creare una fine del processo ma anzi tende a sviluppare il processo creativo, ad ingigantirlo, variandolo all’infinito. Insomma io non credo in una poesia che tenda o ricerchi l’infinito, in nessun senso. Lo trova solo come necessaria moltiplicazione di variazioni. Credo, anzi, che le peggiori truffe (e non solo in arte) si basino proprio sulla grande seduzione dell’infinito, del destino eccezionale o del misterioso, del capolavoro inarrivabile o dell’ispirazione oltreumana. Mi sono lontanissimi coloro che si sentono messaggeri di queste idee e che sono invasati dall’arte… Io invece penso all’arte come ad un problema meraviglioso ma doloroso, una difficoltà che ho con me stesso e con il mondo… Odio l’arte innocuamente “spirituale”, così come odio la poesia innamorata di se stessa, narcisista; non concepisco l’idea che si possa fare arte senza portarsi dietro, e dentro, un’idea profondamente tragica della vita. Parlo di attitudini, ovviamente, e non di stili o tecniche… L’artista per me è prima di tutto un intellettuale consapevole e non un invasato o un prescelto. Non è un sacerdote della bellezzaconsolatrice ma un sop-portatore di dolore, che lo elabora anche attraverso la bellezza.In questo senso, soprattutto nell’ultimo periodo, mi sento di applicare la scrittura a dei progetti artistici complessi, magari all’interno delle opere delle Buioproduzioni o nella redazione di un libro o altro… Le Nebule sono in realtà degli scrigni per parole, veicolate da bagliori e colori… Il rapporto tra visivo e verbale è per me, che vengo anche dal mondo dell’illustrazione, estremamente stimolante e fertile. Riuscire a produrre oggetti visivi creativi capaci di contenere o di conservare dei testi verbali altrettanto creativiè un obbiettivo costante della mia arte, forse ne è il nucleo più caldo: disegno o produco oggetti per conservare delle parole, delle frasi che altrove non avrebbero senso…i miei disegni e le installazioni delle Buioproduzioni sono delle macchine visive che permettono la sopravvivenza di parole… Certo, talvolta un testo poetico nasce dopo che l’opera visiva ha già preso forma, arriva cioè “in ritardo”; ma anche così il testo trova un senso forte, perché diventa una sorta di seconda chiave di lettura dell’opera, un metatesto sbilenco che allarga la percezione generale dell’opera. Integrata nel visivo, la parola trova una potenza diversa… è come tracciare un sentiero che, per quanto incerto e bifido, si inoltri in un tappeto di foglie …e può anche succedere che la poesia, nata all’interno del progetto per un’opera, prenda una strada diversa e si stacchi dalla sua destinazione, perché riesce a creare senso da sola…



- Nel 1997 hai fondato con Umberto Parenti il progetto Buioproduzioni (http://www.buioproduzioni.com/); vuoi raccontarci da cosa nasce questa vostra collaborazione e più nello specifico di alcuni aspetti che ritieni importanti del vostro lavoro?

La collaborazione con Umberto nelle Buioproduzioni è una avventura straordinaria, anche se spesso problematica e difficile. Un’avventura autentica e profonda, che ci porta a progettare e realizzare opere che nessuno di noi due, separatamente, avrebbe mai immaginato. Gli aspetti importanti del nostro lavoro sono le singole opere, non più di una quindicina finora, perché le opere delle Buioproduzioni portano con sé un tasso così decisivo di teoria, progettazione e pensiero che ognuna diventa un mondo a parte, con una sua storia individuale. Diventa, per noi, il monumento di un determinato luogo mentale della nostra collaborazione. Realizzare un’installazione è per noi un’operazione così emotiva, intensa e rara che ogni volta sentiamo il bisogno soffertodi ricominciare in qualche modo da zero, di ripensare tutto e di eliminare, per quanto possibile, ogni inerzia creativa. Anche se Umberto ed io ci diciamo spessissimo che possiamo e dobbiamo lavorare anche con qualsiasi altro materiale, ci ritroviamo sempre a lavorare principalmente con il legno, che è un materiale vivo, caldo, pieno di affetti e storie e che si può lavorare sia con grande precisione sia in modo più grossolano e brutale; è un materiale magnifico. Su di esso la luce scivola dolcemente e si raccoglie in pozze quasi umide di chiarori o crea bagliori in fuga dal buio, schiaffi di visibile e labirinti d’improvvise intuizioni… Come vedi, le nostre installazioni sono dei luoghi dove la luce, timida o sfacciata che sia, si inoltra all’interno, rivela un nucleo caldo che produce senso e affezione e dove lo spettatore, seguendo la luce nei suoi diversi rivoli, scopre lentamente “di cosa è fatta” l’opera, qual è il bandolo della matassa; scopre la luce che, attraverso le forme che rivela e nel modo in cui le rivela, diventa pensiero emozionato…


- Qual è la tua opinione sull'arte di oggi? Quali artisti del passato recente hai più amato?

Siamo in un’epoca molto stimolante, straordinariamente ricca di arte ma anche straordinariamente povera di ruolo per l’arte; sembra che l’arte, che ovviamente non serve a nulla, abbia per questo perso da lungo tempoogni ruolo sociale che non sia il mercato e l’intrattenimento; l’arte cioè non viene vista come un momento ( anche collettivo ) di lettura creativa del mondo e di apertura di nuovi spazi possibili, ma viene usata cinicamente per fare soldi o superficialmente per di-vertire la gente dal problema del senso… Dunque mi piacciono gli artisti più profondi e riflessivi, capaci di giocare lentamente con l’arte, con la stessa serietà con la quale giocano i bambini… gli artisti capaci di farsi carico del problema del senso, senza delegarlo ad altri (critici o pubblico che siano): Burri e Chen Zen, tanto per cominciare ma anche alcune esperienze dell’arte concettuale, Baruchello e la poesia visiva, ma considero di un passato recente anche le Wunderkammern secentesche, gli incisori del XVIII secolo che, per primi, hanno spezzato la finestra ottica moltiplicando gli spazi interni al disegno ecc. I riferimenti e gli amati, magari per una sola opera, sono tanti: la mia tradizione visiva è piuttosto complessa e si mescola con autori letterari, con i poeti e le persone che ho conosciuto ed amato… non c’è differenza, sono un unico flusso creativo di memoria…

- Tornando alla poesia: ti chiedo di introdurci brevemente alla lettura di questo tuo bello e "strampalato" poemetto.

Grazie. E’ un testo nato per fare da colonna sonora ad un’opera delle Buioproduzioni, Il rifugio del bianco, opera che però non è stata ancora realizzata; quasi subito, dopo le prime strofe così cantilenanti, il testo ha cominciato a vivere di vita propria, staccandosi dal progetto dell’installazione e diventando una sorta di lucido delirio profetico, di slancio verboso apocalittico e di ebbra esaltazione da catastrofe… dentro questo delirio, però, si attuano dei processi per cui ogni tanto le parole si combinano in frasi sensate, in ondate ricorsive di parole attaccate al vero che, se anche sprofondano subito in una sorta di magma dislessico, rimangono come echi sotterranei e vengono riprese, variate, commentate fino ad arrivare all’inciampo finale che, nella testarda e drammatica ripetuta, si ferma senza fermarsi, si ferma perché ha toccato l’infinita afasia del mondo…

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci


NOTA

Andrea Pedrazzini vive e lavora a Milano. Suoi disegni sono stati pubblicati, a partire dal 1987, dal Sole 24 Ore, Alfabeta, La Gola, Slow, La Stampa, L'Unità, L'Atelier du Roman, L'Autre Journal, The Wall Street Journal, Chicago Tribune, Linea d'Ombra e molti altri. E' stato illustratore e redattore della rivista di poesia contemporanea Baldus. Ha partecipato a varie esposizioni collettive e rassegne d'arte contemporanea. Nel 2000, insieme ad Umberto Parenti, ha fondato le Buioproduzioni, atelier di arte contemporanea.

Intervista pubblicata su
 www.cerchioazzurro.com (2005)
ARCHIVIO CERCHIO AZZURRO



Antonio Sammartano



- Quali sono le tematiche che proponi con la tua pittura? Di quali elementi della realtà che vivi si nutre il tuo immaginario?
Non è facile per me presentare, attraverso una spiegazione razionale, le scelte di un itinerario di lavoro che si è sviluppato nel tempo e che non offre la linearità di un progetto narrativo precostituito e preordinato. Una riflessione sulle cose fatte, sulle diverse esperienze maturate, mi rivela, più che un percorso pianificato, un insieme di tappe. Queste tappe, quasi delle isole, costituiscono un metaforico arcipelago di situazioni che pur nella loro specificità, coesistono e dialogano grazie ad una serie di comunanze e corrispondenze di carattere contenutistico e formale.


- Opere recenti come Fluido magico, Ipnotica o Mercuriale, da te realizzate nel corso di quest'anno; ma anche tuoi lavori meno recenti, offrono allo spettatore con molta chiarezza un' idea artistica che molto ha a che fare con un concetto di purezza e d'assoluto. Artisticamente parlando, viene spontaneo rapportare il tuo lavoro alla storia recente e ininterrotta dell'arte astratta. Come ti rapporti rispetto a quella tradizione del moderno; avverti un'appartenenza del tuo lavoro a quegli ideali e ne senti ancora l'attualità?
Artisti come Rothko o Pollock mi hanno trasmesso sicuramente degli input importanti.Qualche anno fa trovandomi per la prima volta davanti ad una grande opera di Rothko, non vedevo una tela con della pittura sopra, ma ai miei occhi si apriva uno squarcio su un´altra dimensione, dove sotto una calma apparente si intuiva una grande energia trasversale in continua evoluzione.Non mi piace la pittura, mi piace ciò che attraverso essa si può raggiungere. L´arte è alchimia tra materia, respiro, luce, ricerca di qualcosa di più prezioso che non la forma o la decorazione. Nel novecento l´astrazione ha sviluppato dei grandi interrogativi che hanno spinto oltre l´apparire alla ricerca dell´essere. Credo che il suo linguaggio abbia dato risposte più congeniali ai bisogni di quel periodo e di quella società. Oggi nell´epoca dei "reality show", il suo messaggio ha una responsabilità in più, ma non deve essere un´esercizio di stile, che la banalizza in una forma di arredamento domestico.


- Nel 1999 hai realizzato un'installazione di cui riportiamo le immagini sul sito, aprendoti come ti è consueto a media differenti dalla più tradizionale pittura. Mi piacerebbe che ci raccontassi come è nato questo tuo lavoro e più precisamente in cosa è consistito.
L´installazione (costruita in un grande capannone industriale) era composta da due elementi circolari. Un elemento di legno (che oscillava lentamente) era appeso alla parete, l´altro formato di terra e pigmenti era sistemato sul pavimento. Col passare del tempo i visitatori hanno distrutto il cerchio di terra (alcuni in maniera consapevole altri inconsapevolmente). Alla fine la terra è stata ricompattata in piccole sfere e all´interno di esse sono state introdotte delle piccole radio che trasmettevano in lingua araba. In questo lavoro ho ricondotto una parte della mia energia alla memoria storica del mediterraneo alla sua percezione, attualmente distorta e sfumata, ma che continua a illuminare il nostro pensiero.


- Stai contribuendo alla fondazione della collezione d´arte religiosa contemporanea denominata DIART per la diocesi di Trapani in qualità di curatore del progetto. Vuoi spiegarci a questo proposito di cosa si tratta e cosa diventerà il progetto DIART?

La Collezione d´arte Religiosa Contemporanea della Diocesi di Trapani è nata concretamente nel 2001 da un´idea di Don Liborio Palmeri , direttore del seminario vescovile di Trapani e studioso d´arte contemporanea. In questi due anni abbiamo acquisito circa 130 opere di artisti italiani e stranieri. Si tratta nella maggior parte di giovani artisti che usano diversi medium, si va dalla pittura alla fotografia all´installazione alla scultura e al video. Abbiamo notato che il rapporto tra l´artista e il tema religioso è oggi molto controverso, ma sicuramente più "sincero" di alcuni anni fa. Inaugureremo la DIART ad aprile e credo che sarà una sorpresa per tutti.
- Una fotografia come Ultravision mostra chiaramente l´affinità e la coerenza tra le tue opere pittoriche e quelle fotografiche, il rimando è immediato. Quando decidi di passare da un media ad un altro e perché?

Sono molto istintivo e quindi non programmo il "passaggio". Raccolgo materiale fotografico per anni, poi improvvisamente cerco di definirlo distorcendone il senso reale attraverso le elaborazioni con i vari programmi di grafica. Anche con la pittura avviene la stessa cosa, inizio le opere e dopo sei -sette mesi (ma a volte anche anni) intervengo definitivamente.





- La tua formazione è duplice; hai iniziato con un corso di studi in architettura e concluso con un diploma in pittura presso l´Accademia di Brera di Milano. Hai collaborato recentemente con lo studio d´architettura dell´architetto trapanese Mancuso; cosa c´è nel tuo lavoro d´artista di questo contatto che continui ad avere con l´architettura?
Gli studi d'Architettura mi hanno sicuramente aiutato molto a capire il valore di un progetto e a percepire l'essenza dello spazio in cui agire. Nella radiografia dei miei lavori, dalla pittura alla foto all´installazione c´è sempre l´indagine spaziale e il continuo misurarmi con esso. Attualmente continuo a lavorare con diversi studi di architettura della mia citta´ e uno studio di design a Baltimora. Con l´architetto Mancuso abbiamo terminato da poco l´idea progettuale del piano del colore della città di Marsala, un´esperienza significativa e molto stimolante che speriamo abbia un seguito nell´attuazione del progetto. In particolare io mi sono occupato di analizzare i colori naturali attraverso la raccolta di campioni (pietre, sabbia, piante...) e di estrapolare i colori utilizzabili per la realizzazione dei prospetti di tutti gli edifici della città e del suo territorio.



- Raccontaci i tuoi progetti d´arte futuri, oppure a che cosa di recente stai lavorando.
Il progetto della DIART è molto impegnativo e lavoro molto in questo senso, mentre continuo a collaborare attivamente con la Galleria d´arte contemporanea di Trapani Quadreria del lotto di cui sono stato direttore artistico negli anni passati. C´è un altro progetto a cui tengo molto, Studio Blu, open space per giovani artisti italiani e stranieri. Mi piacerebbe moltissimo che Trapani diventasse una città attiva nell´arte contemporanea, attraverso mostre, incontri, dibattiti, anche se purtroppo con rammarico devo constatare che l´amministrazione comunale attualmente non percepisce questa mancanza. Credo che si possa sopperire a questo con l´energia e la voglia di fare, ed è per questo che ho deciso di vivere nella mia città e dare il mio contributo.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci


NOTA

Antonio Sammartano è nato a Erice nel 1967.
Ha frequentato la Facoltà di Architettura di Firenze e l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 1995 ha tenuto la sua prima personale alla galleria Morone di Milano, e nel 1996 ha rappresentato l’Italia a Germinations 9, Biennale europea dei giovani artisti.
Da allora è presente in numerose collettive in Italia e all'estero.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2004)
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Michael Oberlik



- LA PITTURA, perché...
Intravedo, nella forza espressiva della tua pittura, delle affinità con quei movimenti artistici di ripresa della disciplina pittorica attuati verso la seconda metà degli anni Settanta in area tedesca dai Neue Wilden. Pur se di natura prevalentemente astratta, i tuoi dipinti mi sembrano infatti poco affini alle matrici dell'informale storico e più vicini, per sensibilità e gusto, a pittori come A.R. Penck, Markus Lüpertz, Karl Heinz Hödicke, Antonius Höckelmann, Jörg Immendorff. Ti riconosci nelle istanze di ripresa della pittura di quegli anni? Ritieni che possa essere ancora utile ribadire, oggi, l'importanza della pittura nell'arte contemporanea?
Dal 1976 al 1980, periodo in cui muovevo i miei primi passi d'artista, sono rimasto impressionato oltre che dagli artisti da Lei citati anche e soprattutto dal pittore Emil Schuhmacher e dall'artista austriaco Markus Prachensky. Nel 1980 i miei quadri erano più "spontanei" più "ariosi", colore puro su carta bianca. Poi negli anni '90 il fondo trattato è diventato una mia esigenza e sono nati i primi "segni significanti", una ricerca che mi impegna ancora. Per quanto riguarda la seconda domanda, io penso che la pittura non sarà mai poco importante e nell'epoca dei nuovi media l'importanza della pittura crescerà! Vede, la pittura nasce nella testa, transita per il cuore e viene trasferita dalla mano non certo da un computer o da una videocamera e le peculiarità dell'artista sono quasi una firma.






- RACCONTARE...
Le nuove opere che presenti in questa mostra, Raccontare, fanno parte di un ciclo concettualmente strutturato come un'opera letteraria; più precisamente, è come se si trattasse di un unico grande libro. Che rapporto hai con le altre arti, e cosa intendi raccontare con questo tuo "grande libro visivo"?

Per me tutte le arti sono importanti, da giovane ho fatto parte di una band rock, suonavo il piano e la chitarra inoltre scrivevo moltissimo, suonavo e scrivevo perchè volevo "raccontare". Anche il contenuto di un quadro racconta qualcosa, chi li osserva deve appropriarsi del contenuto, interpretando come crede "i segni significanti". Fare ciò vuol dire leggere qualcosa che parla di me, ma che può aiutare il lettore a "leggersi".




- AUSTRIA E ITALIA
Tu abiti in Austria, a Linz, ma sei spesso in Italia, dove hai diversi contatti con il mondo dell'arte. Quale è lo "stato di salute" dell'arte contemporanea in Austria, e quali differenze riscontri tra gli operatori del settore nei due paesi?
Secondo me la situazione in Austria è meno "aperta". E' molto difficile entrare nelle gallerie d'arte, dove espongono sempre i soliti artisti che fanno parte di un determinato circuito, in Italia mi sembra che la situazione sia migliore grazie forse ad una sensibilità tutta vostra, anche se il mercato dell'arte è in crisi ovunque.




- ARTE CONTEMPORANEA INTERNAZIONALE
Ti senti attratto dalle più recenti evoluzioni dell'arte contemporanea internazionale?
Quali sono gli artisti, le culture, i movimenti che più ti interessano?
In generale mi interessano tutte le belle arti, ma soprattutto le innovazioni nel settore della pittura; l'arte "computerizzata" o la video art per me sono un po' difficili.Inoltre mi interessano molto queste relazioni dell'arte con i movimenti sociali, politici, per esempio il lavoro delle Sorelle HohenbUüchler in Austria.
- EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO ARTISTICO ED INNOVAZIONE
Ritieni che l'innovazione debba essere considerata una delle priorità nel lavoro di un artista? Quali secondo te, devono essere le priorità comunicative di una ricerca artistica e cosa l'artista "dovrebbe" principalmente raccontare?
Innovazione e sviluppo dovrebbero far parte di ogni artista. Ciclicamente ogni artista dovrebbe raccontare se stesso le sue mutazioni i suoi cambiamenti, facendone ricerca, perché la vita di ognuno cambia e tutto può cambiare anche il modo di dipingere. La mia priorità comunicativa comunque è sempre e solo cercare di rendere la gente più sensibile, più attenta, più riflessiva, più aperta a nuove idee a tutto ciò che succede. In questo senso, il mio lavoro ha un aspetto sociale e politico.


Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci


NOTA

Michael Oberlik nasce a Linz nel 1956.
Maggiorenne, realizza performances in gallerie austriache d'avanguardia ed espone le sue prime opere visive, disegni e dipinti, presso il Tanzstudio Gangl di Linz. Lo stesso anno, si iscrive alla Paedagogische Akademie des Bundes, dove i suoi docenti sono i Professori Georg e Wolfgang Stifter e Helmuth Engler.
Durante gli anni di studio, partecipa di frequente ad esposizioni di gruppo in Oberösterreich. Dal 1979 inizia ad insegnare materie artistiche e pedagogiche presso vari Istituti austriaci. Al contempo, intensifica la sua attività artistica ed espositiva in gallerie private e contesti pubblici. Dal 2000 si fanno sempre più frequenti i suoi viaggi e soggiorni in Italia e Spagna. Più recenti le sue collaborazioni artistiche trasversali con il fotografo e amico Heimo Penn e con il poeta Ernst Schmid. 

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2005)
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Stefania Romano


- Spesso i titoli delle tue fotografie, si rendono complici ed alimentano l'enigma sempre presente in ogni tua opera che viene quasi esplicitato in fotografie come L'umano duello. A cosa è riferito questo titolo, Mantafi, dell'intera raccolta che qui presentiamo? Come scegli i titoli delle tue opere? Ti è mai accaduto di partire da una parola, un nome, ed intuirne solo successivamente la forma, l'immagine?
"Mantafi" è il nome che davo ai fantasmi quando ero piccola. Questi ultimi credo vivano sempre dentro ognuno di noi. Titolo ed immagine nascono generalmente insieme, e sono strettamente correlati al contenuto della fotografia scattata.



- Bianca è una fotografia con rimandi al Simbolismo pittorico, o al Preraffaelitismo inglese; nel tuo lavoro, come in quello di Alessandro Di Giugno, si può osservare una profonda cultura visiva ricca di intuizioni artistiche con rimandi non solo ad un immaginario visivo contemporaneo, spesso, ad episodi dell'arte del nostro passato. Nella tua opera, in particolare, trovo diversi elementi dell'arte e del teatro contemporaneo; di questa cultura visiva più classica, con riferimenti particolari alla pittura, ma anche un forte elemento di "spaesamento" che mi pare provenire da una particolare affinità delle tue opere con l'arte e la fotografia surrealista dei primi decenni del Novecento. Mi sbaglio se ritengo, avendo solamente osservato il tuo lavoro senza ancora conoscerti, che tu sia un'artista in particolar modo, "onnivora"?
Mi piace guardare al passato come al presente. Sono convinta che le informazioni siano necessarie. Spesso mi rammarico di non avere abbastanza tempo per conoscere di più. Dico spesso che sarebbe bello poter ingoiare un libro per saperne subito il contenuto, senza dover spendere giorni per leggerlo tutto.



- Molte volte sei tu, anche semplicemente camuffata, la protagonista delle tue opere, con insoliti e fantasiosi autoritratti. Il tuo corpo e il tuo volto, in alcuni casi privo di lineamenti come nella bella Simona, in altri casi imbottigliato come nell' "autoritratto" del 2003, compare e scompare tra le tue fotografie e quelle di Alessandro. Ciò che mi colpisce è la libertà con la quale ti sai re-interpretare, è la fantasia sempre differente con cui ti rappresenti o vieni rappresentata. L'autoritratto è un altro di quei fenomeni da sempre ricorrenti nell'arte, e forse una tra le ragioni stesse dell'espressione artistica. Senz'altro tra i riferimenti di un artista che come te utilizza la fotografia, ci sono gli autoritratti di Cindy Sherman che comunemente viene considerata tra i caposcuola della fotografia d'arte contemporanea. Vuoi descriverci l'importanza dell'autoritratto nella tua ricerca e quali sono gli autoritratti di fotografi moderni o contemporanei che più hai apprezzato?
Semplicemente ci sono delle immagini dove non riesco ad immaginare nessuno che posi oltre che me, vuoi perché mi toccano troppo da vicino, vuoi per via delle mie "dimensioni fisiche"...



- Torniamo alle tue fotografie; in Sposi di zucchero, L'umano duello o Effe, del 2004, cambi registro. Mi sembrano opere molto più vicine all'estetica dell'arte attuale e meno della fotografia in senso stretto. Trovo particolarmente riuscite, della prima la sua leggerezza orientale e come già ti ho scritto, della seconda l'enigma dichiarato di matrice surrealista. Le associazioni d'idee possibili generate dalle tue opere nel fruitore, anche emotivamente, tra episodi del passato e del presente dell'arte, del cinema, del teatro o della letteratura, possono essere moltissime, ed ora che ti scrivo ho in mente Lewis Carroll, tra l'altro anche fotografo. Mi interessa però comprendere come una tua opera "nasce", per quanto tempo viene elaborata nella tua mente e perché avverti la necessità di generarla.
...Come nasce... Alle volte sono pensieri, altre frammenti di un sogno o rivisitazioni di cose accadute. L'elaborazione nella mia mente è veloce, la realizzazione un po' meno. Nella maggior parte dei casi, costruisco io i costumi o gli accessori che servono, e per questo ci vuole un po' più di tempo. Perché avverto di generarla... è così... un'esigenza.





- E' bello sapere che tra due artisti di valore e buona autonomia espressiva, come te e Alessandro Di Giugno, entrambi fotografi, ci sia poi un sodalizio oltre che artistico, di natura sentimentale. Quale tipo di interazione si viene a creare tra la tua e la sua ricerca? Collaborate reciprocamente alla realizzazione delle vostre fotografie?
Capita che ci alterniamo ad essere l'uno l'assistente dell'altro. Non credo ci sia interazione fra le nostre ricerche, sicuramente c'è tra di noi. Discutiamo spesso cercando di entrare l'uno nella testa dell'altro.






- Quale ruolo ha l'elaborazione digitale nella realizzazione finale di una tua fotografia? Puoi raccontarci come tecnicamente realizzi una tua serie fotografica?
Nessun ruolo! Lavoro solo con mezzi tradizionali. Non ho mai utilizzato il digitale. Costruisco le scene e poi fotografo con una macchina analogica di medio formato.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci


NOTA

Stefania Romano è nata a Palermo, dove vive e lavora, nel 1975.
Nel febbraio 2004 ha tenuto una mostra personale presso la Quadreria del Lotto di Trapani. Nell'ottobre 2004 ha partecipato alla collettiva Senza freni, presso la galleria d'arte contemporanea Antonio Colombo di Milano.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2004)
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Stefania Ranghieri


- Tutti i tuoi recenti lavori hanno in comune la presenza di una fessura di diversa forma e dimensione; immagino che questa sia uno dei punti cardine della tua opera...

Dopo tanti anni ho sentito la necessità di dare al lavoro una valenza più oggettuale, per interscambiare il significato simbolico ed estetico. Il senso del lavoro continua a riempirsi di implicazioni filosofico etiche che devono assolutamente connubiarsi con quelle estetiche, ed una superficie bidimensionale non è più sufficiente a contenere tutto questo.
Diventa importante dare al lavoro una “architettura” sia pur minimale, che le permetta di essere una presenza, tale da poter contenere il più possibile quell’energia intrinseca, rivelatrice di significati simbolici attraverso un linguaggio estetico. Il lavoro assume una forma-volume semplicemente squadrata o rettangolare che si aggetta dal pavimento o dal muro per porsi in transito tra astratto e naturale, attraverso l’uso di pigmenti che rendono le superfici quasi tattili.
La simbologia del colore è quasi infinita e va dal carattere cosmico a quello spirituale, dal luministico naturale all’estetico astratto, reiterando sempre la costante dell’energia rivelatrice.
Tutti i miei lavori si presentano come dei monoliti più o meno grandi: semplici parallelepipedi pregni di pigmento con piccole aperture o fessure, queste rappresentano un possibile collegamento o passaggio per l’osservatore nell’opera, compressa in una forma piena e precisa, che non può esplodere ma può far trapassare quell’energia accesa in un tragitto tra la vita e la morte, verso la quarta dimensione. L’idea è quella di rendere il mio lavoro come una sorta di icona, ma che attraverso i tagli, le fessure, cioè attraverso la fente, dal francese: fessura disegnata per il passaggio di un qualche cosa, ci sia la possibilità di andare on the other side, come una sorta di stargate. Il pensiero e la vista possono orizzontalmente oltrepassare lo spazio e il tempo, accompagnati dal colore capace anch’esso di contenere la luce e di coinvolgere i sensi. In questo modo, dallo spazio-tempo in senso infinito è inevitabile ricollegarsi all’idea
(o alla domanda) del principio primo, la cellula, quindi l’idea di creare un’equazione tra perfezione di una forma astratta e perfezione alta del formarsi di una forma di vita.



- Un tuo lavoro, della serie The other side from inside(h), rappresenta dei soldati in una fossa circolare e intorno a loro un vuoto molto più grande; mi fa pensare ad una metafora sulla guerra: gli uomini paiono imprigionati in un piccolo cerchio senza possibilità d’uscita…

Riguardo a questo gruppo di lavori, a dire il vero sono partita da una motivazione un po’ diversa e che si accomuna anche all’altra serie Origini discese/the other side from inside. L’idea che li accomuna è quella di essere dei contenitori di un pensiero che ha a che fare con un principio etico, per me molto importante, cioè il principio di uguaglianza. Tutte le cellule prime che si riproducono per formare gli embrioni di una qualsiasi forma vivente, “sono uguali” per le prime settimane, poi ognuna di loro si modifica e prende le caratteristiche di quella determinata specie.
Questo principio accompagna la mia visione del mondo da anni, e ho sempre visto una grossa incongruenza tra ciò che la filosofia ha sempre dimostrato in anticipo di secoli, se non di più, rispetto alla dimostrazione scientifica che forse solo negli ultimi cento anni detiene il potere assoluto sulle nostre “domande prime“ anche rispetto a quelle di carattere esistenziale.
Già la filosofia greca, con Socrate o Plutarco, si era occupata del principio di uguaglianza e poi man mano nei secoli successivi, personaggi di rilievo si sono occupati di questa tematica che sposta completamente la visione del mondo dal pensiero “egocentrico” a quello “eliocentrico”; solo per citarne alcuni: Tommaso D’Aquino, Giordano Bruno, artisti come Leonardo Da Vinci e ancora Kant... Non è stato nemmeno sufficiente il trattato sull’origine della specie di Darwin, perché ancora oggi le diversità sono intese solo in scala gerarchica e all’apice ovviamente ci sono gli umani. Ma parlare di questa tematica attraverso il linguaggio artistico non è semplice anzi direi che è un’impresa davvero ardua, quindi sono voluta partire dal pensiero del principio primo “uguale per tutti”, dimostrato dalla scienza (in particolare dall’embriologia) in quanto le forme delle cellule sono simili perché contenitori di prime forme di vita, che poi saranno diverse forme di specie e questo dovrebbe portare ad una riflessione.



- Quali sono gli aspetti della nostra contemporaneità che più ami?

E’ una domanda giovane, carica di slanci verso il futuro e devo ammettere che da molto tempo continuavo a guardare e considerare solo gli aspetti negativi...
Il mio primo pensiero è rivolto all’idea di “libertà”, al fatto che la decostruzione di schemi produttivi e analitici degli ultimi decenni, fino all’annullamento degli stili, ha permesso un cambiamento radicale dell’idea creativa, che oggi si muove in senso trasversale toccando tutto ciò che è soprattutto parte della nostra società (non tanto rispetto al nostro sapere) ed è aperta a utilizzare qualsiasi strumento. Non ci sono più recinti, tutto è sconfinabile e si sente un clima di libertà totale del fare, visto che l’arte è dappertutto, come disse Baudelaire, e si può parlare di lei attraverso tutto, con tutto. Forse l’aspetto più rilevante è questa idea di pluralità delle forme artistiche e le linee del loro destino, in questa contemporaneità, porta inevitabilmente ad una differenziazione del loro ruolo, della loro funzione ma soprattutto del “senso estetico”.
Direi che anche le molteplicità dei canali di diffusione del prodotto e del pensiero artistico, ultimo dei quali anche internet, è un altro aspetto interessante di questa contemporaneità e per usare una metafora su come vedo il presente oggi: siamo particelle che orbitano nell’universo, non c’è gravità e questo permette di stare in un movimento continuo, tutto si mescola e poi si ridivide per poi rimescolarsi ancora per tenere un punto di vista sempre nuovo, sempre diverso; ma riconosco che alcuni aspetti, a mio avviso pindarici, interni al mondo dell’arte di oggi mi sfuggono.








- Che cosa pensi dell’arte contemporanea? Quali artisti trovi più interessanti?

Devo ammettere che mi lascia perplessa questa logica della produzione di valori e/o plusvalore, perché penso che più ci sono valori estetici sul mercato meno ci sono possibilità di giudizio preciso rispetto al significato. Ogni volta che visito gallerie, musei, o fiere d’arte il più delle volte mi ritrovo poi in una sorta di stordimento per la quantità di prodotti offerti ma, per lo più, sono immagini che non lasciano tracce di memoria, non vedo che tipo di conseguenze estetiche possano lasciare se non quelle di aumentare ciò che c’è già. Percepisco una specie di indifferenza formale all’utilità ed al valore, alla circolazione delle cose senza riserve. La contemporaneità è invasa di percorsi di tutte le vie della produzione e della sovrapproduzione virtuale: di oggetti, di segni, di messaggi, di ideologie, di piacere, di “cose!”; riconosco che è difficile orientarsi perché si rischia di passare da un’idea critica ad una non idea, cioè ad un caos vuoto, tutto è concesso tutto ha valore ma abbiamo bisogno di sapere e/o capire anche cosa non lo ha. Non mi dispiace il fatto che l’arte transiti ovunque nella realtà, e sul momento può rassicurare perché sembra essersi ridefinita in un ruolo ben preciso, ma nello stesso tempo mi preoccupa perché se adesso è così, come sarà possibile fare a meno della magia delle forme, dei colori e dell’immaginazione?
Personalmente sento ancora necessario pensare che l’arte sia e debba mantenersi come simulacro , con la potenza dell’illusione, dell’invenzione e dell’emozione estetica, drammatica o gioiosa, lirica o concreta che sia: che nella sua potenza, nella sua capacità di indagare il reale e di opporre al reale un’altra scena, ci sia il suo vero senso cioè il vero senso del fare, in cui tutte le cose si muovono per una regola del gioco superiore; e tanto più la regola sarà precisa e rigorosa, tanto più ci sarà emozione e piacere. Riguardo agli artisti contemporanei che trovo più stimolanti, vorrei ironicamente fare una distinzione: sono contemporanei solo coloro che sono in vita? oppure lo sono coloro il cui lavoro è ancora fortemente contemporaneo? come dicevo sopra, nell’immensa offerta di prodotti artistici mi rendo conto che l’attenzione ”prima “ è rivolta a tutto ciò che ha affinità (formali e di contenuto) al mio lavoro ma questo posso ritrovarlo anche in un’immagine fotografica come in un dettaglio pittorico; per quanto mi riguarda, i due artisti che amo di più in assoluto sono Anish Kapoor e Luis Barragan (ingegnere e architetto). Anche se possono sembrare molto diversi tra loro, penso che il loro lavoro sia fortemente carico di “pensiero puro” (in quanto astratto) cioè capace di contenere immaginazione poetica e trasformare lo spazio circostante in un luogo sublime; come si fa a non emozionarsi di fronte ad un lungo muro rosa che si staglia tra il cielo e l’acqua di una piscina (Scuderia San Cristoball - Messico) o ad una immensa campana rosa-lilla che avvolge lo spazio alto al di sopra di tanti osservatori con lo sguardo all’insù completamente avvolti! (Londra 2001). Ma mi ritrovo ad avere lo stesso impatto emotivo quando vedo un’opera di Spalletti o di Joe.Mc.Cracchen, per il loro rigore formale nella purezza cromatica e poi Erbert Hamach perché riesce a trasmettere un senso di piacevole “sapore” con i suoi parallelepipedi di resina colorata perché evocano un qualche cosa che ha a che fare con il piacere del cibo: cioè il gusto. Inoltre, il temperamento e la forza di una donna artista come Luoise Bourgeois che dimostra ogni volta, con il suo disinvolto pensiero creativo, quanto siano irrilevanti i dati anagrafici!
Ma rispetto alla nuova figurazione emersa in questi ultimi anni in Italia di giovani pittori, mi colpisce particolarmente il lavoro di Guadamacchi per queste sue visioni aereo-planimetriche delle megalopoli del mondo così monotone nel loro grigiore. Così come il lavoro, tra i tanti artisti fotografi, di Armin Linke sempre un po’ inquietante e drammatico come quell’immagine di Mahn Kumbh Mela, Pontoon bridge - over Gange river del 2001. Ecco forse questo è un documento che riesce ad equivalere “all’idea immaginata drammatica e poetica “ per il suo incredibile essere realtà vera. Credo sia qui quella linea sottile che attraversa in senso trasversale, come dicevo sopra, toccando tutto ciò che è parte della nostra società.






- Mi hai accennato, in altro contesto, all'importanza della musica nella tua vita; me ne potresti parlare?
Il mio rapporto con la musica è principalmente di carattere emotivo. Non posso dire di avere un’ampia conoscenza dell’universo Musica, perché anche qui, come per le arti visive, si tratta di un mondo vastissimo che produce una immensa molteplicità di prodotti musicali. Devo dire che ho scoperto i musicisti (artisti) che mi piacciono di più, vagando da una radio all’altra nel cuore della notte fin da quando ero adolescente; ovviamente con il tempo le scelte si sono affinate portandomi a prediligere principalmente la musica strumentale a matrice jazz come i brani di Chat Baker, John Coltrane e Miles Davis, artisti che considero ancora molto contemporanei, ma anche pezzi dove il jazz si mescola al funk, al rhythm & blues e poi la jungle music dei Saint Germain e buona parte della produzione acid jazz di questi ultimi anni; mi rendo conto che sto nominando la musica che prediligo attraverso dei “generi” e forse anche agli artisti musicisti contemporanei non piace essere inquadrati così ma non posso fare altrimenti. Per quanto mi riguarda penso che la musica prettamente strumentale sia l’equivalente dell’arte astratta, non ci sono le parole che rimandano inevitabilmente alle immagini descrittive, ma c’è un suono unico puro e assoluto capace di addentrasi nelle profondità sensibili ed emotive. Penso anche che nel jazz sia contenuta molto bene quell’idea di libertà creativa, come per le arti visive, capace di sollecitare profonde vibrazioni tali da liberarti del tuo peso in gravità e perdere il senso del tempo e dello spazio così come può fare una forma o un colore. Direi che anche la musica “è ed ha un colore”, malinconico come la tromba di Chat Baker, profonda e notturna come quella di Dj Krush (jazzista sperimentale giapponese), ma tentare di trovare una corrispondenza con i colori della pittura mi sembra una forzatura che rischia di banalizzare tutto. Nella musica ci sono altri colori, so di molti artisti che cercano di lavorare facendo questa operazione, uno dei primi è stato Kandinski mentre oggi può essere il lavoro di un artista americano che vive in Italia che si chiama Caponnetto; ma per me è diverso e così quando sono in studio a lavorare il suono di una tromba di un pianoforte o di un basso diventa vibrazione ed energia che sicuramente andrà ad arricchire quella tensione emotiva necessaria per lavorare e poter produrre, il più possibile, un buon lavoro di qualità.

Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

NOTA

Stefania Ranghieri è nata a Gallarate (Va) nel 1963, e si è diplomata in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Vive e lavora tra Milano e Sesto San Giovanni, e dal 1996 insegna Discipline pittoriche presso la Civica Scuola d’Arte Faruffini di questa città.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2001)
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Luca Trevisan

  
- Quali sono le tematiche che proponi con la tua pittura? Di quali elementi della realtà che vivi si nutre il tuo immaginario?
Non è facile per me presentare, attraverso una spiegazione razionale, le scelte di un itinerario di lavoro che si è sviluppato nel tempo e che non offre la linearità di un progetto narrativo precostituito e preordinato. Una riflessione sulle cose fatte, sulle diverse esperienze maturate, mi rivela, più che un percorso pianificato, un insieme di tappe. Queste tappe, quasi delle isole, costituiscono un metaforico arcipelago di situazioni che pur nella loro specificità, coesistono e dialogano grazie ad una serie di comunanze e corrispondenze di carattere contenutistico e formale.
I soggetti indagati sono quelli classici:il paesaggio (soprattutto quello urbano) e la figura nella pittura più descrittiva; l’indagine sulla forma (forme primarie, primitive, simboliche) la sua costruzione e organizzazione nella figurazione non oggettiva, nei lavori più legati all’ambito astratto.
La fotografia, la pittura, l’installazione, l’immagine digitale, l’incisione sono invece i mezzi, gli strumenti che di volta in volta hanno vestito i diversi progetti (le isole) realizzati in questi anni.
Poi alcuni elementi che costituiscono le costanti, i fattori identitari del lavoro: la realtà, come dato primario, concreto, come “punto genesi” presente in modo trasversale anche nei lavori meno figurativi; fonte continua di stimoli, impressioni, suggerimenti. La memoria, ulteriore serbatoio introspettivo da cui attingere stupori, ansie,gioie e inquietudini. Le suggestioni del reale e virtuale vivere quotidiano, percepito spesso con il carico di disagio, alienazione e nevrosi che lo contraddistingue. Il gusto per la contaminazione, sia dei mezzi espressivi che dei significati; il piacere per la sperimentazione.
Infine la comunicazione, prodotto filtrato di una sensibilità, dove un senso di estraneamento, quasi di disagio ne condiziona la forma; comunicazione neutra, indiretta,volutamente non esplicita.




- Ti senti vicino alla ricerca di qualche artista contemporaneo?
La vicinanza con la ricerca di un artista è qualcosa di molto particolare, di profondo, implica una condivisione che coinvolge le motivazioni, i percorsi, i prodotti.
Per quanto mi riguarda parlerei invece di sintonie verso alcuni autori, sintonie che scaturiscono in presenza di una corrispondenza tra me, fruitore di un’opera e l’opera stessa.
In questo caso l’incontro assume il significato di un arricchimento: può rappresentare lo stimolo, il punto di partenza per un nuovo itinerario di ricerca, può essere elemento importante per una maggiore comprensione e consapevolezza di un percorso già avviato, può divenire motore di nuove energie.
Molti sono gli artisti che hanno fornito questo contributo. Penso alle atmosfere di Kiefer, alle invenzioni di Schnabel, alla vitalità e forza di Baselitz, alle suggestioni di Kapoor, al cromatismo di Lupertz, alla fresca immediatezza di Disler. Ed ancora Sironi, Scipione, Licini, Bacon, Munch, Bonnard… tutti hanno lasciato una traccia, sono stati importanti per la mia crescita, hanno contato per la mia formazione culturale.
Questo processo continua ancora adesso, quando visito una pinacoteca, all’inaugurazione della mostra di un amico, sfogliando un catalogo o una rivista d’arte, in occasione dell’ultima biennale, oppure durante la visione di un film o di un video.


- Credi che il compito principale dell’artista sia quello di “creare qualcosa di nuovo”come recita il più conosciuto dei luoghi comuni dell’Arte?
Penso che il “nuovo” sia sicuramente un elemento importane per ogni artista .Bisogna però forse soffermarsi un attimo sul significato che ciascuno di noi attribuisce a questa parola e alla relazione che essa ha con il mondo dell’arte. Personalmente ritengo che il nuovo possa essere uno degli obiettivi prioritari di un percorso di carattere espressivo, ma non il punto di partenza o il fulcro intorno al quale far ruotare l’intero processo.
Trovo che da un punto di vista metodologico e concettuale sia pericoloso e scorretto partire con la convinzione che innanzitutto ciò che mi accingo a realizzare debba rappresentare una novità.
L’esperienza maturata in questi anni mi insegna che il principale riferimento per chi si impegna in ambito creativo debba essere piuttosto una costante riflessione,quasi una preoccupazione intorno alla qualità e alla coerenza del proprio operare.
E’ attraverso una dinamica di questo tipo, se condotta in modo efficace,che si ha la possibilità di conseguire quei risultati di rinnovamento necessari al raggiungimento di una proposta autonoma e originale.
Nuovo come punto di arrivo quindi, come frutto consequenziale, quasi naturale di un valido percorso di lavoro e di ricerca. 




- Parlami della tua collaborazione al progetto Spazi Residui.
Più che un progetto, Spazi Residui è il nome di un gruppo formato da tre artisti, Maurizio L’Altrella, Marco Cadioli e il sottoscritto. Siamo tutti e tre di Sesto San Giovanni, anche se Marco attualmente abita a Milano; ci conosciamo da anni, abbiamo partecipato assieme a mostre collettive, ognuno con propri lavori e queste frequentazioni comuni, insieme all’amicizia e alla scoperta di interessi e affinità condivise ci hanno portato alla decisione di formare un gruppo con l’intento di impegnarci in progetti studiati e realizzati a più mani.
Come gruppo siamo intervenuti alla rassegna Sesto.com, presso il MAGE OMC nel giugno 2001 con una installazione di sei grandi vasche in ferro (100 x 180 x 10 cm.) posizionate a terra e accompagnate da cinque fotografie a colori (100 x 150 cm.).
Nell’aprile del 2002 abbiamo esposto al Centro Culturale Valmaggi, sempre a Sesto con tre vasche a parete. Il tema di questi primi due interventi è stato la fabbrica, la fabbrica dimessa con tutte le suggestioni e gli stimoli che un simbolo come questo è in grado di offrire. Luogo rappresentativo su cui ci si è concentrati, da cui abbiamo tratto materiali, immagini e ispirazione è il magazzino ricambi Breda con il vicino Carroponte, situati dietro viale Sarca, dove si prevede sorgerà il Museo del Lavoro di Sesto San Giovanni.
Attualmente stiamo lavorando ad altri due progetti che si dovrebbero concretizzare entro la fine dell’anno presso degli spazi ancora da definire a Milano.
  





Intervista curata da Cristiano Mattia Ricci

NOTA

Luca Trevisan è nato a Udine nel 1962.
Ha frequentato per tre anni l’Accademia di Belle Arti di Brera (corso di pittura), e attualmente segue il laboratorio d’incisione presso la Civica Scuola d’Arte Faruffini a Sesto San Giovanni, città dove vive e lavora.
Espone con continuità dal 1983.

Intervista pubblicata su www. cerchioazzurro.com (2001)
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